Pick a guy, let it fly: la storia di Dan Marino

Le attitudini atletiche necessarie nel baseball e football presentano alcuni punti in comune. E’ gradita una taglia fisica congrua anche nel baseball, perchè non bisogna andarci morbidi quando bisogna prendere una base per una frazione di secondo. La velocità è sempre un valore aggiunto, come la capacità di lanciare un oggetto, sferico o meno, usando un solo braccio.

Moltissimi giocatori di football si sono cimentati nel tempo anche con il National Pastime. Il bivio di solito era alla fine del liceo, perchè avere una scholarship per l’una o l’altra disciplina polarizzava parecchio la scelta. In alcuni casi i giocatori erano così forti che anche al college praticavano l’una e l’altra dottrina. E inevitabilmente anche per loro alla fine del periodo universitario arrivava il momento di decidere.

Una volta iniziata la carriera professionistica, fare il doppio lavoro diventa maledettamente complicato. I calendari delle due leghe sono parzialmente sovrapposti e le squadre inseriscono diverse clausole di tutela nei contratti, perchè in ogni caso l’infortunio di un giocatore che impegna di solito milioni di dollari è un evento che induce a calcolare bene i rischi e di norma si tollera poco la possibilità di avere un proprio stipendiato che si infortuna facendo altro. E poi la ragione più ovvia: arrivare a livelli professionistici in due sport è veramente alla portata di pochi.

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I due casi più noti di giocatori impegnati su due fronti sono quelli di Deion Sanders e prima di lui del grande Bo Jackson.

Se non fosse stato per l’infortunio all’anca del 1991, Jackson molto probabilmente sarebbe andato oltre le diecimila yard in carriera. Nessun giocatore ha mai avuto un insieme così esplosivo di doti fisiche e atletiche. Nell’anno in cui doveva passare professionista nel football Jackson era accreditato di un tempo di 4.19 sulle 40 yard. Un ricevitore viene classificato speedster quando il suo tempo è compreso tra i 4.25 e i 4.35. Deion Sanders, cornerback e ritornatore, ha il secondo tempo di sempre con 4.21. La taglia media in quel periodo per cornerback e ricevitori era intorno al metro e ottantotto per novantadue chilogrammi. Bo Jackson era un running back di un metro e ottantacinque per centocinque chili.

Jackson scelse inizialmente il baseball proprio per passione. Ignorò il draft del 1986 in cui i Buccaneers lo selezionarono con un ovvio numero uno assoluto e andò a giocare con i campioni in carica, i Kansas City Royals (American League, Central Division).

I KC Royals sembrano avere un fiuto particolare per i giocatori di football. Nell’Amateur Draft del giugno 1979 avevano adocchiato due diciottenni che per loro sarebbero stati forse i pitcher del futuro, dopo qualche anno di apprendistato in altre leghe e squadre.

E magari nel 1989, dopo la gavetta nelle Minor, Bo Jackson avrebbe giocato in una squadra in cui nella rotazione dei lanciatori avrebbe trovato i due sopra indicati sempre che questi, nel frattempo, non avessero preso altre strade, eventualmente nella National Football League. Cosa che poteva starci, perchè uno dei due, chiamato al diciottesimo giro, era un certo John Elway.

Quell’altro, scelto per quarto, rispondeva al nome di Dan Marino.

Kansas City Royals June Amateur Draft Board, 1979
Kansas City Royals June Amateur Draft Board, 1979

Pittsburgh, anni Settanta

Daniel Constantine Marino, Jr. nasce a Pittsburgh il 15 settembre 1961 da Dan e Veronica.

Sì, è Dan Marino
Daniel Constantine Marino, Jr.

Durante la sua adolescenza la città di Pittsburgh vive la sua età dell’oro nella NFL, poichè gli Steelers vincono quattro titoli in un decennio grazie alla leggendaria Steel Curtain, probabilmente la migliore difesa di sempre, e ad un attacco dove brillavano Franco Harris, due ricevitori sensazionali quali Lynn Swann e John Stallworth e ad un quarterback simpaticamente etichettato come “lo scemo”, ma tutt’altro che sprovveduto quale Terry Bradshaw.

