Indagini ad alta quota: vita da cornerback
That’s me in the corner
That’s me in the spot-light
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don’t know if I can do it(R.E.M., Losing my religion)
Il concetto di sport di squadra declinato nel football è abbastanza semplice: è la missione del compimento del proprio dovere con l’assunzione dogmatica che il compagno farà il suo al massimo delle sue possibilità. Il quarterback lancia perchè la linea lo protegge, il runner passa dove guardia e tackle puliscono la strada, il linebacker riesce a blitzare perchè il defensive end viene raddoppiato. Tutti gli esempi che volete: sono giusti e inattaccabili.
Adesso cambiamo per un attimo punto di vista.
Hai davanti colui che per giudizio unanime è il miglior ricevitore della lega.
Il prossimo gioco sarà un lancio, non ci piove, è un terzo e lungo e questi non hanno running game.
Il solito cuscinetto di una decina di yard, perchè con quelle leve se mette il naso avanti è andato.
Il fatto che è più alto di te di venti centimetri ovviamente è la ciliegina sulla torta.
Parte l’azione e pensi solo a lui, è il tuo lavoro.
Uno contro uno, altro che squadra.
Ormai non puoi manco guardarlo male che vola una flag.
Pedali all’indietro, vedi che si allarga e prende la sideline.
Cerchi di non perderlo, ha già quel passo in più.
Occhio che si è girato e si sta preparando a ricevere.
Sei punti per lui e il pubblico ludibrio per te, se hai bucato la copertura.
La palla è in aria e in quel momento l’unica cosa che puoi fare è reagire…
Magari poi succede questo…
Chiaramente non abbiamo la presunzione di sapere cosa passasse per la testa di Brent Optimus Grimes prima della giocata in fotografia, ma potremmo non essere troppo lontani. L’azione del corner dei Miami Dolphins, peraltro eseguita nella stessa giornata della ricezione a tre dita di Odell Beckham Jr, ha ovviamente tirato giù dalla rete tutte le aggettivazioni possibili e immaginabili per una prodezza del genere: filthy, silly, unbelievable, ridicolous… tutto l’hype del caso, andando anche oltre i confini del kitsch. Paradossalmente Grimes è uno dei rari casi in quel ruolo di giocatore che tiene un approccio abbastanza low profile, perchè la vita di un cover guy nella NFL non è mai stata facile e loro si difendono anche attaccando, se necessario.
C’è una asimmetria nel contributo che un corner dà alla difesa rispetto a quello che riceve. Un corner deve fare di tutto: deve ovviamente difendere le corse, se serve deve blitzare, la copertura è il suo compito primario e molto spesso sentiamo i commentatori parlare di coverage sack, ovvero di marcature talmente puntuali ed efficaci da indurre il quarterback a non prendersi il rischio di lanciare e ad incassare il placcaggio suo malgrado.
Ma quando il quarterback mette la palla in aria si capisce questa asimmetria. Doppie coperture a parte, di solito il corner è solo contro il ricevitore, con tutte le limitazioni regolamentari del caso. Deve capire la traiettoria della palla e quella dell’avversario, deve prendere molte decisioni in poche frazioni di secondo: capire se può andare per l’intercetto, se riesce a non far ricevere l’avversario o anche solo a limitare i danni, deve sentire quello che sta succedendo avendo un margine di errore risibile. E in quel momento è solo, e spesso rischia di fare la fine del portiere descritto dai versi di Umberto Saba nel 1934
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.(Umberto Saba, “Goal”)
Afflati poetici a parte, ci apprestiamo a conoscere meglio uno degli attori fondamentali del momento di gioco più eccitante e magnetico, quello che inizia quando la palla lascia la mano del quarterback e dopo un tempo per tutti interminabile arriva nello spazio aereo dove parte una battaglia con regole di ingaggio molto precise e vincolanti tra due entità quasi soprannaturali: in quell’attimo si sfidano in un duello tutto individuale, che lascia fuori dalla porta tutti i bei discorsi sul lavoro di squadra per ridursi al più classico dei me against you, della protezione dello spazio aereo, della end zone, del proprio ego: il ricevitore contro il cornerback.
I requisiti e le specializzazioni tecnico-atletiche necessarie agli interpreti di questo ruolo delicatissimo sono cambiate nel corso degli anni, seguendo le evoluzioni del regolamento. Ciclicamente infatti la NFL si trova nelle condizioni di dover ritoccare qualcosa, specie quando per qualche stagione il gioco offensivo rischia di andare in involuzione a causa di difese sempre più specializzate e dominanti. Nessun retropensiero particolare, si tratta semplicemente di una logica di business che negli anni è arrivata a partorire quella che è la migliore organizzazione al mondo per qualsiasi sport professionistico. Se si fa spettacolo e se questo spettacolo è credibile, gli affari vanno a gonfie vele. Semplice e contundente.
