Boom! La leggenda di John Madden
[quote]Sono la persona più fortunata nel mondo. Sono stato nel football per tutta la vita[/quote]
Alla fine degli anni Cinquanta i Philadelphia Eagles sono uno squadrone. Hanno già gettato le fondamenta per essere l’unica squadra che avrebbe battuto in una finale i Green Bay Packers. Ci riusciranno nel 1960, prima che la squadra del Wisconsin prenda il volo verso un’altra dimensione del football di quegli anni.
Nella posizione di quarterback Philadelphia schiera una vera e propria leggenda: Norm Van Brocklin, l’olandese volante. Van Brocklin era arrivato dai Rams un paio di anni prima ed era uno dei quarterback più in vista nel periodo in cui il gioco stava conoscendo le gesta di Johnny Unitas. Per chiarire meglio che tipo di giocatore fosse, basti ricordare che detiene ancora oggi il record per più yard lanciate in una sola partita (554 yard, 28 settembre 1951): questo primato ha resistito a tutte le generazioni di quarterback che si sono succedute e che hanno visto ricevitori migliori, modalità di allenamento diverse, cambi di regolamento che incoraggiavano il gioco aereo. Si sono avvicinati nomi del calibro di Y.A. Tittle, Moon, Roethlisberger, Stafford, Brees, Brady, Marino, Esiason… ma dal 1951 quel record è ancora la pietra miliare più difficile da scalzare.
Van Brocklin chiaramente era anche fior di studioso del gioco e passava molto tempo davanti ai filmati, per capire come trarre vantaggio da giocatori e situazioni al momento opportuno. In pratica stava già studiando da head coach, carriera che avrebbe intrapreso negli anni seguenti, prima con i Vikings e poi con i Falcons.
Era davanti ai filmati anche nel 1958, insieme ad un offensive tackle rookie che stava facendo riabilitazione, dopo un infortunio al ginocchio nel training camp che avrebbe stroncato sul nascere la sua carriera nel football professionistico. Nella sala del proiettore Van Brocklin pensava spesso ad alta voce, condivideva la sua esperienza sul campo con quel ragazzone dai capelli rossi che stava lì a far da cassa di risonanza e ad accettare consigli, magari a imparare il mestiere perchè non si sa mai nella vita. L’atteggiamento era giusto, era quello della matricola rispettosa che stava lì ad ascoltare e basta, perchè quello che parlava ne sapeva infinitamente più di lui, nella teoria e nella pratica. A quel ragazzo il football piaceva davvero tanto, ma quel ginocchio non gli avrebbe più permesso di giocare. Ma quella era davvero la sua passione, la sua ragione di vita.
Forse, impegnandosi nello studio del gioco avrebbe trovato la sua strada e magari, anche fuori dal campo di gioco, qualcuno un giorno si sarebbe ricordato del nome di John Madden.
A scuola dalla leggenda
Dal Minnesota, dove nel 1936 era nato John, i Madden si trasferiscono presto a Daly in California. La sua adolescenza è in tutto e per tutto incentrata sullo sport: John vive in pratica nel campetto vicino casa insieme a quello che sarebbe diventato il suo amico di una vita: John Robinson. Sono inseparabili, vivono per il baseball in estate e per il football in inverno, studiano le mosse dei grandi giocatori dell’epoca per impersonarli quando giocano al campetto. Tifano visceralmente per i San Francisco 49ers, che in quel periodo sono illuminati dalle gesta del grandissimo runner Hugh McElhenny. Insomma come tanti adolescenti mettono su una amicizia talmente forte da resistere all’infinito nel tempo.
Per un curioso intreccio di destini, anche John Robinson sarebbe in seguito diventato un allenatore. E che allenatore… Ma Robinson non è che una delle tante vite parallele a quella di Madden, con il solo e unico denominatore comune del football.
Dopo il breve apprendistato agli Eagles, John si impegna con tutto se stesso. Investe del suo per studiare la professione e documentarsi, per capire al meglio il gioco nella sua complessità.
Si iscrive quindi ad un clinic di un altro allenatore, che cominciava a costruire la sua fama con la disciplina ferrea che aveva avuto dai gesuiti. L’allenatore disegna alla lavagna uno schema e inizia a spiegare di cosa si tratta e perchè ritiene questo schema quasi la pietra angolare del suo gioco. La spiegazione iniziale, volendo, era abbastanza elementare anche perchè si trattava in pratica di una sweep…
[quote]Non c’è niente di spettacolare, è una cosa che ci fa guadagnare yard. Ogni squadra deve avere un gioco di questo tipo: quel gioco deve arrivare ad essere il suo pane quotidiano, è il gioco che la tua squadra sa che deve funzionare sempre, è il gioco che gli avversari sanno di dover fermare…
[/quote] Ma da quel momento in poi la spiegazione di una semplice sweep si trasforma in un discorso ispirato, che poteva durare anche per otto ore. L’istruttore non lascia nulla al caso perchè quel gioco deve funzionare in ogni condizione, contro ogni difesa, contro ogni stunt, contro ogni allineamento. Quello schema deve essere provato ogni giorno per ore e ore. Viene enfatizzato il fatto che in quello schema i giocatori chiave per la riuscita sono le offensive guard, più che il quarterback o il runner. Ogni giocatore deve essere in grado di gestire un numero enorme di variabili, e il gioco viene enucleato in ogni sua sfumatura fino ad arrivare a spiegare su quale gamba mettere il peso, se guardare la spalla dell’avversario o il suo numero di maglia. Non si lascia nulla al caso, perchè l’esito minimo di quel gioco non può essere inferiore a un guadagno di quattro yard, perchè tre guadagni di quattro yard sono un primo down.
Un inciso. La spiegazione di quello schema, così come è stata concepita all’inizio degli anni Sessanta, è presente anche in una pagina di un sito di consulenza e formazione aziendale (anno 2012) perchè non è semplice trovare una spiegazione migliore di un processo la cui riuscita è basata sul lavoro in team e sulla sincronia perfetta fra tutti gli elementi di un sistema complesso, presi singolarmente e considerata la catena di feedback. L’allenatore che teneva quel clinic era Vince Lombardi, e quello schema era la Lombardi Power Sweep.
Il confronto con Lombardi in quegli anni non era facile per nessuno. Non si trattava solo di allenare una squadra, per quanto complesso potesse essere. In quel periodo Lombardi stava costruendo una legacy destinata a diventare tutt’uno con il gioco stesso: trascurando Tom Landry che ai Giants effettivamente non era un suo assistente, Lombardi avrebbe sfornato dalla sua scuola diversi capo-allenatori, su tutti i suoi pupilli Forrest Gregg e Bart Starr. Ma il contributo dato da Vince Lombardi all’identità di quel gioco, al valore quasi mistico del concetto di squadra non va limitato solo alla sua discendenza sulla sideline. Lombardi praticamente non aveva una vita personale, la sua famiglia erano i Green Bay Packers (e questo ebbe anche ripercussioni sulla sua vera famiglia). Con la sua etica lavorativa, con i suoi risultati, con il suo approccio e purtroppo con la sua fine prematura, riuscì a divenire il simbolo del valore del sacrificio in questo sport, fino ad arrivare ad essere reso eterno nel momento più atteso ogni singolo anno da ogni singolo tifoso, perchè il sogno di tutti è quello di mettere le mani sul trofeo che dal 1970 porta, appunto, il nome di Vince Lombardi.