Con un ciclo così, la città non poteva non respirare football in quel periodo. I Pittsburgh Panthers si erano insediati anch’essi nei quartieri alti della NCAA e nelle varie high school molti giovani facevano drizzare le antenne agli scout. C’era ovviamente Dan Marino, QB della Central Catholic, ma non troppo lontano da lui, spingendosi nella zona East Brady, si poteva trovare anche James Edward (Jim) Kelly, un altro ragazzo di belle speranze che avrebbe incrociato i suoi destini sia con Marino che con Elway.

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Dan è un ragazzo tutto sommato timido, attivo nella comunità e molto operoso. Si dedica con entusiasmo sia al football che al baseball, dove l’allenatore della squadra del quartiere è il padre. Prima dell’inizio del campionato, lui stesso racconta che gli ultimi tre giocatori potevano scegliere solo tra i numeri di maglia 13, 14 e 15. Per ovvi motivi il padre gli disse di far scegliere prima gli altri ragazzi, quindi da quel momento in poi il tredici gli rimase cucito addosso per il resto della sua vita sportiva. Non il massimo nella tradizione anglosassone, ma pazienza…

Il passaggio ai Pittsburgh Panthers fu pressochè naturale, visto che Jim Kelly aveva accettato la scholarship dai Miami Hurricanes (non male nemmeno loro). Marino si trovò a giocare per una buona mente offensiva, quale Jackie Sherrill, che aveva ben capito il potenziale del suo nuovo quarterback e sapeva come farlo crescere bene. Non appena Sherrill vide lo strano modo di lanciare del suo freshman, gli chiese chi mai gli avesse insegnato a rilasciare la palla in quel modo. Dan rispose che era stato il padre.

L’allenatore replicò con quello che lui stesso ebbe a considerare il miglior consiglio mai elargito in tutta una onesta carriera.

Ragazzo, non cambiare per nessun motivo quel movimento!

Dan Marino e Jackie Sherrill
Dan Marino e Jackie Sherrill

Ricorda Dan che da subito ebbe modo di capire oneri e onori del ruolo

Il mio primo passaggio fu intercettato. Ma il terzo fu un touchdown

Gli anni di Marino con Sherrill furono veramente entusiasmanti. Le premesse per una trionfale stagione da Senior  erano tutte lì. Gli obiettivi quasi evidenti erano il titolo nazionale e l’Heisman Trophy, ma il giocattolo si ruppe quando Jackie Sherrill venne rimpiazzato dal nuovo head coach Serafino “Foge” Fazio, un defensive guru che non si trovò mai in sintonia con il suo giovane QB. Un record di 9-3 significava, nella più rosea delle ipotesi, l’accesso a un Bowl di secondo piano. Marino era diventato macchinoso, prevedibile, una macchina da intercetti. Le sue quotazioni per gli scout NFL subirono un brusco ridimensionamento, specie in una nidiata di eleggibili che contemplava anche altri due talenti sontuosi, a nome John Elway (Stanford Cardinals) e Jim Kelly (Miami Hurricanes)

Il draft del 1983

In quell’anno, per la prima volta il draft NFL ebbe a confrontarsi con un convitato di pietra. Stava infatti gettando le basi una nuova lega professionistica, a nome USFL (United States Football League), che aveva l’obiettivo di dare il football agli americani anche durante la stagione estiva. Il nome più in vista nella nuova lega non era quello di un giocatore, ma quello di un proprietario, con ambizioni smisurate e idee chiare, almeno in quella fase. Con una mossa di una aggressività quasi impensabile,  la USFL tolse alla NFL forse uno dei migliori prospetti di sempre, il vincitore dell’Heisman Trophy, niente meno che Herschel Walker, il meraviglioso tailback dei Georgia Bulldogs. Autore di una mossa così esplosiva fu il proprietario dei New Jersey Generals, un giovane e pretenzioso miliardario a nome Donald Trump. Sì, quel Donald Trump. Va comunque detto che anche in assenza di Walker, quel draft era ricco di runner di talento quali la mitica coppia del Pony Express di Southern Methodist (Eric Dickerson, scelto dai Rams e Craig James, approdato ai Patriots) e Curt Warner (Penn State, scelto dai Seahawks).