E una robusta parte dello spettacolo nel football è collegata ovviamente al passing game, la fase di gioco più elettrizzante, quella che innegabilmente cattura lo sguardo sia del neofita che dell’appassionato. Poichè il cornerback è uno dei principali antagonisti, di tanto in tanto le regole vengono ritoccate per dare all’attacco qualche chance in più. Nel corso degli anni abbiamo assistito a vari adeguamenti aventi questa finalità: le regole sull’uso delle mani e delle braccia da parte della linea offensiva sono state rese più permissive, i contatti fra difensori e ricevitori vengono guardati con occhio più attento, i criteri per decidere sull’interferenza sono stati aggiornati varie volte, quasi sempre nella stessa direzione…
Con tutte queste attenzioni orientate prevalentemente in favore del passing game, il diagramma dell’evoluzione della specie del cornerback si è dovuto adeguare nel tempo. Atleti sempre più forti al di là dell’imprescindibile istinto. Generazioni di ricevitori alti, grossi e veloci richiedono giocatori che possano fisicamente confrontarsi sullo stesso terreno. Oppure giocatori che riescano a confondersi per tutta la partita con la loro ombra. Oppure giocatori che al momento del redde rationem, quando la palla è in aria, riescano a reagire come ha fatto Grimes.
Soffermiamoci un po’ su quella giocata, che al di fuori della prodezza atletica è più paradigmatica di quanto possa apparire ad una visione superficiale. Può aiutarci a capire parecchie cose e a giudicare la difficoltà del ruolo con una consapevolezza diversa. Gli ingredienti per un mismatch ci sono tutti. Si trovano davanti due Pro Bowler, quindi stiamo parlando comunque di una elite. Calvin Johnson è alto 1.96 e pesa 106 chili. Potrebbe fare il tight end o il linebacker.
Si è limitato a rovinare qualche decina di reputazioni giocando ricevitore. Brent Grimes è alto 1.78, forse arriva a 85 chili a stomaco pieno. Gioca con un tendine di Achille ricostruito, peraltro. Dal punto di vista fisico quindi c’è un bel divario. E’ la classica situazione paradossale in cui il ricevitore fa esattamente quello che deve fare e il quarterback mette la palla esattamente dove deve metterla. Contro un corner normale di solito sono sei punti, senza che nemmeno l’allenatore abbia molto da rimproverare al suo giocatore.
Grimes in quella giocata presenta a tutti la definizione, un pezzo per volta, di quello che deve fare un cornerback forte nella NFL di oggi. Perde uno o due passi, perchè Johnson aveva campo da sfruttare e leve adeguate a prendersi il vantaggio. Non lo molla, entro le sue possibilità. Non appena la palla entra nell’area in cui è contendibile tra lui e il ricevitore usa tutte le sue doti atletiche per un salto valutato ben al di sopra del metro e venti in altezza, si allunga al massimo e riesce a intercettare quella palla (lanciata perfettamente) con una sola mano. Quando torna sulla sua sideline e racconta la sua versione della cosa, paradossalmente Megatron è quasi divertito, cosa pressochè blasfema in un contesto così competitivo. “Ero lì, arriva la palla e… ma avete visto che cosa ha fatto?”
Quando un giocatore tenta di fare una giocata di quel tipo o riesce in una prodezza, o si espone malamente davanti a ottantamila spettatori. Quindi una giocata di quel tipo deve essere desiderata. E siamo quindi pronti per mettere insieme tutti i tasselli che compongono il ritratto tipo di un cornerback. Sagacia tattica, conoscenza del gioco, determinazione, abilità atletiche e un ego che possa reggere qualsiasi confrontation possibile e immaginabile. Quasi a sfociare in un culto della propria personalità, quasi a mostrare a tutti la padronanza dei propri mezzi e la convinzione che in un dato momento, con buona pace dello spirito di squadra, il destino di quell’oggetto oblungo che si sta avvicinando dipende da lui e solo da lui.
Presentiamo quindi una galleria di grandi interpreti del ruolo in varie epoche, partendo dalla fine degli anni Settanta, sostanzialmente perchè in quel periodo storico emersero delle difese talmente dominanti che la NFL si vide praticamente costretta a cambiare un po’ di regole, per evitare che la partita media terminasse per 16-7. Il motivo per cui il board di Park Avenue decise di correre ai ripari può essere ben illustrato nel grafico qui riportato, che rappresenta il confronto fra le yard guadagnate sulle corse e sui lanci durante gli anni Settanta
Nel periodo 1973-78 il break-even fra le due linee era sempre molto vicino e in due casi i guadagni su corsa superarono quelli su passaggio.
Dal 1978 in poi vennero introdotti due cambi fondamentali per incoraggiare un playcalling un po’ meno conservativo: la linea offensiva poteva estendere le braccia e aprire le mani per bloccare più agevolmente in fase di pass protection ed era permesso un solo contatto sui ricevitori entro le prime cinque yard. Contatti dopo tale limite venivano puniti pesantemente. L’obiettivo venne raggiunto, ma nel tempo la lega ha ritenuto opportuno dare qualche ritocco, sempre nell’interesse dello spettacolo.