Per sua ammissione, Madden fu messo seriamente in difficoltà da questo approccio così totalizzante, anche se Lombardi era il suo idolo assoluto. Per spiegare uno schema lui non riusciva a mettere insieme una spiegazione che superasse i due minuti e si era appena confrontato con un allenatore che impiegava otto ore soltanto per spiegare una sweep. Si sentì svuotato, un bluff caduto anche davanti a se stesso. Ma raccolse idee ed energie e cercò comunque di assimilare forse il punto più importante di quello schema: la chiave della riuscita poggiava più sulla linea offensiva che sul runner.
Con questa lezione in tasca, riprende il suo cammino. Allena per quattro anni in un college californiano (Allen Hancock) e nel 1964 si trasferisce agli Aztecs della San Diego State University come assistente per la difesa. Da lì iniziano altri tre anni di apprendistato con un altro head coach che stava fiorendo, un uomo che nella NFL degli anni Settanta (“run first, ask questions later”) sarebbe stato visto come un pioniere, un superbo anticipatore della filosofia di gioco che sarebbe diventata dominante in maniera definitiva a partire dalla metà degli anni Ottanta: Don Coryell, l’uomo che inventò uno degli attacchi più spettacolari di sempre, quello dei San Diego Chargers.
Questa squadra non arrivò alla vittoria finale, c’erano troppi incastri che ancora non erano al loro posto: ma quel fantastico attacco guidato da Dan Fouts, in cui giganteggiavano giocatori del calibro di Kellen Winslow, John Jefferson, Charlie Joyner ha forse definito la misura con cui i sistemi offensivi avrebbero dovuto confrontarsi negli anni successivi.
Madden lavorava sulla difesa, ma cominciò a fare suoi anche i concetti relativi all’importanza del gioco di lancio, di quanto fosse necessario allungare le difese anche a vantaggio del gioco di corsa, del valore devastante di un big play al momento giusto.
La buona reputazione che il giovane Madden si sta costruendo comincia a dare i suoi frutti quando nel 1967 entra a far parte del coaching staff degli Oakland Raiders della AFL come allenatore dei linebacker. I californiani in quel momento sono allenati da John Rauch e nella loro dirigenza si sta facendo largo quello che sarebbe diventato presto il nome simbolo di quella squadra.
Stiamo ovviamente parlando di Al Davis.
Nel 1967 la AFL si era da poco fusa col nucleo originale della NFL. In quel periodo i due campionati erano ancora separati, ognuna delle due leghe giocava la propria regular season e la propria parte di tabellone dei playoff , che nel 1967 consistevano in tutto e per tutto di una sola partita. A quel punto, sconfitti gli Oilers, gli Oakland Raiders si sarebbero trovati davanti la squadra che aveva vinto la parte di tabellone della NFL (la suddivisione nelle due conference AFC e NFC sarebbe arrivata solo nel 1970).
Questo significava che per la seconda volta nella sua vita, e per la prima volta sulle sideline come avversario, John Madden avrebbe avuto di fronte a sè Vince Lombardi, perchè i suoi Packers avevano avuto la meglio sui Dallas Cowboys nel leggendario Championship giocato il 31 dicembre 1967.
In quella partita le condizioni climatiche erano talmente spietate da indurre Bullet Bob Hayes a correre le tracce con le mani nel marsupio se non era lui il bersaglio del lancio. Quelle condizioni stavano rendendo inapplicabile anche la scienza esatta della Lombardi Power Sweep, perchè i giocatori faticavano a tagliare su quel campo. La partita fu risolta alla fine da una QB sneak di Bart Starr, dietro il blocco della guardia Jerry Kramer. Fu una partita su cui l’alone del mito si materializzò in maniera quasi dovuta, perchè fu l’ultima di Vince Lombardi al Lambeau Field, la penultima come allenatore dei Packers. Fu il primo di una serie di scontri epici di quella fase della NFL a passare alla storia con un nome, senza bisogno di specificare le squadre in campo.
Perchè tutti, ma proprio tutti sanno chi ha giocato The Ice Bowl.
Il 14 gennaio 1968 i Raiders e i Packers si sfidano in quella partita che all’epoca si chiamava “AFL vs NFL World Championship” ma che, a tutti gli effetti, era il secondo Super Bowl dell’era moderna.
I Raiders perdono quella partita per 33-14. Partita sostanzialmente con poca storia, perchè i Packers, oltre ad essere naturali favoriti ed oggettivamente più forti, non potevano nemmeno pensare che l’ultima pagina dell’epopea di Vince Lombardi potesse essere qualcosa di diverso da una vittoria.
L’immagine del Maestro portato in trionfo da Jerry Kramer sarà una vera e propria icona di quella fase della storia della NFL.
Dal canto loro i Raiders uscivano sconfitti ma non umiliati nè ridimensionati nelle loro ambizioni. Nei ruoli chiave avevano giocatori davvero forti e tutti molto giovani: Fred Biletnikoff, Willie Brown, Gene Upshaw sarebbero stati di lì a poco le fondamenta di quello che stava per succedere sulla sponda neroargento della Golden Bay.
“Voi caricate il carretto…”
Un anno dopo la sconfitta nel Super Bowl, John Rauch decide di accettare la proposta dei Buffalo Bills dove di lì a poco avrebbe avuto a disposizione uno dei talenti più incredibili di quella generazione, il meraviglioso tailback da Southern California Orenthal James (OJ) Simpson.
Al Davis non mette tempo in mezzo e inizia la ricerca del successore di Rauch, provando prima con il defensive coordinator dei Colts, Chuck Noll (sì, questo significa che in un certo momento della loro storia i Colts avevano nel loro coaching staff sia Chuck Noll che Don Shula…). Ma Noll accetta la proposta dei Pittsburgh Steelers, dove avrebbe dominato la Lega per tutti gli anni Settanta.
Sfumata questa opportunità, John Madden si rende conto che sostanzialmente Davis si stava orientando verso un profilo di un allenatore giovane e con una conoscenza solida del gioco difensivo (perchè sia chiaro, su come si gestiva un attacco Al Davis voleva sempre avere l’ultima parola…). Ed in quel momento, anche alla luce del buon lavoro che aveva svolto sotto Rauch, ha un pensiero del tutto legittimo:
Why not me?
Davis era un istintivo, ma non era per nulla uno sprovveduto. Quindi sapeva bene che quella candidatura era sensatissima e nel febbraio del 1969, a soli 32 anni, John Madden diventa il più giovane capo allenatore della NFL.
Il passaggio da assistente a capo allenatore viene vissuto da Madden nel modo più sessantottino possibile. Non per una banale considerazione sulle date, ma semplicemente perchè la sua filosofia e il suo modo di rapportarsi ai giocatori erano guidati da un’unica idea, asciugabile in “Siate voi stessi”. Il primo ad attenersi a questa linea è proprio lui, soprattutto per non restare schiacciato da esempi ingombranti, Vince Lombardi su tutti.
Se avessi cercato di copiarlo, i giocatori lo avrebbero capito e non avrebbero avuto alcuna stima per una copia di qualcuno.
Se vuoi un minimo di longevità in questo sport devi semplicemente essere fedele a te stesso, ogni maledetto giorno
Mette solo tre regole essenziali e non derogabili
Puntualità. Sempre.
Negli allenamenti e nelle riunioni, quando parlo fate attenzione.
Sul campo, quando ve lo dico, scatenate l’inferno
No, sicuramente il clima ai Raiders non era quello a metà fra il monacale e il militare che aveva contribuito a costruire la dinastia dei Packers di Lombardi. Ma Madden e Davis cominciano a trovarsi sistematicamente d’accordo su tutto. I giocatori capiscono subito il rispetto, la fiducia e l’empatia che stanno avendo da quel giovane allenatore, quindi la definizione di players’ coach è semplicemente perfetta. Inoltre in quegli anni i Raiders avevano imbarcato una quantità di talento veramente invidiabile praticamente in ogni posizione.