Ma più che per i runner, quella fu la migliore annata mai vista per i quarterback. Senza alcun dubbio. I tre nomi di punta erano quelli di John Elway (prima scelta naturale) e poi, un filo sotto, Jim Kelly e Dan Marino.

La NFL usciva dal primo campionato toccato dallo sciopero dei giocatori. Nove partite di regular season. Il premio di Most Valuable Player dato a Mark Moseley, il kicker dei Washington Redskins, vincitori del Super Bowl XVII contro i Dolphins di Don Shula.

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I Dolphins schieravano come QB David Woodley, che non doveva essere malvagio avendoli condotti fino al gran ballo. Ma Don Shula non era completamente soddisfatto, magari per una questione di braccio, o anche solo per i classici intangible. Fatto sta che durante le varie fasi di scouting e combine mette gli occhi su Marino, come peraltro avevano fatto anche Bills, Jets, Chiefs, Steelers. Tutte squadre che chiamavano prima dei vicecampioni, chiaro.

Coach Shula racconta di uno scambio di battute con uno dei suoi scout

– Ci sono possibilità di prenderlo?
– Nemmeno una, coach

Le cose poi vanno in maniera del tutto imprevedibile. I Baltimore Colts con il numero uno assoluto prendono John Elway. Elway si rifiuta categoricamente di andare a giocare nel Maryland, così Colts e Broncos trovano un accordo adeguato che porta il biondo QB di Stanford in Colorado, dove nel tempo riuscirà a combinare qualcosa. Poi Dickerson ai Rams, Warner a Seattle, Chris Hinton a Denver ma rientrerà nella trade per Elway. I Bears prendono Jimbo Covert, il LT dei Panthers che proteggeva Marino. Prima squadra in cerca di QB sono i Chiefs, al numero 7. Prendono Todd Blackledge, nemmeno menzionato nella shortlist di Shula. In quella lista c’era  Jim Kelly, a Buffalo col n.13 (ma andrà inizialmente agli Houston Gamblers della USFL).

I ragazzi terribili del 1983
I ragazzi terribili del 1983

Ma non c’era Tony Eason, ai Patriots col n.15, come non c’era Ken O’Brien, ai Jets col n.24.

Shula aveva in testa tre nomi: Elway, Marino, Kelly. In quest’ordine.

Quel pomeriggio per il giovane Marino si stava trasformando in un vero incubo, ma lui stesso avrebbe detto

Strange how the lowest moments turn into the biggest blessings

Perchè in quel momento squilla un telefono a cui è collegato Don Shula

– Ragazzo ci serve un quarterback. Vuoi venire a Miami?
– Coach può scommetterci!

Il destino che avrebbe legato un giocatore e una squadra per i diciassette anni successivi si stava mettendo in moto.

danmarino
1983. There’s a new kid in town

In quel periodo era difficile vedere da subito una matricola in campo nella posizione più nevralgica. Nessuno dei grandi di quell’epoca aveva cominciato a guidare il proprio attacco al primo anno. Nemmeno Bradhsaw, nemmeno Joe Montana.

Già dal training camp Marino comincia a creare dubbi a Shula, uno che in carriera ha avuto QB del calibro di Unitas, Griese e Morrall.