Da quanto appena visto, dare una graduatoria all-time del ruolo non è facilissimo, semplicemente perchè la NFL in cui giocavano Mel Blount e Lester Hayes era diversa da quella di Darrell Green e Ronnie Lott, che era diversa da quella di Deion Sanders, a sua volta diversa da quella di Champ Bailey e Charles Woodson, che ci hanno traghettato fino a quella di Darrelle Revis e Richard Sherman. Dire fra questi chi fosse il più forte rischierebbe quasi di scatenare una guerra di religione. Ma per quanto riguarda l’impatto che ha avuto il ruolo nell’era moderna di questo gioco, un giocatore fra questi è individuabile come l’anno zero. Arriviamoci per gradi.
Gli anni Settanta. Bump and run.
Se vogliamo trovare una buona definizione di difesa dominante, in questo periodo abbiamo due esempi molto calzanti: i Pittsburgh Steelers di Chuck Noll e gli Oakland Raiders di John Madden. Spesso queste difese erano letteralmente ingiocabili. La difesa di Pittsburgh in sostanza era più forte ed era imbottita di fuoriclasse. La linea difensiva era la mitica Steel Curtain. Prendiamo Dwight White, Ernie Holmes, Mean Joe Greene e LC Greenwood: a occhi chiusi è la migliore unit del decennio, e possiamo divertirci a spostare il decennio a piacimento…
Dietro c’erano linebacker come Jack Dracula Lambert e Jack Ham. Con una front seven di questo tipo forse nella secondaria nemmeno servivano giocatori forti come Mel Blount e Donnie Torpedo Shell. Questa difesa è nell’Olimpo delle più grandi di sempre, con poche altre: la No Name dei Dolphins, i Mostri della Midway, la difesa dei Ravens del 2000 e quella dei Broncos freschi campioni NFL da cui ci aspettiamo un anno di conferma prima di ammetterla nel club.
I rivali più duri degli Steelers non abitavano nella NFC, la cui rappresentante veniva regolarmente punita al Super Bowl, ma nella AFC Western Division: erano i grandi Raiders di John Madden, forse meno carichi di talento nella front seven ma sicuramente migliori nella secondaria. Willie Brown, Jack Tatum, George Atkinson e Skip Thomas erano il miglior gruppo di defensive back della NFL, senza se e senza ma. Avevano tutto: la velocità di Thomas, lo strapotere atletico e tecnico di Brown e Atkinson, lo spirit di Jack Tatum.
Per capire l’impatto che hanno avuto in quel decennio queste due difese, non è molto lontano dalla verità affermare che buona parte del merito del cambio di regole a cui venne indotta la NFL nel 1978 è da ascrivere a loro.
I migliori cornerback di quel periodo probabilmente sono Mel Blount e Willie Brown.
A sentire Mel Blount, sensazionale corner degli Steelers quattro volte campioni NFL, tutte le doti fisiche e attitudinali del ruolo che abbiamo menzionato in precedenza potevano semplicemente essere asciugate in un unico punto: nervi d’acciaio. Per sicurezza Blount si era portato avanti su tutto. Giocatore grosso, tecnico e veloce, adattabile a qualsiasi tipo di copertura. Scelto dagli Steelers nel 1970, divenne titolare a partire dal 1972, anno in cui non concesse neppure un touchdown agli avversari. Atleticamente mostruoso, utilizzato anche come kick returner con medie molto oneste. Eccellente anche contro le corse, praticamente placcava come un linebacker vista anche la sua struttura fisica, ma era noto per uno stile di gioco pulito (nei limiti in cui). Quattro titoli NFL, cinque volte al Pro Bowl, quattro volte All-Pro. Indotto nella Hall of Fame nel 1989.
Willie Brown era il giocatore più esperto della miglior secondaria del decennio, quella dei Raiders di John Madden. L’obiettivo di Brown era quello di impedire la ricezione, se poi si ritrovava con la palla in mano era tanto di guadagnato, a sentir lui. Il fatto è che questo inconveniente in carriera gli è capitato cinquantaquattro volte, una delle quali è rimasta tra le immagini più famose di quei Raiders: l’intercetto su Fran Tarkenton riportato per settantacinque yard durante il Super Bowl XI
Giocatore molto longevo, passò ai Broncos i primi quattro anni della sua carriera e venne poi ceduto agli Oakland Raiders, dove giocò da titolare sia nel Super Bowl II, perso contro i Packers di Lombardi, che nel Super Bowl XI vinto contro i Vikings. Completo sotto ogni aspetto, ball hawk di razza. Uno dei migliori atleti usciti da Grambling, forgiato da quel grande maestro di football che è stato Eddie Robinson (1919-2007).
Anni Ottanta: l’evoluzione della specie
Dopo il cambio di regolamento del 1978, un po’ per necessità di adeguamento al gioco un po’ per ovvio ricambio generazionale la figura del cornerback cominciò a modellarsi su requisiti diversi. I giocatori da bump and run ormai erano visti alla stregua dei dinosauri, anche se la coppia di dinosauri formata da Mike Haynes e Lester The Molester Hayes fornì un contributo non marginale alla conquista dell’ultimo Lombardi Trophy dei Raiders.