Unendo i puntini, il disegno era chiaro nelle sue linee essenziali: questa squadra, messa in condizione di essere se stessa in campo, era lo strumento migliore per tradurre il mantra di Al Davis
Just Win, Baby
Il tutto calato su una filosofia di gioco che sarebbe troppo semplicistico ridurre alla ricerca spasmodica del big play, e forse non sarebbe nemmeno giusto nei confronti di Madden, che ha da subito l’intelligenza di capire che non sarebbe mai stato in grado di condurre una squadra come i suoi maestri, segnatamente come il Maestro. Assorbe quegli aspetti che erano funzionali al suo gioco, ma capisce e accetta che i Raiders non sarebbero mai stati paragonati alle armate del Generale Patton, come era accaduto per i Packers.
La parte fondamentale del suo lavoro a quel punto era quella di armonizzare al meglio quello che aveva appreso nella sua vita di avido studioso del gioco. Da Lombardi aveva capito che il controllo della palla e del tempo non poteva prescindere da un gioco di corsa dominante: magari non spendeva otto ore per spiegare una sweep nei dettagli, ma la sua idea era molto chiara. Si doveva vincere la battaglia nelle trincee, senza se e senza ma.
…a big guy rushing behind bigger guys blocking…
Da Don Coryell aveva capito che la chiave per un gioco sui lanci più redditizio che rischioso era quella di avere sempre in campo uno sprinter, un ricevitore dalle mani sicure e un tight end che doveva essere rispettato anche sulle tracce profonde.
Per gradi, gli ingredienti cominciano ad arrivare tutti, tanto che al culmine della loro parabola questi Raiders erano talmente forti da rendere quasi necessario un banalissimo elenco di tutti i nomi.
Non si può non partire con il lato sinistro della linea offensiva, che poteva permettersi di schierare contemporaneamente due Hall of Famers: Gene Upshaw come guardia, Art Shell come tackle.
Al centro c’era Jim Otto, che giocava con la maglia numero 00. Anche lui alloggiato a Canton, viene poi rimpiazzato da Dave Dalby, solidissimo ma non una superstar anche tenendo conto che in quel periodo doveva confrontarsi nel ruolo con gente oggettivamente più forte come Mike Webster e Dwight Stephenson.
Dietro quella muraglia giocava Ken Stabler, The Snake (il serpente). Quarterback mancino dotato di un braccio impressionante e con una capacità di gestire la pressione quasi senza pari.
Il comitato di runner esemplificava bene la filosofia sopra esposta: gente grossa come Marv Hubbard, Pete Banaszak e Mark Van Eeghen per lottare su ogni pollice fra i tackle e gente veloce ed elusiva come Clarence Davis quando si dovevano sfruttare i blocchi sontuosi di Upshaw e Shell sulle sweep e sulle off tackle.
I ricevitori ricadevano perfettamente nelle caselle scritte sopra: la velocità assurda di Cliff Branch, le mani sicure di Fred Biletnikoff, il predominio fisico del tight end Dave Casper, soprannominato “The Ghost”. Per inciso, Biletnikoff e Casper sono nella Hall of Fame e francamente è una ingiustizia che non ci sia anche Branch.
La difesa era ben messa in linea (Otis Sistrunk e John Matuszak), ma i termini di paragone in quel periodo erano proibitivi, perchè pur concedendo la parità di reparto con i Dolphins (Manny Fernandez, Bill Stanfill e Vern Den Herder, forti davvero), il confronto con la Steel Curtain era improponibile: White, Greenwood, Holmes e Greene furono la migliore linea difensiva di ogni epoca, senza pensarci nemmeno un attimo.
Anche il gruppo dei linebacker era decisamente solido: Phil Villapiano e soprattutto Ted Hendricks (Hall of Famer) erano ovviamente i due nomi più in vista, ma anche qui Pittsburgh aveva più talento, senza troppi dubbi: Jack Lambert e Jack Ham erano più completi, probabilmente più produttivi grazie all’aiuto della front four mostruosa che avevano davanti. Piccola curiosità: nel biennio 1970-71 nel gruppo dei linebacker era presente (con risultati trascurabili) anche Carl Weathers, che diventerà più noto per il personaggio cinematografico di Apollo Creed.
Le cose però cambiavano decisamente andando a vedere la secondaria dei Raiders, The Soul Patrol. Qui i californiani non avevano decisamente rivali: due apostoli della bump and run come Willie Brown e Skip Thomas nel ruolo di cornerback e due safety che non era praticamente possibile trovare fuori posizione come George Atkinson e Jack Tatum: questo reparto non temeva confronti, Pittsburgh aveva sì Mel Blount, ma nell’insieme i Raiders erano decisamente sopra.
Relativamente alla coppia di safety, oltre all’eccelso valore tecnico occorre sottolineare che erano due colpitori di una ferocia decisamente sopra la media: chi riceveva o chi passava dalle loro parti col pallone in mano (anche senza, a volte) doveva pensarci davvero bene. La cifra intimidatoria era sì una caratteristica dell’epoca, ma Atkinson e soprattutto Tatum facevano storia a sè.
Per aggiungere l’ultimo tassello, negli special team giganteggiava Ray Guy, l’unico punter chiamato al primo giro, l’unico punter ad essere stato indotto nella Hall of Fame, l’unico punter in grado di vincere le partite, come avrebbe affermato uno storico del gioco.
Un inciso: il motivo del confronto dei vari reparti con gli analoghi di Dolphins e Steelers sarà chiaro abbastanza presto. Per Madden e Davis la coabitazione con queste due squadre, sia per la parte sportiva che per l’organizzazione, stava rischiando di diventare una vera e propria nemesi.
Dopo aver presentato dal punto di vista tecnico l’enorme potenziale dei giocatori a disposizione dei Raiders, è opportuno ricontestualizzare un po’ il quadro alla luce del “Siate voi stessi” con cui Madden si era guadagnato il rispetto e la dedizione del gruppo.
L’incitamento del loro coach veniva preso dai ragazzi assolutamente alla lettera. Madden lasciava loro ogni libertà, incluso il dress code durante gli spostamenti…
Non mi risultano vittorie dovute all’aver indossato la cravatta in aereo
L’aneddotica qui è veramente sconfinata. Madden non vietava ai suoi di sedersi sopra i caschi nelle pause degli allenamenti, quindi non era infrequente vedere capannelli di quattro o cinque persone, magari con Biletnikoff in mezzo che fumava o si ripassava il mastice sulle mani.
Biletnikoff a volte esagerava un po’ con questa simpatica usanza, tanto che Jim Otto ricorda che una volta non riuscì praticamente a eseguire lo snap per colpa dell’adesivo rimasto attaccato alla palla. Quando chiedeva un chewing gum era un problema, dovevano praticamente imboccarlo.
Ken Stabler spesso si presentava agli allenamenti accompagnato da due o tre ragazze: il problema erano le presentazioni, perchè magari la notte in bianco non aiutava la memoria… Era uno dei pochi quarterback a cui l’allenatore concedeva anche la facoltà di chiamare i giochi nell’huddle.
Quando la partita è sul filo, The Snake è manifestamente un maestro. Ma se la partita è ormai indirizzata, qualche volta lui stesso si dimentica lo schema chiamato poco prima. Non gli piacciono le cose facili, è un viveur implacabile e dorme veramente poco.