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Racconta il coach:

Primo passing drill. Una fila di ricevitori vicino a Woodley, una vicino a Marino. David lancia, Dan lancia. David lancia, Dan lancia. La differenza era davvero sorprendente e non voglio criticare David, che ci ha aiutato tantissimo e ci aveva portato in finale. Ma l’unicità del modo di lanciare di Marino divenne chiara da subito

A lezione da una leggenda
A lezione da una leggenda

Il rookie dai Panthers sostanzialmente aveva un cannone al posto del braccio destro, se dobbiamo asciugare il concetto. E oltre alla potenza, Marino aveva una meccanica di lancio mai vista prima di lui e mai ritrovata dopo. In sostanza il pallone veniva scaricato circa a metà dell’arco descritto dal braccio durante la fase di rilascio. Tre o quattro decimi guadagnati in ogni azione di passaggio, un asset non facilmente quantificabile. Semplifica il lavoro della sua linea d’attacco e complica maledettamente la vita alle secondarie.

I Dolphins arrivano ai playoff, dove perdono ad opera dei Seahawks. Ma Marino mette su una stagione impressionante. Rookie dell’anno, convocato come titolare al ProBowl. Dicono tutti che però il suo secondo anno sarà molto più difficile, perchè ormai lo conoscono e non si faranno trovare impreparati.
Forse.

Millenovecentottantaquattro

C’è solo un modo per capire l’impatto del secondo anno di Marino su quello che diventerà il ruolo di QB negli anni successivi. Quell’anno sarebbe una stagione da sogno ancora oggi, a trentadue anni di distanza. L’unico paragone che trasmetta il senso di quel campionato è il salto da 8.90 di Bob Beamon nel 1968 a Città del Messico.

Bob Beamon
Bob Beamon

Quel record, peraltro in condizioni altimetriche particolari, resistette per ventitrè anni e arrivò a definire una sorta di limite dettato dalla fisica per i saltatori in lungo e finchè Mike Powell non arrivò alla misura di 8.95, ogni saltatore (Carl Lewis per scomodarne uno) si trovò a fare i conti con quel totem.

Il 1984 di Marino arrivò a scrivere la definizione di dream season – o quasi – per un QB della NFL.

Dan Marino, 1984
Dan Marino, 1984

Marino racconta che quei record arrivarono più o meno per caso. Si trovò a disposizione Mark Duper, che aveva smaltito un infortunio durato per tutta la sua prima stagione e Mark Clayton da Louisville, gran bel mix di mani e velocità. Il training camp di Shula non era più quel maniacale inno al lavoro che precedette la perfect season del 1972. Era un po’ cambiata la NFL, forse era un po’ cambiato Shula. Aveva capito che un QB così e due ricevitori così potevano condurre ad un approccio radicalmente diverso per una squadra run-first come erano i Dolphins fino a poco tempo prima. L’idea diventa quella di vincere le partite provando anche a divertirsi. Dan stesso la riassumeva nella frase

“Pick a guy, let it fly”. Nemmeno noi sapevamo cosa poteva succedere fino alla prima giornata, quando andammo a casa dei Redskins, vicecampioni in carica. Cinque mete su lancio contro una difesa veramente forte. Un buon inizio, decisamente

Quella stagione magica andò avanti sulla linea di quanto visto alla prima partita. Marino non migliorò, ma annientò letteralmente i record per yard lanciate e TD pass, entrambi appartenenti al grande Dan Fouts dei San Diego Chargers. Marino divenne il primo giocatore nella storia ad andare sopra le 5000 yard e arrivò a lanciare 48 (qua-ran-tot-to) TD pass. I record precedenti dicevano 4805 yard e 36 TD pass. Ovviamente Dan venne nominato MVP della stagione, con tutto che Eric Dickerson riuscì a mettere insieme 2105 yard su corsa. Ma una stagione così avrebbe fruttato il premio di MVP in ogni epoca immaginabile.

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Una leggenda in cifre

Per finirla coi numeri: il record di Marino sui TD pass ha resistito per 20 anni, prima che Peyton Manning arrivasse a 49 nel 2004. Lo stesso Manning ha riscritto i record per una singola stagione nel 2013, portando le yard a 5477 e i TD pass a 55.