I corner ormai dovevano far pace con l’idea che molto spesso il contatto iniziale con il ricevitore poteva anche non esserci, che conveniva giocare vicino alla linea se ci si aspettava un lancio entro un certo raggio e dare un cuscinetto anche di una decina di yard se ci si predisponeva a coprire il ricevitore sul lungo. Lo skill fondamentale era ormai quello di essere inscindibile dall’ombra del ricevitore evitando il più possibile i contatti, pena una pioggia di fazzoletti gialli.
Due casi notevoli: Ronnie Lott dei San Francisco 49ers e Darrell Green dei Washington Redskins.
Anche se probabilmente ha dato il meglio nel ruolo di safety, Ronnie Lott appartiene decisamente all’elite della categoria. Ebbe modo di giocare come corner nei primi cinque o sei anni di carriera con i 49ers. Tanto per mettere subito le carte in tavola, vinse due titoli ed era titolare fisso al Pro Bowl. In seguito Lott si è rivelato una sorta di coltellino svizzero utilizzabile in ogni ruolo della secondaria, dando anche la sensazione che se lo avessero provato come linebacker non ci sarebbe stato nulla da ridire. Lott probabilmente veniva meno su uno dei fondamentali del ruolo: non aveva una velocità di base accecante. Era in grado di sopperire con una conoscenza del gioco e con una determinazione senza pari. Sempre nel posto giusto al momento giusto, uno dei colpitori più duri e temuti della storia del gioco: primo defensive back e quarto giocatore in assoluto nella graduatoria ottenuta dalle medie dei pareri degli altri giocatori in questa categoria.
Il suo dato più forte era comunque il carattere: alla fine del 1985, per risolvere una brutta frattura al mignolo, scelse l’amputazione di parte del dito anzichè un intervento ricostruttivo che lo avrebbe tenuto fermo probabilmente per una intera stagione. Lott è stato soprattutto un esempio imprescindibile per i suoi compagni, sia con i 49ers che con i Raiders. Lui stesso ci fornisce una buona idea del suo obiettivo fondamentale: al di fuori del rispetto che ci si può guadagnare in campo con il proprio gioco e il proprio comportamento, tutto il resto è coreografia.
Come detto, anche se era stabilmente tra i migliori cornerback della lega, ha dato il suo meglio dopo la transizione a safety, dove è stato indiscutibilmente il migliore di tutti in tema di run support. Lott era un colpitore implacabile, una sorta di riedizione di Jack Tatum senza gli spigoli caratteriali di quest’ultimo. Alcuni placcaggi di Lott hanno veramente fatto epoca, come quello su Mark Bavaro dei Giants o come il suo colpo più famoso, quello che in sostanza tolse a Ickey Woods la voglia di correre dalla sua parte nel Super Bowl XXIII. Ritiratosi nel 1994, Introdotto nella Hall of Fame nel 2000, sette volte All-Pro (due da cornerback e cinque da safety), dieci volte al Pro Bowl in quattordici anni di carriera.
Darrell Green invece rappresentava l’estremo opposto rispetto a Lott. Le date non sono sempre casuali, quindi giova ricordare che Green fu la prima scelta dei Washington Redskins campioni in carica nel 1983, chiamato con il n.28 dopo che al n.27 i Dolphins avevano appena preso Dan Marino, nella leggendaria draft in cui vennero scelti anche John Elway e Jim Kelly. Bene, Darrell Green è stato il giocatore più longevo di quella classe: si è ritirato nel 2002 dopo aver giocato per venti stagioni (avete letto bene: venti) con una costanza di rendimento impressionante. Green era palesemente benedetto dagli dei del football in quanto a doti atletiche. Quattro volte vincitore del contest NFL Fastest Man, sarebbe stato molto probabilmente uno sprinter di valore olimpico. Quasi riverente verso tale predominio atletico, era uno dei pochissimi corner che poteva permettersi il lusso di regalare un passo quasi a tutti, tanto poi li avrebbe ampiamente ripresi. Ovviamente il suo dato migliore era la capacità di essere costantemente incollato ad ogni ricevitore. Vista la velocità di base, Green era un pericolo assoluto ogniqualvolta si ritrovasse il pallone in mano ed infatti veniva spesso utilizzato anche sui ritorni con ottimi risultati.
Giocatore dal carattere aperto e solare, sempre sorridente e positivo con i compagni. Un unico e umanissimo momento di commozione quando ricordava i suoi genitori scomparsi durante lo speech di presentazione alla Hall Of Fame nel 2008. Per dare una ultima idea sulla sua grandezza, si può prendere questo paragrafo e collocarlo indistintamente sia negli anni Ottanta che nei Novanta…
A questo punto siamo arrivati allo spartiacque, ad una specie di anno zero nella percezione del ruolo. A quello che abbiamo visto, la figura del cornerback fino a quel momento era assimilabile ad una sorta di guastafeste. Dando il dovuto rispetto a questi campioni, c’era sempre la percezione di giocatori forti quanto si vuole, ma ancora nessuno fra quelli era visto come il giocatore in grado di spostare gli equilibri di una partita o di una stagione.