La leggenda narra anche di come Ted Hendricks si presentasse agli allenamenti a cavallo e con un elmetto prussiano. Skip Thomas era soprannominato Doctor Death, e la sua automobile era griffata di conseguenza. Jack Tatum sembrava in costante guerra col mondo e con i suoi irrisolti personali. Era un personaggio troppo complesso per essere liquidato con qualche aneddoto. Era un giocatore tecnicamente ineccepibile e un colpitore devastante: nel football fisico di quegli anni molti giocatori a volte passavano il segno, lui lo ha fatto almeno una volta di troppo. In tutto questo fiorire di personaggi a questo punto l’anomalia vera sembrava il povero Art Shell: una volta, dopo un rimprovero per un blocco sbagliato, sembrava che Shell fosse sul punto di piangere. Madden andò immediatamente a consolarlo e ad elogiarlo e si ripromise di non riprenderlo più. E i blocchi sbagliati in carriera da Art Shell non furono molti, onestamente.
I Raiders non lasciavano nulla al caso: dove potevano trovare un vantaggio loro lo facevano, non necessariamente all’interno del regolamento. Uno degli eroi nascosti della squadra era il loro addetto all’equipaggiamento: Villapiano racconta che i suoi avambracci venivano praticamente ingessati prima della partita, in modo tale che i colpi avessero un diverso potere di persuasione (per i dettagli rivolgersi a OJ Simpson). Inoltre quando gli avversari giocavano in maglia bianca, protezioni e guanti dei lineman erano bianchi e viceversa quando gli avversari giocavano in maglia scura: non era un vezzo, ma semplicemente complicava la vita agli arbitri che dovevano stare attenti agli holding.
Per caricare i suoi ragazzi Madden conia l’improbabile motto
Don’t worry about the horse being blind. Just load the wagon!
(Non importa se il cavallo è cieco. Voi caricate il carretto!)
Per gradi, quella che inizialmente sembrava una galleria di strani personaggi, nel tempo si trasforma in una squadra vera. Dal suo canto Madden capisce che non c’era bisogno di essere il clone di qualcuno, fosse anche Vince Lombardi, perchè un rapporto vero con i giocatori non poteva prescindere dalla propria onestà personale. Replicare un role model era una strategia che avrebbe presto mostrato il suo limite. Scelse di essere in tutto e per tutto se stesso, soprattutto per mettere i suoi giocatori nelle condizioni di fare la stessa cosa.
E il carretto cominciava a riempirsi…
La creatura di Madden dimostra da subito il proprio valore.
Prima stagione, 1969: dodici vittorie e una sconfitta. Ovvia vittoria nella division. Uno spettacolare Daryle Lamonica lancia per 3302 yard, non una cifra banale in quel periodo. I Raiders arrivano al Championship dove vengono eliminati dai Kansas City Chiefs, che si sarebbero laureati campioni.
Seconda stagione, 1970: otto vittorie, quattro sconfitte e due pareggi. I Raiders vincono ancora la division. Arrivano nuovamente al Championship, dove cadono contro i Baltimore Colts, poi vincitori del Super Bowl.
Terza stagione, 1971: identico record in regular season, secondo posto nella division dopo i Chiefs. I Raiders mancano i playoff. Succederà solo un’altra volta con John Madden sulle sideline.
I Raiders del 1972 cominciano ad essere una squadra veramente forte. Molti dei nomi prima presentati erano già a roster, la regular season ristabilisce le gerarchie nella division, perchè la squadra di Madden mette insieme un record di 10-3-1 che ammette poche repliche. Il punto è che nel 1972 la regular season aveva pronunciato dei verdetti che non erano mai stati così chiari su quali fossero, o per meglio dire su quale fosse effettivamente la squadra più forte di tutti. I Miami Dolphins di Don Shula avevano chiuso la prima parte del campionato con il record di quattordici vittorie e zero sconfitte. Era la prima volta nell’era post fusione che una squadra si presentava ai playoff dopo aver compiuto il percorso netto.
Il 23 dicembre 1972 i Raiders vanno a Pittsburgh per il divisional round. Partita bloccata come non mai, le difese (e che difese) che riescono a silenziare gli attacchi per tutta la partita. Nell’ultimo drive offensivo dei californiani, Stabler segna con una corsa di trenta yard con il cronometro poco sopra al minuto. I Raiders sono ad un passo dalla vittoria, e a ventidue secondi dalla fine costringono gli Steelers a giocarsi un quarto tentativo dalle proprie quaranta yard, senza più timeout.
Una partita dominata completamente dalle difese sta per essere consegnata alla storia per un gioco offensivo, l’ultimo gioco possibile.
Bradshaw prende lo snap e arretra. La pass rush dei californiani ovviamente deve sacrificare qualcosa per mettere in campo uno o forse due defensive back in più, ma anche così i due defensive end Tony Cline e Harold Jones stanno per mettere le mani sul qb in maglia nera. Dopo essere arretrato fino alle proprie 30 yard, Bradshaw mette in aria il passaggio della disperazione.
Da quel momento in poi la storia viene letta in maniera diversa da chi tifa Pittsburgh (“il più grande miracolo sportivo di sempre”) e da chi tifa Oakland (“un crimine, il furto del secolo”).
Il lancio di Bradshaw arriva fino alla linea delle 35 yard dei Raiders, dove viene ribattuto, non si è mai capito bene se dal solo Jack Tatum o anche dal casco di John Fuqua (runner degli Steelers, che avrebbe reso la palla morta). La palla viene raccolta ad un nulla da terra da Franco Harris, che corre per circa una quarantina di yard nel delirio generale e entra in endzone praticamente a tempo scaduto. Gli arbitri inizialmente non segnalano nulla, devono cercare di capire effettivamente quale è stato lo sviluppo dell’azione.
Nei quindici minuti che seguono si realizza probabilmente una inimmaginabile successione di teorie complottiste, dal primo e non ufficiale uso del replay televisivo, alla conta dei poliziotti presenti nello stadio in caso di annullamento del touchdown. Alla fine gli Steelers chiudono la pratica con l’extra point di Roy Gerela, consegnando alla Storia del gioco la partita che di lì a poche ore sarebbe stata ricordata esclusivamente per il nome dell’ultima azione: The Immaculate Reception
Madden, che già di suo non aveva un rapporto propriamente idilliaco con gli arbitri, esce comprensibilmente devastato da quella battaglia di gioco e di nervi. Mancava sempre qualcosa a quella squadra, ma arrivavano sempre lì sulla soglia perchè erano comunque forti. Lo erano davvero.
Per sua ammissione, non ha mai fatto pace con quel risultato, con il destino truce della partita risolta in quel modo e senza avere possibilità di replica. Ma forse proprio quello fu il mattone più importante della costruzione che lui e Al Davis stavano tirando su.
Le partite col nome
La settimana dopo gli Steelers vengono eliminati in casa dai Miami Dolphins, che sarebbero poi andati al Coliseum di Los Angeles per superare in maniera perentoria l’ultimo ostacolo che li separava dall’Olimpo del football.
La perfect season era diventata una realtà.
Raiders e Steelers restano lì a curarsi le ferite, ma era ormai chiaro per tutti che le tre regine della American Football Conference facevano un altro mestiere rispetto al resto della concorrenza.
I Dolphins concedono il bis l’anno dopo (anche se i Raiders interrompono alla seconda di campionato la striscia di diciotto vittorie consecutive) e da quel momento in poi comincia il passaggio del testimone agli Steelers, che stanno per riuscire, unici nella storia della NFL moderna, a vincere quattro titoli in sei anni.
