Offensive Tackle: gli angeli del lato oscuro

L’inizio del film

Prima dell’inizio di ogni azione c’è un momento di silenzio.
I giocatori sono in posizione, gli uomini di linea immobili.
Poi, come nel traffico impazzito, le persone cominciano a scontrarsi a caso.
Il tempo che passa dallo snap al rumore del primo osso spezzato è più vicino ai quattro che non ai cinque secondi.

One Mississippi
Joe Theismann, quarterback dei Redskins, prende lo snap e dà la palla al suo running back.

Two Mississippi
E’ un gioco a sorpresa, una flea flicker: il runner lancia la palla indietro al quarterback.

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Three Mississippi
Fino a questo momento il gioco è stato definito sulla base di quello che il quarterback può vedere.
Tra poco verrà definito sulla base di quello che non può vedere.

Four Mississippi
Lawrence Taylor è il miglior giocatore difensivo della NFL. Lo è stato dal momento in cui ha messo piede in campo nel suo anno da rookie. Sta per cambiare il gioco del football per come lo conoscevamo fino a quel momento.

[voce del commentatore] Rivediamo ancora dall’altra angolazione. Se siete deboli di stomaco vi suggerisco di non guardare.

Il leggendario Joe Theismann non ha mai più messo piede su un campo da football.

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Gli ultimi istanti della carriera di Joe Theismann

Uno dei football movies più belli degli ultimi anni è sicuramente The Blind Side (2009): racconta la vita di Michael Oher, campione NFL con i Ravens e attualmente in forza ai Carolina Panthers. Menzione per una sontuosa Sandra Bullock, premio Oscar come attrice protagonista nel ruolo di Leigh Anne Thuoy, madre adottiva di Michael.

Parlando di Oher, il film offre un ritratto visto dall’interno di una delle posizioni più critiche sul campo da football, giustamente rivalutata negli ultimi anni: la scena iniziale riporta alla memoria e allo sguardo uno dei più famosi pugni nello stomaco affrontati nel tempo da tutti gli appassionati di football, a prescindere dal tifo: le immagini dell’infortunio di Theismann, con lo stesso Lawrence Taylor sconvolto che chiama i medici dalle panchine (non deve essere stato facile nemmeno per lui) e il povero Joe portato via immobilizzato in barella, pallido come un cencio. La sequenza ovviamente è per stomaci forti: è uno di quegli episodi che ci risparmieremmo volentieri ma che in uno sport come il football, purtroppo, capitano con una certa periodicità.

“Il primo assegno è per il mutuo, il secondo per l’assicurazione”.

La NFL nel tempo è diventata quello che i giornalisti americani definiscono una pass happy league. Il gioco aereo è ormai la filosofia offensiva dominante per vari motivi, che spaziano dallo spettacolo vero e proprio alla sua efficacia. Tutti i sistemi di gioco, anche in presenza di runner forti, sono ormai basati sulla costruzione di un passing game solido. Molte squadre giocano direttamente in shotgun ad ogni down, molte squadre neppure hanno a roster il fullback per far spazio ai ricevitori. La stessa NFL ha rivisto il criterio di numerazione delle maglie, permettendo di assegnare ai WR anche la fascia di numeri tra il 10 e il 19, poichè tra sovraffollamento e maglie ritirate la vecchia numerazione tra 80 e 89 cominciava a non bastare più.

Questo approccio riverbera anche dalla dinamica delle draft dei tempi recenti: dall’anno 2000, per dare una idea molto approssimativa, le prime scelte assolute sono state:

  • undici quarterback
  • tre defensive end
  • due offensive tackle

Abbastanza illuminante: il QB è il volto della franchigia, il DE è l’antidoto. Soffermiamoci sulla terza voce: perchè non un ricevitore? Dove sta il vantaggio nel selezionare con il numero uno assoluto un tackle? Allarghiamo la prospettiva, perchè troviamo dati ancora più interessanti:

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  • Draft 2015: tackle selezionati al primo giro: 5
  • Draft 2014: tackle selezionati al primo giro: 4
  • Draft 2013: tackle selezionati al primo giro: 5, ma tre nelle prime quattro scelte assolute

Nello stesso film, poco dopo, si offre una spiegazione molto pratica per questo comportamento apparentemente strano:

Tutti voi potreste pensare che di solito il giocatore più pagato di una squadra sia il quarterback, e avreste ragione. Quello che potreste non sapere è che molto spesso il secondo giocatore più costoso, grazie a Lawrence Taylor, è il tackle di sinistra.
Questo perchè, come ogni brava casalinga sa bene, il primo assegno che staccate è quello del mutuo, ma il secondo è quello dell’assicurazione.