Per chiarezza, ricordiamoci sempre che strutturalmente non esiste nel football professionistico una figura equiparabile a un Diego Maradona: nessun giocatore da solo sposterà mai i rapporti di forza in quel modo, proprio per come è costruito il gioco e per le specializzazioni nei ruoli. In questo contesto siamo più portati a credere che se un giocatore riesce a colmare la differenza tra una squadra forte e una squadra da titolo, questo non possa essere che il quarterback. Fino al 1989 questa assunzione non era ancora stata smentita.
L’anno zero. Deion Sanders
La draft del 1989 presentò un carico di talento impressionante: le prime quattro chiamate furono Troy Aikman, Tony Mandarich, Barry Sanders e Derrick Thomas. Con il numero 5 assoluto gli Atlanta Falcons selezionarono il cornerback dei Florida State Seminoles, Deion Sanders. Non siamo troppo lontani dalla verità se diciamo che Sanders è il miglior atleta che si sia mai visto su un campo da football. Velocità accecante (secondo miglior tempo sulle 40 con 4.21 nella storia delle combine dopo Bo Jackson), elevazione da giocatore di basket, mani impeccabili, eccellente in copertura dove comunque il suo strapotere atletico gli permetteva anche un margine di errore. Unico appunto, si disinteressava abbastanza della cosiddetta fase di run support, ovvero del lavoro contro le corse. Ma in sostanza si deve a lui la creazione della locuzione shutdown corner: Sanders era quel tipo di giocatore che era meglio evitare, poichè la sua classe in copertura era un deterrente forse mai visto prima su un campo da football, tant’è che uno dei parametri da cui si cominciò a valutare la forza di un cornerback era in sostanza non tanto il numero di intercetti ma il fatto che venisse evitato, quasi ignorato dagli attacchi avversari.
Sanders ovviamente veniva posizionato bona fide sul miglior ricevitore avversario e sistematicamente lo toglieva dalla partita. Gli avversari, ma spesso anche i compagni, non dovevano percepirlo come una gran persona. Nei primi cinque anni ad Atlanta, allenata all’epoca dal pittoresco Jerry Glanville, Sanders comincia innanzi tutto a segnalarsi per un approccio anche troppo “me first”. Spesso si porta il rapper MC Hammer a bordo campo, ha da subito atteggiamenti da divo e i suoi nickname più accreditati, Neon e Prime Time, gli calzano a pennello. Aggiungiamo una nota quasi di colore: poteva succedere che alla fine della partita salisse da solo su un volo diverso da quello dei Falcons e raggiungesse gli Atlanta Braves che stavano per scendere in campo contro i Pirates. Nel 1992 fu il miglior giocatore dei Braves nelle World Series perse contro Toronto (giocava con un microfrattura in un piede…). Prime Time è un po’ la ciliegina sulla torta di un ambiente fin troppo naive, dove l’allenatore aveva chiesto divise tutte nere e sosteneva di avere notizie fresche di Elvis con una certa regolarità. Ma il valore di Sanders, che era a occhi chiusi il miglior ritornatore della lega e si stava imponendo come corner di fascia alta, era innegabile.
Dopo cinque stagioni e ventiquattro intercetti con Atlanta, nel 1994 Prime Time Sanders viene acquisito dai San Francisco 49ers, che vogliono mettere fine al dominio della stella texana che in quegli anni brillava davvero. Forse è stata (insieme a quella di Reggie White) la migliore acquisizione di un veterano nella storia del gioco. Inizialmente ci fu qualche perplessità: coach Seifert avrebbe dovuto inserire un giocatore molto poco governabile in un contesto in cui, per asciugare il concetto, l’attacco era di Jerry Rice e la difesa era la migliore della NFL anche se aveva appena perso la guida di Ronnie Lott. L’approccio al football di Prime Time era diametralmente opposto a quello di Jerry Rice, capace di riprendere gli allenamenti anche da solo tre giorni dopo un Super Bowl vinto. Pensare a Simon e Garfunkel che salgono sul palco, si ignorano per tutta la performance e vanno via nel tripudio del pubblico può render bene l’idea.