Madden e i Raiders dal loro canto non mollano mai la presa dal loro obiettivo. Non sarebbe giusto dire che la prendono con filosofia, perchè uscire sempre ad un passo dal traguardo non può far piacere a nessuno, umanamente. Ma capiscono che proprio perchè arrivavano sempre a quel punto, praticamente avevano tutto: talento, motivazioni, guida. E proprio questa tenacia assurda fece sì che le cose cominciassero a cambiare. I Raiders erano ormai rispettati da tutti per l’enorme forza che messa in campo, non solo per la loro fama di villain, peraltro comprensibile.
E le loro vittorie più famose cominciarono ad arrivare proprio nelle leggendarie partite col nome.
Come nel Divisional Playoff della AFC del 21 dicembre 1974, Dolphins-Raiders. Sul punteggio di 26-21 per Miami, i Raiders si trovano entro le dieci yard avversarie, ormai senza time out. Stabler arretra, in queste situazioni il mirino è ovviamente puntato su Biletnikoff che però è coperto. Den Herder supera il suo bloccatore e arriva a mettere le mani addosso al quarterback californiano, che riesce ad eseguire qualcosa di simile a un passaggio diretto verso il lato sinistro della end zone: fra le mani protese di tre difensori dei Dolphins spuntano quelle di Clarence Davis, che resiste a un contatto e mantiene il possesso. Il fermo immagine che riassume quella partita cattura l’unico nome possibile per quella giocata impossibile, che viene consegnata alla storia con il nome di Sea of Hands
Ma ormai quel deja vu sembra una maledizione: nel Championship Game i Raiders vengono maltrattati dai Pittsburgh Steelers che li sconfiggono per 24-13. E la leggenda degli incredibili Steelers degli anni Settanta prende il via proprio in quella stagione.
Ma anche se i Raiders cadono sempre sull’ultimo ostacolo, tutta la NFL prende atto che questa non è solo una squadra forte, ma è un modo diverso di vedere il football. Le partite al cardiopalma che hanno visto in campo i californiani negli ultimi anni stanno scrivendo la storia del gioco di questo periodo. Il loro modo di fare football, la loro idiosincrasia verso le apparenze, la loro vena di originale follia, il loro spirito da eroi negativi sono ormai una parte decisamente importante anche nell’immagine stessa della NFL. E proprio nel 1974 Steve Sabol, leggendario fondatore della NFL Films, scrive per loro le celeberrime strofe di The Autumn Wind, lette dalla voce inconfondibile di John Facenda e destinate a divenire l’icona mediatica del magnifico football degli anni Settanta.
La partita decisa da Sea of Hands fu la prima partita col nome risolta a favore dei californiani e certamente non l’ultima.
Altri due all time classic di quegli anni si risolsero a favore dei neroargento e vale davvero la pena ricordare quelle battaglie, decise curiosamente da uno stesso giocatore: il fenomenale tight end Dave Casper, detto The Ghost perchè, come il simpatico fantasmino dei cartoni animati, riusciva quasi a rendersi invisibile alle secondarie avversarie per poi materializzarsi al momento dell’arrivo del solito missile di Stabler.
Baltimore Memorial Stadium, 24 dicembre 1977: AFC Divisional fra Colts e Raiders. Partita da fuochi artificiali, con la squadra del Maryland in vantaggio 31-28. Palla ai Raiders, sulle proprie 44, 2nd-and-10 con 2:17 rimasti. L’offensive coordinator Tom Flores (che da capo allenatore avrebbe vinto due Super Bowl negli anni Ottanta) nota che le due safety dei Colts tendono ad avvicinarsi alla linea visto che di solito i Raiders in quella situazione mandano i ricevitori in slant e il tight end a bloccare. Flores dice a Stabler di fare caso a come si posizionano le safety, perchè se si avvicinano molto alla linea si può provare a mandare Casper in profondità, con una traiettoria post. Ma anche se una situazione di questo tipo è un invito a nozze per uno come The Snake, il lancio non esce bene, appena lungo e appena largo.
E qui Casper fa una giocata sensazionale, trova prima una robusta separazione dai difensori avversari, poi si aggiusta in corsa e riceve una bomba di 42 yard che porta i Raiders a distanza per un comodo field goal da parte di Errol Mann. La partita andrà avanti ancora fino al secondo overtime, dove ancora Casper riceverà il passaggio che sigilla sul 37-31 la partita che passerà ai posteri con il nome di Ghost to the Post
I Raiders perderanno il Championship contro i Broncos, che a loro volta verranno sconfitti al Super Bowl dai Dallas Cowboys, in una delle due vittorie dei texani (e della NFC) in un decennio dominato in tutto e per tutto dalle grandi della American Football Conference.
Un altro classico del thriller va in onda alla seconda giornata di regular season del 1978, a casa dei San Diego Chargers. I Chargers sono in vantaggio per 20-14 e a dieci secondi dalla fine i Raiders sono sulle 20 yard avversarie, nella più classica delle situazioni do-it-or-die. Stabler arretra per lanciare, ma sulla linea delle 24 viene colpito alle spalle dal linebacker Woodrow Lowe e con una sorta di fumble volontario si libera della palla, che comincia a rotolare in avanti. Sulla linea delle 12 yard il runner Banaszak sembra inciampare, apparentemente non riesce ad impadronirsi della palla e con le mani (non è immediato stabilire la volontarietà, ma sa che non deve farsi placcare) la tocca verso la end zone, dove anche Casper non riesce a controllarla prima della goal line e la spinge ancora in avanti toccandola con mani e piedi, fino a ricoprirla definitivamente in end zone per il touchdown del pareggio a tempo scaduto.
L’extra point di Errol Mann consegna la vittoria ai Raiders e scatena la rabbia dei Chargers. La dinamica dell’azione fu quasi comica, una sorta di inseguimento della saponetta con lo sferoide prolato che avanzava verso la end zone.
Per i Chargers (e non solo per loro) la volontarietà dei tocchi di Banaszak e di Casper era evidente, ma in assenza di giurisprudenza (che sarebbe arrivata subito dopo), gli arbitri concedono la segnatura e quell’azione passa alla storia come The Immaculate Deception per chi tifa Chargers, e per tutti gli altri con il nome ispirato di Holy Roller
Madden is on the field, he wants to know if it’s real.
They say yes, get your big butt out of here!
(commento radiofonico di Bill King)
Millenovecentosettantasei
Lasciamo da parte ora le partite strappacuore, perchè bisogna tornare indietro e riprendere il filo del racconto delle stagioni dei Raiders. Il destino sembrava aver ritagliato per loro il ruolo infame della squadra che cade poco prima del traguardo e ad opera del vincitore. L’anno prima, Madden aveva anche preso il suo amico John Robinson come allenatore dei running back, ma Robinson accetta in seguito il ruolo di capo allenatore alla University of Southern California.
Come detto, le sconfitte ai playoff non riuscivano a demoralizzare Madden più di tanto: prese comunque atto che gli ingredienti c’erano tutti ed erano di ottima qualità. Diventa uno dei primi allenatori ad affidarsi alla 3-4 come schieramento difensivo di base. Alla prima giornata i Raiders si scrollano di dosso il loro fantasma più ingombrante, battendo in casa per 31-28 gli arcirivali Steelers. Stabler è ispirato, manda due volte a segno Casper, una volta Biletnikoff e realizza lui stesso un touchdown su corsa. Anche se si trattava solo della prima partita dell’anno, il guanto di sfida era partito. Queste due squadre non si sono mai amate e decisamente in campo non se le mandavano a dire. Quello che succedeva fra ricevitori e defensive back da entrambe le parti era veramente per stomaci forti: se da una parte Mel Blount tentava di piantare Cliff Branch di testa come un ombrellone, George Atkinson e Jack Tatum non perdevano occasione per ricordare a John Stallworth, ma ancora di più a Lynn Swann, che cosa comportasse passare nel loro territorio. Il rumore dei colpi, specie quelli di Jack Tatum, si sentiva in mezzo a settantamila spettatori urlanti. Tutte e due le squadre si salutarono (si dice per dire) con la promessa di ritrovarsi a dicembre, per i playoff.