Un curioso destino, perchè in tutti e due i casi una stagione così dominante da parte di un QB si conclude con una sconfitta senza attenuanti al Super Bowl. Casualmente contro squadre complete, con un grande quarterback, un running game solido e una difesa dominante sia nella pass rush che nella secondaria. Manning dovette cedere in finale allo strapotere dei Seattle Seahawks, Marino si fermò di fronte ai San Francisco Fortyniners, che schieravano quel giocatore il cui nome era sostanzialmente sinonimo di una vittoria in un Super Bowl: il grande e unico Joe Montana.

Joe Montana e Dan Marino
Joe Montana e Dan Marino

Molti analisti hanno detto che con una ideale macchina del tempo, quel Marino con le regole e i sistemi di gioco di questi giorni avrebbe passato le seimila yard e avvicinato i settanta TD, anche contando il fatto che per quei Dolphins il contributo all’attacco del gioco sulla terra era risibile.

Ma le premesse per una carriera luminosa, corredata anche da almeno una vittoria al Super Bowl, c’erano davvero tutte.

Purtroppo per i Dolphins e per il loro grandissimo QB le cose andarono diversamente.

Bombs away (1985-1993)

Due spiriti ipercompetitivi come Marino e Shula non potevano accontentarsi di arrivare al Super Bowl per perderlo. Lo strapotere di Miami sui lanci era contemporaneamente una forza e un limite. Nella serata di Palo Alto i Niners avevano dato la più classica delle indicazioni su come fermare un attacco così potente. Bilanciamento fra corse e lanci, pass rush feroce, secondaria rinforzata, con cinque o anche sei giocatori. Detta così sembra facile, ma quella vittoria fu uno dei tanti monumenti al genio di Bill Walsh e all’attitudine di Joe Montana.

A Miami comincia ad affermarsi un mantra che per parecchi anni resterà invariato e produrrà, purtroppo, i soliti risultati. Buonissimi campionati in regular season, ma qualcosa si inceppa ai playoff. E ad ogni primavera Shula si trovava a recitare gli stessi salmi…

Dobbiamo variare maggiormente il gioco, trovare un buon runner per togliere pressione a Dan, aggiustare la difesa…

Lui stesso, tuttavia, non faticava a intuire i limiti di quel ragionamento

Se noi avessimo trovato anche un minimo di gioco di corsa, i primi a esserne contenti sarebbero stati i defensive coordinator avversari, messi sistematicamente a ferro e fuoco da Dan ogni domenica. Noi stessi non trovammo runner forti in quegli anni nei draft ed inoltre avremmo dovuto ridisegnare praticamente da zero la nostra linea d’attacco, fantastica in pass protection ma carente nei bloccaggi sulle corse. Inoltre, siamo sinceri, sarebbe stato impensabile per noi cercare di vincere allontanandoci da Dan. Se lui andava, noi vincevamo.

E nonostante ormai fosse chiaro per ogni avversario che contro questo la domenica bisognava sedersi dieci o quindici yard dietro e aspettare la pioggia di palloni, Marino replicò nella sostanza se non nei numeri lo sfolgorante gioco messo in mostra nell’anno dei record.

Resta scolpita nella storia del gioco la prestazione messa in piedi nel Monday Night del 2 dicembre 1985 contro i Chicago Bears, che poi si sarebbero laureati campioni per merito di una delle difese più dominanti mai viste: la 46 defense di Buddy Ryan, con talenti del calibro di Mike Singletary, Richard Dent, Danimal Hampton, Wilber Marshall, Otis Wilson, Refrigerator Perry, Dave Duerson, Gary Fencik (vanno ricordati praticamente tutti perchè questi non avevano punti deboli…)

I Bears arrivano all’Orange Bowl col record impressionante di 12-0, i Dolphins sono ad un buon 8-4.

Contro la difesa che fino a quel momento aveva dominato il campionato, Shula decise che la cosa migliore da fare era sì che Marino giocasse… da Marino. Ricevitori larghi, pass rush gestita al meglio, Dan che allargava il campo a suo piacimento sommergendo sotto una valanga di punti una delle più forti difese di sempre. I Dolphins del 1985 salvarono la perfect season dei Dolphins del 1972 con una partita debordante. Marino finì l’incontro con un 14 su 27, 270 yard e 3 TD pass. Cercava costantemente Clayton e Duper, sfidava sul fronte del big play una difesa mostruosa, facendo più o meno quello che voleva lui.