Spieghiamo con un po’ di dettaglio in più la precedente affermazione, inattaccabile sotto tutti i punti di vista.

L’importanza della pass protection

Se pensiamo a un quarterback di qualche tempo fa che possa aiutarci a connotare meglio la precedente definizione di pass happy league, il primo nome che può venire in testa a molti è quello di Dan Marino.

Nel suo ruolo Marino era avanti esattamente di venti anni: tanto hanno resistito suoi single season record per yard lanciate e TD pass stabiliti nel 1984. Per chi non ha avuto questa fortuna, veder giocare Marino al suo massimo era impressionante. Marino era un giocatore statico, vero pocket passer da catalogo che basava la sua pericolosità su un dato tecnico sostanzialmente poco riproducibile: Marino aveva una meccanica di lancio unica che gli permetteva un rilascio della palla in un tempo più basso di tre o quattro decimi rispetto agli altri.

Completamente fuori dall’ortodossia, come potrebbe essere la diteggiatura di Mark Knopfler. Miami negli anni Ottanta era esattamente questo, con pregi e difetti di un sistema di gioco che divenne però monodimensionale prima del previsto. Come lo stesso Dan Marino avrebbe detto più volte, senza una linea offensiva così forte quel gioco non era neppure ipotizzabile. Sottolineiamo che con i sistemi offensivi di oggi, Marino sarebbe più vicino alle seimila yard a stagione che non alle cinquemila.

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Il left tackle (77) contro un pass rusher molto largo

Cerchiamo di capire meglio l’importanza del blind side protector partendo dalle parole di uno dei left tackle che negli anni si sono avvicendati per proteggere il bene più prezioso di Miami, lo Stradivari con il numero 13. Jon Giesler una volta spiegò che la chiave era tutta lì: quaranta volte a partita lui doveva correre all’indietro per cinque yard in un tempo minore di quello che impiegava Mark Gastineau a farne otto correndo in avanti.

Quando si ha un QB destrorso, sia il movimento di arretramento (dropback) che la dinamica di lancio sono tali per cui il suo cono visivo è un po’ sfasato verso destra, specie nella parte periferica. Proprio per questo le difese mettono i pass rusher più veloci sul lato in cui la percezione del QB è minore, il cosiddetto e temutissimo lato cieco (the blind side). In sostanza il left tackle deve gestire ogni domenica il defensive end o l’outside linebacker più pericoloso della squadra avversaria. O tutti e due.

Non è retorico affermare che dalla bravura di questi giocatori dipende la durata della carriera di ogni quarterback, e sarebbe sufficiente mostrare le immagini citate dal film come cruda conferma.

Questo ruolo ha requisiti tecnici, fisici e attitudinali del tutto particolari. Massa e velocità, leve lunghe e coordinazione, footwork quasi da ballerino, forza e potenza. Una intelligenza reattiva, una capacità di capire e comunicare al volo con i compagni gli aggiustamenti di uno schema. Disciplina, affidabilità, dedizione e istinto di protezione.

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Per strano che possa sembrare parlando di giocatori di centotrenta e più chili, tutti i grandi tackle si sono distinti prima per tecnica e intelligenza di gioco, poi per forza fisica. Un duello contro un Bruce Smith o un J.J. Watt non può essere messo sul loro piano per tutta la partita, se ne uscirebbe distrutti. Il compito di un defensive end in quei casi lascia più spazio all’interpretazione e all’istinto, mentre il tackle deve attenersi allo schema di bloccaggio, adattandosi alla evoluzione dell’azione, cercando di non commettere penalità su cui gli arbitri possono non derogare. Il tutto lottando contro iperatleti grossi e pesanti quanto lui (i defensive tackle) e spesso molto più rapidi (i defensive end o i linebacker). L’unico vantaggio è che il tackle sa cosa dovrà fare, ma è un concetto relativo.

Ormai la funzione di questi giocatori è talmente nevralgica per cui nessuno li definisce più come “ah, quelli grossi che fanno il lavoro sporco in linea”. Fama, gloria e denaro sono decisamente proporzionali al loro ruolo di polizza sulla vita del QB.

Come anticipato, vedere all’opera questi giocatori è davvero uno spettacolo nello spettacolo. Vanno gustati bene durante i vari replay, perchè le riprese in diretta vanno dietro alla palla e non ai bloccatori. Il lavoro del tackle risalta solo perchè in quel dato momento un Bruce Smith, un Michael Strahan, un Reggie White sono semplicemente lontani dal cuore dell’azione…

Un riscontro inattaccabile del loro valore però è dato dalle solite, benedette statistiche. Un QB che incassa pochi sack e mette su cifre rispettabili ha come condizione necessaria la presenza di una linea forte. Garantire quei tre o quattro secondi che permettano al QB di leggere l’azione e di lanciare verso il bersaglio migliore è spesso una impresa ai limiti nella fisica, specie in un contesto dove si muovono atleti di quel livello.