Ad un certo punto Lynn Swann prende un colpo alle spalle tremendo da George Atkinson: aveva già subito un trattamento analogo nel Championship dell’anno precedente e aveva dovuto lasciare il campo immobilizzato in barella. Gli Steelers non se la tengono e Noll esterna con la stampa la sua disapprovazione per l’atteggiamento dei Raiders. Tutti gli scambi verbali di quel periodo, in assenza dei social network, diventavano ritagli attaccati all’armadietto negli spogliatoi. E c’è da pensare che nei rispettivi spogliatoi lo spazio libero sugli armadietti fosse davvero poco.
Dopo la prima giornata i Raiders vincono due trasferte impegnative con Chiefs e Oilers, con un margine di pochi punti. Ma alla terza trasferta in una striscia di cinque consecutive, vengono sbeffeggiati dai New England Patriots per 48-17. I Patriots sono guidati dal miglior Steve Grogan, che in quella partita manda a segno due volte la loro stella nascente, il receiver Darryl Stingley.
Ma da quel momento in poi i Raiders non si fermano più: l’attacco è una macchina da punti e la difesa rende al meglio, ma soprattutto è in grado di togliere qualsiasi eventuale inerzia ai propri avversari con un gioco contemporaneamente intimidatorio e redditizio, perchè a parte il folclore, le maschere di Ted Hendricks, il baffo alla Fu Manchu di Villapiano, lo sguardo truce di Tatum e la macchina col teschio di Skip Thomas, questi sono forti davvero.
Sono talmente padroni del proprio destino che resistono anche alla tentazione di estromettere gli Steelers dai playoff, cosa che avrebbero potuto comodamente fare se si fossero lasciati battere dai Bengals nel Monday Night del 6 dicembre. Nonostante le allusioni neppure troppo velate della stampa di tutto il paese, i Raiders semplicemente maltrattano i Bengals per 35-20 in una partita che per i californiani non aveva importanza per la classifica. I Raiders a loro modo sono leali, a football non si gioca per perdere e forse a questo punto sono loro a volere il rematch contro gli Steelers ai playoff.
E gli ingredienti, appunto, ci sono tutti. Il numero 12 che domina la NFL in quell’anno è quello di Stabler (Pro Bowl e All Pro), non quello di Bradshaw. E gli altri convocati per il ProBowl in quella stagione sono Branch, Casper, Art Shell e Phil Villapiano. Ray Guy è convocato per default, tanto per ricordarlo.
La regular season dice chiaramente che la squadra di Madden è la più forte dell’American Conference, ma non è una novità e per i californiani non suona neppure troppo come un buon auspicio, a vedere il recente passato.
Nel giorno della vigilia di Natale i Raiders ritrovano nel Divisional l’unica squadra che li ha battuti (e bene) in stagione. I New England Patriots di quegli anni sono una onesta macchina da football in una division solitamente dominata dai Dolphins. Ma giocano una partita senza sbavature e alla fine del terzo quarto sono in vantaggio per 21-10, con tutti gli spettri più nefasti che si addensano sul cielo del Coliseum di Oakland. Ma nell’ultimo periodo due corse di una yard di Van Eeghen e di Stabler (a pochi secondi dalla fine) fissano il punteggio sul 24-21 per i californiani.
E al Championship, ovviamente, trovano i Pittsburgh Steelers. Gli Steelers sono senza una delle loro stelle, perchè Franco Harris è infortunato. E manca anche Rocky Bleier. La partita non ha storia, i Raiders sempre in pieno controllo nel punteggio e nella sostanza. Il gioco di corsa dei californiani è inarrestabile: dividendosi portate e yards, Van Eeghen, Davis e Banaszak guadagnano quasi 160 yards in tre, con Stabler che mette palla per aria il minimo indispensabile (10 su 16, 88 yards, 2 TD). Il punteggio finale di 24-7 è fin troppo chiaro.
Superata la loro nemesi storica, i Raiders arrivano al Super Bowl per la seconda volta nella loro storia.
Troveranno i Minnesota Vikings, squadra molto solida guidata in attacco da Fran Tarkenton, Hall of Famer e MVP della stagione precedente, che si stava avviando a stabilire i record per completi, yard, touchdown… insomma tutto quello che poteva fare un quarterback per aprire la strada, qualche anno dopo, a Dan Marino.
Ma i Vikings non sono solo Tarkenton. Hanno un runner sensazionale (Chuck Foreman, 1155 yards e 13 TD), due ottimi ricevitori (Ahmad Rashad e il rookie Sammy White) e due probowler in linea offensiva (Ed White e Ron Yary). E in difesa un po’ di nomi fanno davvero spavento, sono l’ultima generazione dei Purple People Eaters: in linea giocano Carl Eller e Alan Page, due Hall of Famer, insieme a Jim Marshall (ottimo giocatore che passerà ingenerosamente alla storia per aver riportato un fumble dalla parte sbagliata per una ottantina di yard, concedendo una safety). Buoni linebacker come Blair, Siemon e Hilgenberg, e una secondaria solida guidata dal corner Nate Allen, sette intercetti in stagione. Non un cliente facile, sulla carta.
La partita si gioca il 9 gennaio 1977 al Rose Bowl di Pasadena, dove il giorno di Capodanno i Trojans della University of Southern California allenati dall’eterno amico John Robinson si erano aggiudicati il Rose Bowl stesso battendo i Michigan Wolverines per 14-6.
Nel primo quarto in campo ci sono solo i Raiders, ma il punteggio non si muove perchè Errol Mann non mette a segno un field goal da posizione peraltro comoda. Una nota a margine: in questo squadrone forse l’unica anomalia era proprio Errol Mann, che era veramente scarso. Era il kicker di riserva, a causa di un infortunio del titolare Fred Steinfort a metà della regular season…
Ma la partita prende la sua strada nel secondo periodo. I Raiders sono manifestamente ingiocabili per i Vikings. La difesa mette una pressione immane su Tarkenton, Foreman cerca di fare il suo ma è sempre troppo poco. E in attacco i californiani dominano. Pilotate dai blocchi imperiali di Shell e Upshaw, le corse funzionano divinamente e i guadagni sul lato sinistro arrivano con continuità. Clarence Davis va a nozze dietro ai blocchi dei due fuoriclasse e finirà per guadagnare 137 yards in 16 corse (8,5 di media!). Mark Van Eeghen ne aggiunge altre 73 in mezzo, e Banaszak (2 TD) e Garrett ne aggiungono una ventina a testa. Le yards su corsa totali saranno duecentosessantasei (con una media a portata superiore alle 5 yard).
Per completare il discorso sull’attacco, Stabler può giocare veramente in poltrona. Se le corse funzionano così potrebbe limitarsi a fare il suo. Trova per un touchdown di una yard l’immancabile Casper, e poi gestisce il campo e il tempo con maestria. E quando serve, diventa risolutivo Fred Biletnikoff, che verrà fermato ad una yard dal touchdown per tre volte su quattro palloni ricevuti e verrà nominato MVP dell’incontro.
I Raiders sono in trance agonistica totale, gli sta riuscendo tutto e si stanno gustando a modo loro ogni minuto, ogni giocata della partita che sta per consegnarli alla Storia.
