Maldestro tributo all’era di Matthew Stafford a Detroit

Con alcuni quarterback non ce la faccio, inutile provare a negarlo.
Quando il record di squadra è negativo la colpa è dell’allenatore, gli incompleti sono sempre e comunque diretta conseguenza di un pass blocking inadeguato o delle mani di burro del ricevitore di turno e così via: non riesco ad essere oggettivo, cosa discretamente grave per uno che vorrebbe far del parlare di football americano il proprio mestiere.
Poi c’è Matthew Stafford.

Mi sembra indispensabile apporre queste premesse poiché voglio che siate al corrente che il mio amore nei confronti di Matthew Stafford probabilmente mi spingerà ad usare un po’ troppo pathos e, probabilmente, a tessere lodi che ad un osservatore esterno e distaccato potranno sembrare eccessive e fuori luogo: sarete liberi di pensarlo, anzi, avrete ragione.
Malgrado tutto, non ce la faccio, per Stafford ho una platonica crush che sinceramente fatico a spiegare, ma vederlo giocare è uno dei singoli aspetti che attendo di più dalla regular season NFL, indipendentemente dal risultato finale che, in quanto – ex – quarterback dei Detroit Lions facilmente sarà negativo.

Quando penso a Matthew Stafford penso al picaro, un poveraccio – aggettivo difficilmente applicabile al buon Matthew visto i contratti firmati – che deve continuamente scervellarsi per portare a casa la giornata, per tenere a galla una squadra inevitabilmente destinata al fallimento: Stafford in questi anni a Detroit è sopravvissuto di espedienti in un mondo altrimenti deprimente, senza scrupoli ed oggettivamente avvilente.
Il nemico principale del picaro, oltre al mondo, è la fame che per essere placata sovente lo induce a ripudiare ogni parvenza d’etica in lui presente: nulla di tutto ciò è applicabile ad un quarterback NFL, ma con un po’ di fantasia – e tante licenze poetiche – possiamo identificare nelle vittorie “la fame” e nella più totale mancanza di morale il completo disinteresse al proprio benessere fisico di Matthew Stafford, ragazzo che non si è mai risparmiato per portare a casa vittorie spesso e volentieri inutili.
Stafford, proseguendo con la nostra metafora, come un vero picaro non è mai riuscito a trovare un modo per mettere a tacere una volta per tutte il proprio stomaco, ma con testardaggine, persistenza ed un filo di furbizia – vedasi il touchdown della vittoria contro i Cowboys nel 2013 – ha sempre e comunque trovato un modo per sopravvivere garantendosi qualche tozzo di pane qua e là dando vita ad un perverso circolo vizioso di vittorie esaltanti random seguite da una serie di sconfitte ammazza-stagione.

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Per alcuni quarterback vincere una partita non è poi così complicato, scendono in campo, costruiscono un vantaggio e si “limitano” ad amministrarlo per poi assaporare la meritata vittoria a suon di corse durante il quarto quarto: per Matthew Stafford no, vincere non è mai stato così semplice.
Per assicurarsi una doppiavù scevra di ripercussioni playoff Matthew Stafford ha – quasi – sempre dovuto architettare folli rimonte, raffazzonare drive senza un particolare senso con una manciata di secondi al fischio finale nella speranza di mettere il proprio scudiero Prater nella posizione di vincerla con piazzati da distanze siderali: delle 74 vittorie in carriera, giusto per provare a dare un senso alle mie affermazioni, 31 sono sono arrivate dopo una fourth quarter comeback e 38 a seguito di un game winning drive.
Ma è proprio necessario vincere così? Non si può esultare senza compromettere la propria salute cardiovascolare?
Giusto per rendere l’idea, Tom Brady nei propri mille e uno anni trascorsi in NFL di fourth quarter comeback ne ha accumulate 39… per vincere 230 partite.
Perché Matthew ha dovuto soffrire così tanto? Perché è un picaro e la sua vita, con le dovute proporzioni, è scandita dal continuo sforzo di alleviare le proprie sofferenze, da un ciclo apparentemente infinito di difficoltà da superare per garantirsi la sopravvivenza: avete presente l’eterno ritorno di Nietzsche?
Qualcosa del genere, credo.