Nat Moore a segno su lancio di Marino contro i Bears (1985)
Nat Moore a segno su lancio di Marino contro i Bears (1985)

I Dolphins vinsero 38-24 ma la partita era già in frigo all’intervallo (31-10).

Sarebbe stato bello un rematch al Super Bowl, ma Miami affoga nei propri errori durante la finale di Conference contro i New England Patriots, che verranno quindi giustiziati per 46-10 dai Bears in uno dei Super Bowl più piatti mai visti.

Negli anni successivi il rendimento di Marino e di conseguenza quello del suo attacco procedono in maniera molto lineare. Solitamente in testa alla graduatoria per yard lanciate e TD pass e solitamente in fondo alla graduatoria per le yard su corsa. I Dolphins restano in cima alla division fino all’inizio del periodo d’oro dei Buffalo Bills alla fine degli anni Ottanta.

Nel gennaio 1993 Marino conduce i Dolphins al Championship della AFC per la terza e ultima volta in carriera. I Bills ormai erano più abituati a quel tipo di incontro e nonostante il vantaggio di giocare la partita al calduccio della Florida, Miami venne sconfitta senza troppi problemi per 29-10. Buffalo verrà di seguito triturata al Super Bowl dai Dallas Cowboys per 52-17 e se fossero arrivati in fondo i Dolphins, contro quei Cowboys avrebbero avuto un destino identico.

L’infortunio, il rientro e il declino

Oltre al notevole bagaglio di talento, Marino in questi primi anni dimostra una solidità fisica eccellente, riuscendo a giocare 145 partite consecutive. Un grosso merito va anche alla sua linea offensiva, che tra il 1989 e il 1990 non concede un sack per diciannove partite di fila.

Un pomeriggio di sole a Cleveland, 11 ottobre 1993. Marino arretra per il più normale dei dropback durante la partita contro i Browns.

Sto arretrando. E’ un gioco ordinario, devo eseguire un lancio ordinario.
Sento un rumore strano. Il tendine di Achille si spezza. Sembrava che mi avessero sparato…

Rottura del tendine di Achille, 11 ottobre 1993
Rottura del tendine di Achille, 11 ottobre 1993

Campionato finito e un infortunio che a trentadue anni non è banale per niente.

Dan non è comunque tipo da arrendersi senza lottare. Dopo i primi inevitabili dubbi, si getta a testa bassa nella riabilitazione motoria, perchè ancora non è stanco del gioco, la fame c’è sempre. La ricostruzione del tendine aveva lasciato qualche conseguenza: non poteva andare in punta di piedi, non poteva sorreggersi sui talloni.

Il rientro, con gli occhi dell’America addosso, è fissato per la prima giornata del campionato 1994, a Miami contro i New England Patriots di Bill Parcells, che schierano il giovane top gun Drew Bledsoe. A chi gli chiede se ci saranno impatti dopo l’infortunio, Marino risponde che tanto non ha mai risolto nulla correndo.

Bledsoe è in giornata di grazia e lancia per quattro TD. Dan ne lancia cinque. L’ultimo è su Irving Fryar, trentanove yard su un quarto tentativo a tre minuti dalla fine…

Siamo sotto di tre, ci servono cinque yard per chiudere il down. Sulla linea vedo Irving lasciato in copertura singola, quelle belle coperture bump and run che mi è sempre piaciuto testare. Duper, Clayton. Fryar. Giusto il tempo di guardarsi negli occhi, di cambiare il gioco sulla linea e di mandarlo lungo… Dopo la partita Bill Parcells venne a salutarmi e mi disse: “Ehi, niente male per uno su una gamba sola…”

E Dan continua con la stessa intensità di sempre, lancio dopo lancio, con una squadra che manca sempre di qualcosa per il maledetto next step. Lui non vuol saperne nulla. Crollano nel tempo i record storici per yard lanciate, lanci completi, TD pass. Insomma il fatto che ogni tanto si dovesse fermare un incontro per consegnare la palla e tributare una standing ovation al vecchio guerriero col numero tredici stava diventando una consuetudine.