Due giocate difensive nel quarto periodo (a partita ampiamente decisa), diverranno l’epitome della Soul Patrol.
La prima è il colpo devastante che Jack Tatum porta sul rookie Sammy White, ampiamente il migliore dei Vikings quel giorno. Tatum ha sempre avuto quasi la proprietà di materializzarsi in campo senza essere visto prima dal ricevitore. E’ raro vederlo arrivare di rincorsa, ha un senso della posizione inspiegabile, entra nell’inquadratura nell’ultimo fotogramma utile: quando arriva l’uomo con la palla lui è lì, cupo, pronto ad assestare colpi di una ferocia che trova pochi confronti. Su un 3rd-and-11 Tarkenton trova Sammy White per un ampio primo down, ma insieme alla palla arriva Tatum, non visto, che con un colpo veramente tremendo (e assolutamente lecito, portato solo con il paraspalle), fa saltare il casco a White che, non si sa come, riesce a tenere il possesso e a guadagnarsi il primo down, pur a caro prezzo.
Ma lo show della Soul Patrol non è ancora finito. Sotto per 26-7, i Vikings onorano comunque la partita. Sulla linea delle 28 in territorio Raiders Tarkenton cerca Sammy White su una traccia esterna corta. Ma da quel lato sta presidiando l’eterno Willie Brown, uno dei corner più bravi di quel periodo. Brown anticipa le intenzioni di Tarkenton e nemmeno deve interrompere la sua corsa. Quel ritorno di 75 yard sarà una delle immagini più famose non solo nella storia dei Raiders, ma anche per tutto il football degli anni Settanta.
Il punteggio finale di 32-14 dice tutto. Finalmente, e con pieno merito, i Raiders di John Madden sono i campioni della National Football League.
Se si trattasse di una squadra meno ricca di paradossi e di aneddoti, il racconto del trionfo in un Super Bowl si potrebbe tranquillamente fermare qui. Ma stiamo parlando dei Raiders, quindi abbiamo visto che applicare stereotipi e modelli di comportamento non serve a molto…
Madden viene preso in braccio da Ted Hendricks e John Matuszak per il meritato trionfo, ma dopo qualche passo uno dei due giocatori non si accorge nella calca di un cameramen che non poteva arretrare. La scena del trionfo finisce con un notevole effetto valanga, ma va bene così.
L’ultima caduta non conta, perchè stavolta Madden e i suoi hanno davvero superato tutti gli ostacoli.
Storia di un burnout
Negli anni successivi al loro primo Super Bowl, i Raiders sono ancora troppo forti per non essere competitivi.
Bisogna tenere presente che in questi anni alcune caselle nella squadra All-Pro sono praticamente già prenotate: quelle sicure sono Ray Guy e i due miti viventi sul lato sinistro della linea offensiva. Con buona regolarità anche Dave Casper, Fred Biletnikoff e Cliff Branch. Non si va in crisi con questo tipo di organico e con un allenatore che riesca a motivarli.
Nel 1977 vincono la AFC Western e il Divisional (lo vincono alla loro maniera, vedere alla voce Ghost to the Post), ma perdono il Championship contro i Broncos.
Nel 1978 terminano con il record di 9-7 e non vincono la division, cosa che era accaduta solo un’altra volta nel decennio.
Quella stagione comincia nel modo sbagliato.
Il 12 agosto 1978 si gioca una partita di preseason. In quel periodo (forse si potrebbe pensare prima di quella partita) non era infrequente vedere i titolari in campo anche ad agosto. Darryl Stingley, fortissimo ricevitore dei Patriots che era stato l’artefice dell’unica sconfitta nell’anno del titolo, salta per ricevere un lancio un po’ over di Steve Grogan. La palla è troppo alta, irricevibile. Jack Tatum non ritiene di doversi fermare e colpisce Stingley. Frattura di due vertebre cervicali.
Darryl Stingley non camminerà più.
John Madden va a trovarlo in ospedale ogni giorno, non appena finisce il suo lavoro: forse una sera gli salva la vita, perchè si accorge del malfunzionamento di un macchinario e chiama subito l’infermiera. Fra le sette sconfitte di quell’anno, quella con i Patriots alla quarta giornata ha un peso specifico tutto suo.
Madden forse ha tirato le somme. Qualcuno ipotizzava dissapori con Al Davis, decisamente un capo molto presente. Ma Davis e Madden si sono sempre trovati d’accordo su tutto. Madden ha ricevuto il miglior supporto possibile e ha sempre visto come un pregio il fatto che fra lui e la persona che prendeva le decisioni non ci fossero intermediari. I due sono sempre stati in sintonia, sia per la filosofia con cui costruire la squadra che su quella con cui farla giocare. Molti avanzavano dubbi sul fatto che Madden fosse poco più che una marionetta, ma lui con grande intelligenza neppure li considerava. Era una persona che amava quello che faceva, aveva trovato il suo equilibrio e affrontava i problemi anche con una robusta dose di ironia.
Quando un intervistatore lo chiamò “Al”, lui rispose tranquillamente
Mi chiamo John. John pensa che questi sono tempi veramente difficili…
La sua carriera gli ha dato tutto. Ha vinto un Super Bowl, e mai nessuno ha avuto una percentuale migliore in uno stesso numero di anni. In dieci stagioni ha vinto 103 partite su 142, mai un record negativo, solo due volte non ha condotto i suoi ai playoff. Sei volte arrivato al championship per essere eliminato da chi avrebbe vinto il titolo. Dopo la vittoria del 1976 aveva chiuso il cerchio. L’unica era ripetersi, ma nella NFL è veramente difficile.
Sono stato ai Raiders per dodici anni, per dieci come capo allenatore. Questi dieci anni sono stati i più felici della mia vita. Ho dato tutto quello che avevo e ora non ne ho più. Non sto dando le dimissioni, non mi sto ritirando, sto semplicemente dicendo che non allenerò più
(4 gennaio 1979)
La coppia perfetta
La presenza fisica di Madden sulla propria sideline non può passare inosservata. Non c’è mai stato nulla di inventato, lui ha fatto della spontaneità un modo di essere a cui non deroga mai: è sempre paterno e positivo coi suoi rinnegati (“Rimproverare un ricevitore per aver droppato una palla è una cosa da idioti”) ed è sempre una furia incontenibile ogni volta che un arbitro lancia una flag sospetta (in qualche occasione le yard su penalità erano confrontabili con quelle guadagnate su corsa, per mettere le cose in prospettiva). A suo modo, ci ha messo molto poco a diventare un media darling da allenatore, quindi l’idea che ha la CBS di portarlo in cabina col ruolo di analista sembra un passaggio del tutto naturale. Ma qui è Madden stesso ad avere le sue perplessità: non ha mai avuto particolare interesse per quello che succedeva al di fuori del campo di gioco, meno che mai per le televisioni. Si è sempre portato bene nelle occasioni istituzionali, ma le sue energie erano tutte per il campo e per la squadra. No, non ha nessun particolare interesse per quel tipo di carriera, inizialmente.
Il suo agente lo convince a riconsiderare il rifiuto iniziale, in fondo si trattava di quattro o cinque partite. Madden ci prova e tutto sommato ci prende gusto, si diverte: il ruolo di analista in effetti lascia tantissima libertà per spiegare il football a modo suo. C’è da pensare, almeno all’inizio, che si divertisse di meno chi faceva il play-by-play della partita e doveva condividere gli stessi spazi… Racconta Bob Costas, il suo primo partner, che Madden prendeva praticamente i quattro quinti dello spazio disponibile…
Madden ha la sua curva di crescita con i vari Bob Costas, Dick Stockton, Gary Bender, Vin Scully.