Dovete capirmi, è umanamente comprensibile che per tentare di giustificare il mio amore ricorra a noiosi escamotage come quello del picaro – scherzi a parte la novella picaresca è uno dei miei generi letterari preferiti – perché sì, cari lettori, per amarlo è necessario avere pronta una giustificazione, ed anche una buona: la soggettività è la mia miglior arma poiché sono pienamente conscio che convincere un appassionato casual di NFL circa la bontà di Matthew Stafford sia alquanto difficile?
Come si valuta un quarterback?
Con le vittorie? Brutta idea con Stafford, ha vinto solamente il 45% delle partite giocate da titolare.
Facendo riferimento alle statistiche individuali? Purtroppo le nostre impressionabili menti sono state plagiate da giocatori come Aaron Rodgers e Patrick Mahomes che hanno reso banali i numeri facendo passare un rapporto touchdown/intercetti di 4/1 come un qualcosa di normale, una sorta di soglia della sufficienza sotto la quale un quarterback è sopravvalutato e non merita i soldi che prende.
Palmares e riconoscimenti individuali? Stafford è stato criminalmente convocato ad un solo Pro Bowl, nel 2014: sì, i Pro Bowl ormai valgono quanto il premio di partecipazione ad un torneo provinciale di minibasket, però è sempre bello poter corroborare le proprie tesi con un ben piazzato «Eh ma è stato convocato a quattro Pro Bowl».
Partecipazioni ai playoff? Solamente tre, coincise con tre fulminee eliminazioni alle Wild Card.

https://twitter.com/DetroitMoments/status/1353798086791979009

Come faccio dunque a dedicare un articolo ad un giocatore che, a primo acchito, non ha fatto niente in carriera?
Semplice, con Matthew Stafford i metri di giudizio tradizionali perdono ogni valore e malgrado tenda ad abusare di questa frase – penso di averla usata anche qualche mese fa parlando di Frank Gore – vi invito a riflettere sul significato di due parole: Detroit Lions.

Stafford ha trascorso la propria carriera nella squadra che ha alienato fenomeni del calibro di Barry Sanders e Calvin Johnson spingendoli al ritiro precoce, privando ogni appassionato dell’opportunità di assistere ad almeno un altro paio d’anni di qualità di due fra i più elettrizzanti running back e wide receiver che abbiano mai calcato il gridiron: certo, Stafford non è sempre stato irreprensibile e qualche sconfitta è da attribuire anche a sue giornate no, però ogni domenica ha dato tutto, troppo, per una società che non gli ha mai dato nulla, a parte qualche milioncino di dollari.
Non ha mai potuto contare su un running game perlomeno decente, un running game in grado di togliergli un po’ di pressione dalle spalle: figuratevi che questi, dal 2013 al 2018, avevano concluso 70 partite senza un running back in grado di sfondare il muro delle cento yards in una partita.
Non è mai stato affiancato da un reparto difensivo, soprattutto negli ultimi anni, degno di nome: pensate che negli ultimi tre anni hanno ingaggiato Matt Patricia ed investito milioni fumanti in difesa per schierare puntualmente uno dei reparti più inetti di cui io abbia memoria malgrado firme – sulla carta – eccellenti e tante scelte al draft.
Non è mai stato aiutato e malgrado la comprensibile ed umana frustrazione non ricordo sue – legittime – lamentele, richieste di trade o dichiarazioni passivo-aggressive a fine partita: ha sempre tenuto la testa bassa conscio del fatto che per raggiungere un’insignificante vittoria avrebbe dovuto caricarsi tutta la squadra sulle spalle.
Coaching staff compreso.

Cosa rimane di Matthew Stafford a Detroit?

Uno potrebbe pure rispondere con un «niente», non avrei argomentazioni oggettivamente convincenti con le quali ribattere, la mia unica arma è quella di invitarvi a ricorrere all’emotività e pensare a quante volte Stafford sia stato in grado di esaltarvi con le proprie eroiche gesta negli ultimi quindici minuti dei tempi regolamentari di una partita NFL per raggiungere una vittoria che nella testa di milioni di appassionati è correlativo oggettivo per “vittoria di Pirro”.
Stafford ha giocato in condizioni fisiche disastrose partite nelle quali in palio non c’era nulla, a parte quell’abusato “onore” a cui tutti facciamo riferimento quando una squadra con record tremendamente negativo si sta trascinando verso la conclusione del campionato, ha ultimato rimonte con spalle sfasciate e, interessante soprattutto per una questione temporale, si è rifiutato di accomodarsi in panchina malgrado tre infortuni, malgrado la partita in questione fosse il season finale e malgrado un aggravamento di uno dei tre infortuni avrebbe potuto compromettergli il futuro.