Il rendimento di Sanders in quella stagione fu qualcosa di mai visto prima per un pari ruolo. Sei intercetti riportati per 303 yard: tradotto, vuol dire semplicemente cinquanta yard di ritorno ogni volta che aveva il pallone in mano. Tre di questi sei intercetti riportati in TD. Doveva essere frustrante: era una specie di rituale, vedere il flusso del gioco che cambiava improvvisamente direzione, lui che alzava subito la palla per far vedere di chi era, il solito cerimoniale del ritorno con la sua firma dell’highstepping e il balletto che iniziava spesso anche ben prima della end zone, tanto non potevano riprenderlo…
Nella settimana che precedette il Super Bowl, mentre Rice e l’attacco erano lì a provare, provare e riprovare alla nausea, Sanders si faceva recapitare la Lambo nuova e giocava a baseball con qualche amico. Ad ogni buon conto quei Niners erano talmente straripanti da massacrare i malcapitati Chargers per 49-26, nel famoso Super Bowl in cui Steve Young si tolse platealmente dalle spalle la scimmia dell’eredità di Joe Montana. L’anno successivo Sanders si fece convincere dal suo amico Michael Irvin (e incidentalmente dalla montagna di dollari messa sul tavolo da Jerry Jones) e mollò i Niners per raggiungere i Cowboys, che gli avevano promesso un certo numero di snap anche nella posizione di ricevitore dove, ovviamente, non se la cavò poi malissimo ed aggiunse alla sfilza di soprannomi anche Full Time…
Con i Cowboys vinse l suo secondo Super Bowl, dove ricevette un lancio di 47 yard da Aikman e si limitò al compitino contro i ricevitori non irresistibili degli Steelers. Lasciò Dallas nel 1999 e si ritirò nel 2000 dopo un anno ai Redskins. Non riuscendo a stare fermo, nel 2004 firmò come free agent con i Baltimore Ravens, con cui giocò altre due stagioni come nickel back, anche abbastanza bene. Introdotto nella Hall of Fame nel 2011, oggi uno degli analisti televisivi più divertenti e arguti. Probabilmente il miglior corner mai visto, ma sicuramente il miglior ritornatore: era in cima alle classifiche della specialità in maniera sistematica. Il suo record sui ritorni in TD è stato superato quest’anno da Devin Hester (che fa solamente il ritornatore), che ha voluto omaggiarlo replicando il suo leggendario highstepping mentre finiva la corsa verso la end zone. Non ci sono vie di mezzo sul personaggio, che andava accettato senza compromessi.
L’era moderna
Uno dei più grandi corner di sempre ha avuto la sfortuna della contemporaneità con il personaggio sopra presentato, che non poteva non rubare l’occhio e l’attenzione dei media. Rod Woodson era sicuramente un giocatore al livello di Sanders, atleticamente impressionante, fortissimo in ogni fase del gioco e più longevo. A chiedere ad un ricevitore di quel periodo quale dei due preferiva avere lontano, probabilmente si sarebbe affidato al lancio della monetina. Woodson era meno coreografico, ma aveva la stessa tremenda efficacia.
Era tentato da una carriera nell’atletica leggera che per usare un eufemismo prometteva bene, visto che, ancora grezzo, aveva dei tempi di livello mondiale sia sui 100 metri (10″26) che soprattutto sui 110 ostacoli (13″29, in un periodo in cui il record mondiale era di 12″93 e apparteneva all’ex Fortyniner Renaldo Nehemiah). Chuck Noll lo utilizzò come corner e come ritornatore con risultati eccellenti. Giocò con un ginocchio appena ricostruito il Super Bowl XXX dove in buona sostanza limitò Michael Irvin al minimo sindacale.
Per mera curiosità, in quel Super Bowl in cui giocarono contro Rod Woodson e Deion Sanders, il MVP fu l’altro corner dei Cowboys, Larry Brown, che riuscì ad intercettare due volte Neil O’Donnel che ovviamente si guardava bene dal lanciare sull’uomo di Sanders. Woodson spese i suoi primi dieci anni di carriera a Pittsburgh. Come Ronnie Lott, riuscì a conciliare l’accresciuta esperienza con il fatto che ad una certa età un passo in velocità si può anche perdere, e divenne un safety spettacolare, prima con i Fortyniners (1997) e poi nella leggendaria difesa dei Baltimore Ravens (1998-2001) dove vinse il suo unico Super Bowl.
Chiuse la carriera ai Raiders, dove arrivò in finale ma perse contro Tampa. Si è ritirato nel 2003. Anche per lui, come per quasi tutti gli esempi citati in precedenza, la NFL ha dovuto fare consistenti ampliamenti alla Hall Of Fame. Ritiratosi con settantuno (!) intercetti all’attivo in diciassette stagioni, dodici dei quali riportati in end zone. Statistiche decorosissime anche come ritornatore. Meno coreografico di Sanders, sicuramente migliore in fase di run support e se proprio ci dobbiamo sbilanciare sulle skill in copertura, anche noi ci potremmo affidare alla monetina di cui sopra.
The Champ
Con il numero sette assoluto, nel 1999 i Washington Redskins chiamano il corner dei Georgia Bulldogs Ronald “Champ” Bailey. Nel suo ultimo anno ai Bulldogs, oltre ad essere chiaramente indicato come miglior cover guy della nazione, nei ritagli di tempo Bailey si è divertito a giocare come ricevitore (47 ricezioni per 744 yard e 5 TD), runner (16 tentativi per 84 yard) e ritornatore: in campo per quasi mille giochi in una stagione tra attacco, difesa e special team, con una media di yard all purpose di 103 e spicci. Un cornerback. Tralasciamo che il suo personale sul salto in lungo era di 7.89. Il suo primo training camp con i Redskins deve essere stato interessante, almeno per la compagnia: avere nello stesso reparto sia Darrell Green che Deion Sanders non deve essere stata una brutta esperienza. Ma quasi subito Bailey cominciò a tener fede sia al suo nomignolo che alle aspettative che aveva generato al college. Dopo i primi due campionati, in cui aveva messo insieme dieci intercetti, divenne chiaro per tutti che non era un giocatore da testare, come si dice in gergo. Atleticamente superiore, tecnicamente ineccepibile, era uno dei classici casi di corner che da un certo momento in poi poteva permettersi di lasciare in campo il segnaposto col nome.