Proprio in questo periodo iniziano a manifestarsi claustrofobia e attacchi di panico, che gli impediscono di prendere l’aereo con serenità. Dopo un volo problematico verso Houston, Madden capisce che la cosa migliore da fare per evitare quel disagio è di spostarsi tra le varie città prima in treno, poi in pullman. Dal 1987 si fa allestire una sorta di ufficio mobile, il Madden Cruiser, su cui percorrerà il paese in lungo e in largo.
Bisogna notare che probabilmente a quel punto della sua carriera gli avrebbero concesso tutto, perchè dopo il primo periodo di assestamento, Madden diventa di gran lunga l’analista più popolare di tutti, in virtù di un ovvio mix fra una robusta conoscenza del gioco e una naturalezza nell’eloquio e nel modo di porsi che nel tempo lo rende una presenza imprescindibile per tutti, pubblico e addetti ai lavori.
Quando la sua strada si incrocia con quella di Pat Summerall, la definizione di coppia perfetta si materializza dietro ai microfoni.
Summerall è un mago del play-by-play, ogni sua parola aggiunge una informazione e una connotazione, non c’è nulla di superfluo.
Madden deborda, spiega, regala espressioni idiomatiche e onomatopee che rendono unico il suo stile e contemporaneamente fanno la fortuna di un buon numero di imitatori (Frank Caliendo testa e spalle su tutti…). Si comincia a parlare di “Maddenisms”, di giocate spiegate con “Boom!”, “Doink!”, “Whack!”, “Hokey Pokey”. La spontaneità di Madden continua ad essere la sua arma vincente. Quello che mette nei suoi commenti è un semplice concentrato di gioia e passione per il gioco. E tanta genuinità.
La sua carriera da colour commentator durerà per trenta anni, con la CBS prima e con Fox Sports poi.
La sua ultima partita (e che partita!) è stato il Super Bowl XLIII, Arizona vs Pittsburgh, commentato insieme ad un altro mostro sacro a nome Al Michaels.
Ma il contributo di John Madden alla voce “Football & Media” in quegli anni non si è limitato ad una carriera che in trenta anni gli ha portato una collezione notevole di Emmy Award. Dal 1990 in poi John Madden ha fatto anche altro…
No, non ci stiamo riferendo agli spot della birra in cui immancabilmente arrivava sfondando la parete di carta. Quelli erano divertenti nella misura in cui non diventavano ripetitivi.
Ci stiamo riferendo all’ultimo passo necessario perchè il suo nome diventi tutt’uno con quello che ruota intorno al suo sport, alla sua ragione di vita.
“It’s in the Game!”
Nei primi anni Ottanta la Electronic Arts è una delle prime rampanti software house nel mondo dei videogiochi per personal computer. Non intendiamo i mostri di oggi, che hanno una potenza di fuoco impressionante a livello hardware. No, stiamo ancora nella beata fase dei sistemi a otto bit, nel periodo in cui la Nintendo partorisce una sorta di patata in movimento a cui viene dato il nome di Super Mario…
In quel periodo la Electronic Arts arriverà a sfornare pezzi veramente pregiati, riuscendo a coinvolgere nomi grossi nel proprio brand. Julius Erving, Larry Bird, Michael Jordan erano protagonisti di memorabili sfide “One On One”.
Il successo delle simulazioni sportive convinse la Electronic Arts a creare un ramo e un marchio a parte, la EA Sports.
Nel 1984 Trip Hawkins, fondatore della Electronic Arts, decide che il miglior commentatore possibile per il videogioco EA sul football non poteva che essere John Madden.
L’abbinamento fra Madden e la EA Sports è il più grande successo di ogni tempo nella storia delle simulazioni sportive. Lo stesso coach, con la consueta vena fra l’ironico e il bonario, si stupisce di essere più noto per il nome di un videogame che per tutto quello che ha dato al football nella sua carriera da allenatore e da commentatore.
Anche su questo sono stato fortunato. Non sapevo nemmeno cosa fosse un videogame
Nel tempo il marchio “Madden NFL Football” diventa il videogame ufficiale della National Football League, avendo anche l’esclusiva per un lungo periodo. Il numero di copie vendute negli anni supera abbondantemente i cento milioni di unità. Chiaramente il gioco ha seguito e sfruttato l’evoluzione dei pc e l’esplosione delle nuove console. Il livello di dettaglio degli ultimi anni arriva fino all’esatta riproduzione dei tatuaggi dei giocatori. Ogni anno le star della NFL vengono riempite di sensori e riprese per replicare i movimenti. Uno dei mestieri più invidiati è quello del Madden Rating Specialist (colui che assegna le valutazioni ai giocatori), confrontabile con il critico che assegna le stelle Michelin ai ristoranti.
A Canton, tra amici
La conclusione più logica di una carriera così sembrava non volesse arrivare. Madden per lungo tempo non era riuscito a chiudere il cerchio della sua vita per il football, perchè dire solo carriera sarebbe riduttivo. Ci riesce nel 2006, quando finalmente viene introdotto nella Hall of Fame.
L’annuncio gli arriva totalmente a sorpresa, mentre si trova a Detroit per preparare il Super Bowl fra Steelers e Seahawks. Nessuno lo ha neppure preallertato, quando si mette a vedere Rich Eisen che presenta la classe del 2006 su NFL Network.
Ormai non ci credo neanche più.
La telefonata non è arrivata neppure quest’anno, pazienza.
Mi metto davanti alla tv, e sento l’annuncio.
Sono allo stadio, in una stanzetta, qualcuno accende la TV.
Mi dicono che se voglio possono spegnere, ma non fa niente, sentiamo…
Primo nome: Troy Aikman, non fa una piega.
Poi Harry Carson. Può starci.
Poi…“… John Madden…”
Non ho capito più nulla per almeno ventiquattro ore…
L’unico nella stanza ad avere una macchina fotografica è il figlio, che fotografa come meglio può quell’attimo irripetibile.
Si gusta il viaggio nel suo Cruiser, senza fretta, sistemando appunti e ricordi di una vita. Il discorso di presentazione, sembra quasi superfluo specificarlo, lo terrà Al Davis.
Dopo la sua uscita dalla scena mediatica, John Madden è ancora e sempre uno dei nomi più visibili nella storia della NFL. Ha salutato per l’ultima volta gli amici di una vita che se ne sono andati, come Pat Summerall e Ken Stabler, senza bisogno di trattenere la commozione, perchè anche quello è essere fedeli a se stessi.
E alla fine, l’uomo il cui nome è divenuto praticamente tutt’uno col gioco, resta quasi attaccato ai suoi sogni adolescenziali, ai suoi idoli di una vita.
[quote]Sapete, mi piace immaginare che la sera, quando la Hall of Fame chiude ai visitatori, tutti i busti dei campioni che si trovano lì dentro si mettano finalmente a parlare tra di loro, a raccontarsi i loro ricordi e le loro storie, a parlare delle vecchie partite e del gioco.Sì, deve essere così[/quote]
E magari lì in mezzo, in rispettoso silenzio, si potrà sentire la voce di qualcuno che spiega la sua power sweep.
Straordinario ritratto.
Grazie 🙂
Bellissimo articolo. Grazie
Meraviglioso, splendido articolo, come sempre d’altronde.
Articolo bellissimo che mi ha fatto conoscere meglio i personaggi e le vicende sportive di un’epoca che non ho vissuto. Ottimamente scritto, a metà tra cronistoria e biografia. Non una parola di troppo né una di meno. Complimenti!!