Dan celebra uno dei suoi record in campo
Dan celebra uno dei suoi record in campo

Tuttavia, come recita il detto, ci sono due cose che non puoi ingannare: il fisco e il tempo.

Mentre Marino sostanzialmente stava inducendo la NFL ad allargare il museo della Hall of Fame di Canton, era iniziata la sua parabola discendente. Per problemi in fase di cronicizzazione alla colonna vertebrale, il suo braccio destro aveva perso un po’ della forza devastante dei primi anni, lo zip dei suoi lanci era diminuito.

Forse era il momento di cominciare ad usare il suo patrimonio di esperienza e di furia agonistica in maniera differente.

Don Shula decide di chiudere nel 1995 una carriera irripetibile e i Dolphins si trovano nella necessità di scegliere un allenatore, cosa che non facevano da ventisei anni. Erede quasi inevitabile era Jimmy Johnson, l’uomo che aveva messo a punto una delle macchine da football più letali mai viste, i Dallas Cowboys dei primi anni Novanta. Johnson si era preso qualche anno di pausa, rifiutando anche una offerta pesante dagli Eagles. Ma ritornare a Miami, dove aveva iniziato la sua carriera facendo grandi gli Hurricanes, era una sfida che non si sentì di rifiutare.

I Dolphins avevano davvero bisogno di una ricostruzione. Il cambio di filosofia arrivò anche in maniera abbastanza brusca, inevitabilmente. Ma per la prima volta Marino ebbe dietro di sè un runner che era in grado di alleggerire il suo carico di lavoro, il rookie da UCLA Sharmon Shah (ma forse a UCLA avevano finito le “h” per le maglie, quindi noi lo conosciamo come Karim Abdul-Jabbar…). Abdul-Jabbar arrivò oltre le mille yard nel suo primo anno, ma non fu lui la scelta migliore di Johnson.

Nello stesso 1996, infatti, viene selezionato al quinto giro un LB piccolo, forse lento e sotto taglia: Zach Thomas. L’anno dopo arriva un defensive end che sembrerebbe più un giocatore di basket che non di football: Jason Taylor.

Zach Thomas e Jason Taylor
Zach Thomas e Jason Taylor

Più che Abdul-Jabbar, cotto in due anni, furono questi due la chiave di volta per una nuova rinascita dei Dolphins. Su di loro, classe e cuore da vendere, verrà costruita negli anni successivi una buonissima difesa. Ma allora Miami avrebbe avuto problemi con l’attacco, perchè qualche altra cosa, inevitabilmente, doveva accadere.

Jacksonville, 8 gennaio 2000.

Il divisional playoff è una partita abbastanza facile da pronosticare. I Jaguars sono forti in ogni reparto. Brunell, Fred Taylor, Jimmy Smith, Tony Boselli. I Dolphins sono reduci da una vittoria sofferta nella Wild Card a Seattle, ancora per merito di quel vecchio ragazzo con il numero tredici, che è riuscito orchestrare l’ennesima rimonta in diciassette anni di onorato servizio.

Ma quel giorno va in un modo che non era nemmeno pronosticabile. I Miami Dolphins vengono umiliati dai Jaguars per 62-7. Sessantadue a sette.

Verso la leggenda

Anche se nel modo peggiore, quella partita consegnò alla posterità due grandi: Johnson e Marino. E come ulteriore beffa, i Dolphins presero dai Jaguars il QB di riserva, Jay Fiedler, il primo di una lunga serie di insuccessi del front office di Miami nella scelta del giocatore chiave.

Marino chiuse in quel triste pomeriggio una carriera leggendaria. Al momento del ritiro deteneva venticinque all-time record.

Introdotto nella Hall Of Fame ovviamente al primo anno disponibile, nel 2005.

E’ il volto più celebre nella storia dei Miami Dolphins insieme a Coach Shula.