Alla fine del suo contratto da rookie, sorprendentemente i Redskins gli lasciarono l’opportunità di guardarsi intorno per uno scambio: cosa che avvenne puntualmente, poichè nel 2004 Clinton Portis finì nella capitale e Bailey traslocò la sua classe e la sua reputazione ad un miglio sopra il livello del mare, per la gioia dei tifosi dei Broncos. Questa trade, concedendo comunque a Portis il dovuto rispetto per la sua eccellente levatura, è uno dei tanti punti interrogativi lasciati dalla gestione Snyder. Uno shutdown corner di fama conclamata non è una commodity a cui si rinuncia in cambio di un runner, sia per le necessità oggettive dettate dal tipo di gioco che per le aspettative di carriera nei due diversi ruoli. La carriera di Bailey a Denver tenne esattamente la linea solcata a Washington. Costantemente nella elite del ruolo, riuscì a non concedere nemmeno un TD per una intera stagione (2009, su ottanta passaggi lanciati verso di lui). Il suo ritorno di intercetto più lungo avvenne in una partita di playoff, dove intercettò Tom Brady e riportò la palla per 100 yard, venendo tuttavia fermato da Ben Watson a un paio di yard dalla segnatura: è il gioco più lungo nella storia della NFL a non aver prodotto punti.
Nel tempo ha gestito sistematicamente ogni domenica il top gun avversario. Le sue dieci convocazioni al Pro Bowl sono ad oggi il record del ruolo. Ritiratosi nel 2013, purtroppo proprio mentre i Broncos avevano gettato le basi per la difesa monstre che li ha condotti al titolo di quest’anno.
Classe 1998
La draft del 1998 verrà ricordata per diversi motivi. Il numero uno: Peyton Manning. Il ragazzo arriva dai Volunteers con fama e blasone che poi avrà modo di confermare e accrescere durante la sua augusta carriera. Uno così ovviamente si porta dietro tutte le onorificenze possibili a livello universitario. Tutte tranne una. Per trovare il vincitore del premio assegnato annualmente al miglior giocatore di college non bisogna cercare nel roster dei Volunteers, ma in quello dei Michigan Wolverines. E non tra i QB, dove il figlio d’arte Brian Griese potrà bullarsi in eterno di aver tenuto in panca tale Tom Brady, ma tra i defensive back: il corner Charles Woodson è il primo difensore nella storia del college football a ricevere l’onorificenza individuale più ambita. Scopriamo che cosa aveva questo giocatore, che riuscì a vincere l’Heisman avendo come front runner Peyton Manning, e ad oggi è l’unico difensore insignito di questa onorificenza.
Charles Woodson viene chiamato al primo giro dagli Oakland Raiders con il numero 4 assoluto. Defensive Rookie of the year quasi all’unanimità, inizia da subito a costruirsi la fama di giocatore difficilmente attaccabile, perfetto sia dal punto di vista atletico che negli aspetti tecnici del ruolo. La sua eccellenza nella fase di copertura mascherava quasi il fatto che giocasse divinamente anche contro le corse e che era pericolosissimo in blitz. Il suo blitz più famoso è ovviamente quello messo a segno nel 2001 nel divisional contro i Patriots, in cui costrinse il suo ex compagno di college Tom Brady al… passaggio incompleto, secondo la chiamata arbitrale più vituperata dell’era moderna e rinnegata dalla stessa NFL anni dopo (The Tuck Rule).
Dal 2002 in poi Woodson subì numerosi infortuni, anche importanti. Giocò nel Super Bowl XXXVII che ancora non aveva recuperato in pieno da una frattura alla gamba destra. Nonostante l’intercetto sul primo lancio tentato da Brad Johnson, Woodson non riuscì a dare il suo apporto in quell’incontro, che si risolse in un massacro a favore dei Bucs. Cominciarono così le idiosincrasie con i vari allenatori che si succedevano in una squadra che stava attraversando un periodo buio. Nel 2006 si accorda con i Green Bay Packers, che si preparavano saggiamente anche a gestire il dopo Favre, avendo scelto Aaron Rodgers nel 2005. Non era proprio entusiasta di passare dalla vita della Bay Area a quella del Wisconsin, ma i Packers furono l’unica squadra ad offrirgli un contratto. L’integrazione di Woodson avvenne in modo pressochè perfetto. Cominciò a rendere come mai aveva fatto ad Oakland e con una costanza nelle prestazioni difficilmente vista prima in campo, in ogni ruolo. Nel 2009 Woodson venne nominato giocatore difensivo del mese per ottobre, novembre e dicembre: in attacco, per dare una idea sul significato di questa impresa, c’era riuscito solamente Barry Sanders. In cinque anni in Wisconsin intercettò ventotto lanci, più di quanti ne avesse presi in otto anni a Oakland (17). Ha anche stabilito il record all-time dei TD difensivi segnati a Green Bay. Durante il Super Bowl XLV, vinto contro gli Steelers, si infortunò alle cervicali difendendo con successo un passaggio verso lo speedster Mike Wallace. Nel 2012, come molti precedenti illustri ha compiuto il passaggio da corner a free safety, in maniera decisamente costruttiva. Tornato ai Raiders nel 2013, ebbe una stagione stellare tant’è che i Raiders gli proposero un rinnovo contrattuale a 37 anni. A dicembre 2015 annuncia il suo ritiro, dopo aver aggiunto alla collezione di intercetti il pesce più grosso, quello che ancora gli mancava: Peyton Manning. Per un bell’allineamento di pianeti, tutti e due si sono ritirati alla fine di questo campionato, tutti e due consegnati alla leggenda del gioco.