Credo che l’ultima partita della sua avventura a Detroit sia un condensato dei suoi dodici anni passati in Michigan, dodici anni nei quali è diventato un punto di riferimento per la comunità dimostrandosi sempre e comunque un ragazzo consapevole di quanto stesse accadendo fuori dal rettangolo di gioco: invece di spendere troppe parole sulla persona mi limiterò a fornirvi la stupenda lettera pubblicata da The Players’ Tribune qualche mese fa nella quale spiega perché un giocatore di football non debba ripudiare la propria umanità nonostante la professione che lo ha arricchito.
Leggetela, ne vale la pena: se avete perso dieci minuti per leggere ciò che sto scrivendo potete tranquillamente perderne altri dieci per leggere qualcosa che vi farà sicuramente emozionare.

Dicevo, la sua ultima partita ai Lions.

Proviamo a mettere sul tavolo tutti gli elementi: ottime statistiche individuali, quasi trecento yards condite da tre TD ed un immancabile intercetto, disperato tentativo di rimonta questa volta fallito, difesa ridicola assolutamente incapace di limitare l’attacco avversario, fuochi d’artificio, touchdown di fatto decisivo arrivato grazie ad un clamoroso svarione di due defensive back già in offseason e tre infortuni, uno al pollice, uno alle costole ed uno alla caviglia.
Ovunque lo si colpisse, in soldoni, un infortunio si riaggravava.
Stafford non è stato sotto alcun punto di vista perfetto, anzi, però lui il suo l’ha fatto, a costargli la vittoria ci ha pensato il resto della squadra sceso in campo giusto per riscuotere il game check: tutto ciò, ovviamente, davanti ad un Ford Field deserto.
Il più grande quarterback della lunga ma non troppo gloriosa storia dei Detroit Lions ha detto addio alla città nella quale da ragazzo è diventato prima uomo e poi leader davanti ad una manciata di addetti ai lavori?
Sì, e malgrado il Covid-19 non sia stato sicuramente creato dai Lions per dare il benservito a Stafford senza concedergli un’ultima meritata standing ovation tutto ciò fa un po’ ridere perché di fatto è il finale perfetto per un’avventura nella quale il nostro picaro non ha mai avuto ciò che meritava, neanche un saluto finale.

Sarà triste vederlo con un’altra casacca anche se finalmente potrebbe essere messo nella posizione di vincere, poiché personalmente non sono poi così interessato a vittorie, partecipazioni ai playoff ed anelli quando si parla di lui, mi basta vederlo in campo solo contro tutti e tutto a lottare per inezie che per altri quarterback sono quasi garantite.
Non ho idea di cosa gli riserverà il futuro, so solo che mi mancherà perché in questo mondo nel quale il concetto di vittoria sembra l’unico valore attorno al quale modellare la nostra esistenza fino a portarci alla nevrosi abbiamo bisogno di gente come Matthew Stafford, di gente che ha vinto così poco da rendere speciale ed unico ogni piccolo successo ma che ciò nonostante non ha mai smesso di lottare.

Grazie Matthew per dodici anni unici nei quali ci hai insegnato ad approcciarci alla valutazione di un quarterback in un modo perlomeno originale.

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Mattia Righetti

Mattia, 27 anni. Voglio scrivere per vivere ma non so vivere. Quando mi cresce la barba credo di essere Julian Edelman. Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango malissimo.

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Un Commento

  1. Bellissimo pezzo, Mattia.
    Da irragionevole tifoso di questa gloriosa e disfunzionale franchigia ho molto apprezzato ciò che hai scritto.
    Hai descritto perfettamente il talento del giocatore e le qualità dell’uomo.
    E se da un lato il mio cuore sportivo è spezzato dalla notizia della richiesta di trade la parte razionale di me non può che augurare il meglio a chi ha dedicato il meglio di se stesso e del proprio ai Lions.
    Sperando che il proseguimento della sua carriera gli riservi quelle soddisfazioni che giocatori immensi come CJ o Barry Sanders non hanno potuto avere.
    Buona fortuna Matthew.
    E grazie Mattia.

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