Lo stesso Coach regalerà questo giudizio sul suo quarterback:

Ho avuto la fortuna di poterlo scegliere e di allenarlo per tredici delle sue diciassette stagioni.
In quel periodo migliorò tutti i possibili record sui passaggi. Completi, touchdown, yard
Quando mi chiedono la sensazione che ho avuto nell’allenare uno come lui rispondo con una sola parola.
“Excitement”

Oggi, oltre ad essere ambasciatore nel mondo per i Dolphins, è a capo di una istituzione meritoria quale la Dan Marino Foundation, che si occupa di fornire supporto e assistenza per l’integrazione di ragazzi bisognosi.

Riflessioni finali

I tre grandi del draft 1983 hanno impiegato poco tempo a cementare una amicizia dentro e fuori dal campo.

I ragazzi terribili del 1983, qualche anno dopo...
I ragazzi terribili, qualche anno dopo…

John Elway fu l’unico di quel gruppo fantastico a vincere due titoli, negli ultimi due anni di carriera.

Marino osservò con sincerità

Forse questa cosa è successa per far sì che io restassi una persona umile. Ho avuto talmente tanta buona sorte, forse è stato Dio a dirmi “Fidati, è per il tuo stesso bene”.
Quando però ho visto John Elway sollevare il Lombardi Trophy avevo gli occhi lucidi. Ero contento per lui, un amico al centro di una scena fantastica. Ma ero geloso, sinceramente. Non potrò mai avere quella sensazione, di lasciare il campo da vincitore nella partita più importante della stagione, l’ultima. Ho provato di tutto nella mia carriera, in ogni campo e in ogni situazione. Eccetto quella sensazione lì.

Vi racconto la storia di Tommy Flynn, il mio compagno di stanza a Pittsburgh. Venne scelto come defensive back dai Packers, tagliato a metà del 1986. Alla fine di quella stagione i Giants lo firmano per le ultime due partite. Lui blocca un punt nei playoff ed è a roster il giorno del Super Bowl vinto. Lui ha un anello. Sono davvero contento per lui, che è un caro amico. Ma se mi chiedete di scambiare la mia carriera con quell’anello…

Molti gli fecero notare per una vita sana che vincere indossando la maglia numero tredici non era possibile. Senza scomodare Kurt Warner,  il Most Valuable Player del Super Bowl VI fu Jake Scott, safety dei Dolphins della perfect season, maglia numero tredici. L’anno dopo toccò a Larry Csonka, runner dei Dolphins, maglia numero trentanove (tredici per tre…).

Anche Jim Kelly ha vinto la sua battaglia, ma lontano dal campo, quando nel 2015 ha sconfitto un carcinoma alla mascella. La sua numero dodici è la prima maglia ritirata nella storia dei Buffalo Bills.

John Elway attualmente è il presidente dei Denver Broncos campioni in carica, grazie anche al contributo non marginale di un altro vecchio quarterback dato per finito forse troppo presto, Peyton Manning, ritiratosi a 40 anni dopo la sua seconda vittoria al Super Bowl. La prima vittoria l’aveva ottenuta nel Super Bowl XLI, giocato al Dolphin Stadium di Miami, Florida.

Indirizzo dello stadio: 2269 Dan Marino Boulevard.

Marino e Manning
Marino e un ex-dipendente di John Elway…

Le citazioni di Dan Marino e alcune foto riportate in questo articolo sono tratte dalla sua autobiografia “My life in football”.

Questo articolo è per mia mamma. Ogni anno, il 15 settembre, scherzavo sul fatto che dovevo fare gli auguri di compleanno a Dan. E alla fine “Vabbè, va. Buon compleanno anche a te…”. Fino a due anni fa.

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Mauro Clementi

Curioso esempio di tifoso a polarità invertita: praticamente un lord inglese durante le partite della Roma, diventa un soggetto da Daspo non appena si trova ad assistere ad una partita di football. Ha da poco smesso lo stato di vedovanza da Marino. Viste le due squadre tifate, ha molta pazienza.

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