Il presente
Come abbiamo visto, la necessità di contrastare efficacemente il gioco sui passaggi ha indotto per reazione la creazione di una classe di cornerback forti ed efficaci, che spesso hanno la necessità di costruirsi uno scudo di autoconsapevolezza per svolgere un lavoro spesso penalizzato e svantaggiato, ma ormai riconosciuto, anche a livello salariale, in tutta la sua importanza.
Uno shutdown corner è una necessità imprescindibile per ogni squadra, e va da sè che non tutti riescono ad averne a roster uno e per tanto tempo, anche per normali dinamiche di mercato. I nomi alfa della NFL di oggi sono ben individuabili. Partiamo da Richard Sherman dei Seahawks, esponente della secondaria più temuta della NFL, la famosa Legion of Boom. Quando è microfonato vale da solo il prezzo del biglietto.
Leggendari i suoi scambi con Crabtree (“You make me waste my time”) e con Brady (“You mad Bro?”) a cui comunque ha riconosciuto il dovuto rispetto dopo il Super Bowl XLIX. Ma oltre al folclore, il giocatore è completo in ogni aspetto del ruolo e sempre molto affidabile. Darrelle The Island Revis è sempre nell’elite della categoria anche se probabilmente ha già giocato il suo miglior football, culminando nel titolo vinto con i Patriots. Stesso discorso per Aqib Talib, giocatore anche troppo fisico ma che indubbiamente sa svolegere bene il suo ruolo. Fra i giovani emergenti tenere d’occhio Josh Norman dei Panthers, Patrick Peterson dei Cardinals, Alterraun Verner dei Titans, Marcus Peters dei Chiefs.
Sfumature finali
Abbiamo quindi avuto modo di approfondire aspetti e interpreti di quel ruolo condannato ad una sorta di solitudine in campo, che sviluppa per reazione un ego del tutto particolare, spesso difficilmente inquadrabile in un contesto di squadra proprio perchè nel momento decisivo deve agire da solista.
Nonostante la loro forza inarrestabile, i Niners che schieravano Deion Sanders non riuscirono a integrarlo nel loro credo, il lavoro ossessivo per la squadra, incarnato alla perfezione da Jerry Rice. Sanders e Rice non si prendevano, caratterialmente: sarebbero stati una bella spiegazione del detto “Il diavolo e l’acqua santa”. Rice giocò il Super Bowl XXIX con la spalla sinistra seriamente infortunata. In campo però non se ne accorse nessuno, poichè andò a referto con dieci ricezioni, 149 yard e tre touchdown. La spalla gli doleva talmente tanto che nemmeno esultava dopo le segnature, andando semplicemente in panchina per aspettare di riprendere il suo lavoro. Ad un certo punto, mentre era lì in piedi, silenzioso e ieratico, Deion si avvicina e con estrema attenzione lo aiuta a risistemarsi le protezioni sulla spalla infortunata, chiedendogli se era tutto a posto. Per quella volta, i due mondi opposti si trovarono a meraviglia.
Concludiamo, ritornando ai primi due personaggi citati. Brent Grimes, dopo tre stagioni ai Dolphins in cui si è guadagnato tre convocazioni al Pro Bowl anche in virtù di giocate come quella, si è ritrovato ad essere una cap casualty come succede a molti veterani che hanno ancora qualcosa, ma non troppo, nel serbatoio. Rilasciato dai Fins, si è accasato ai Buccaneers che oltre alle sue eccellenti qualità di giocatore dovranno gestire anche gli umori della moglie, signora Miko, personaggio abbastanza sui generis. Next man up, come sempre.
Per quella giocata sensazionale Grimes ebbe il privilegio di ricevere pubblicamente i complimenti di Calvin Megatron Johnson, che proprio al termine di questo campionato ha deciso che nove anni ai Lions sono stati sufficienti e si è ritirato a soli trent’anni con classe ed eleganza, come miglior ricevitore della sua epoca insieme a Larry Fitzgerald, aspettando che il mondo avesse ben assorbito la notizia del ritiro di Peyton Manning.
Sì, quello che arrivò secondo nella votazione dell’Heisman Trophy 1997, dopo Charles Woodson.
Nicolò Bianchi che bello se potessimo giocare veramente!
Mminchia