E’ un lavoro di dettagli: magari il tackle può far tutto bene, ma al momento del lancio l’avversario salta e riesce a stoppare o a sporcare la traiettoria. Magari bisogna capire che quel defensive tackle è troppo grosso e lento per andare per linee esterne e forse è uno stunt per far passare un linebacker o un safety in blitz: in quel caso mollare un DT per fermare un LB o un DB è come buttar via un camion da una parte per fermare al volo la spider che arriva lanciatissima dall’altra.

A questi giocatori è richiesta una capacità di gestire una pressione esattamente pari a quella del loro quarterback. Va da sè che quelli che ci riescono vengono cercati dalle squadre ogni anno, sia tramite draft che tramite free agency. E pagati a peso d’oro, letteralmente.

Il loro skill set è talmente peculiare che anche nei college esistono due premi dedicati esplicitamente a chi gioca in linea (Outland Trophy, Lombardi Award), anche perchè la visibilità di QB, RB, WR fa sì che gli altri ruoli vengano solitamente tagliati fuori dalla corsa all’Heisman Trophy.

I grandi del passato

Quelli che hanno avuto e coltivato queste doti nella maniera più tenace sono diventati nel tempo vere e proprie icone, sia per la propria squadra che per il gioco in quanto tale. Eroi di solito silenziosi, a cui il tempo ha reso giustizia e gloria. A questo punto, chiarito lo scenario, siamo pronti per presentare alcuni grandi interpreti. Per inciso, noterete come questi giocatori hanno trascorso praticamente tutta la carriera in una sola squadra. Il motivo è proprio quello più diretto: giocatori così non si mollano.

Anthony Munoz (Cincinnati Bengals, 1980-1992)

A detta di molti, Munoz è stato il miglior interprete del ruolo in ogni epoca. Negli ultimi due anni nei Trojans di USC ebbe molti problemi ad un ginocchio, tanto da giocare solo otto partite in due stagioni. Quindi nella draft del 1980 c’erano molti dubbi sulla sua effettiva tenuta. Per loro fortuna i Bengals accettarono il rischio e lo selezionarono al primo giro, numero 3 assoluto.

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Anthony Munoz in azione

Nei primi dodici anni della sua carriera da pro, Munoz saltò in tutto tre partite. Un esempio costante per tutti, in campo e in palestra. Correva anche per dieci miglia tre volte alla settimana. Leader riconosciuto e stimato da compagni e avversari. In campo era il tackle perfetto. Undici convocazioni per il Pro Bowl, nove volte nominato nella prima squadra della AP All Pro Team, tre volte Offensive Lineman of the Year. Nel 1993 il suo fisico ormai non gli permetteva più quel livello di gioco, alcuni infortuni ormai erano ricorrenti. Firmato dai Buccaneers nel 1994, si ritirò prima dell’inizio del campionato.

Nel 2010 è stato votato al numero 12 nella Top 100 di NFL Network: il migliore tra gli offensive lineman, ovviamente. Impressionante da vedere in azione, fa piacere ricordare che il suo primo allenatore nei professionisti è stato Forrest Gregg, suo pari ruolo negli immortali Packers di Vince Lombardi. Jim McNally, OL Coach dei Bengals, tentava inorridito di correggere la stance di quello strano capellone scelto così in alto.

Si rese presto conto che Munoz compensava con doti atletiche superiori e con una tecnica di gioco impeccabile e si rassegnò, per così dire. Era talmente dominante che non si limitava ad amministrare il pass rusher avversario, ma spesso lo maltrattava, riusciva ad atterrarlo; inoltre era un bloccatore eccellente anche sulle corse: durante la sua carriera riuscì a portare oltre le fatidiche mille tre runner dalle caratteristiche antitetiche quali Pete Johnson, Ickey Woods e James Brooks.

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Quando poi Sam Wyche installò la no huddle offense, già intrinsecamente più faticosa per i difensori, Munoz in sostanza poteva anche lasciare il cartellino col nome al suo posto in campo: Boomer Esiason non sarebbe stato nemmeno avvicinato da quel lato, e per ogni defensive end la prospettiva di dover giocare una ottantina di snap contro quel muro mobile non era incoraggiante.

Aggiungere i quattro TD segnati in situazione di eleggibilità pare quasi superfluo. Munoz è stato uno scherzo della natura: sebbene oggi le sue misure sarebbero appena superiori a quelle di un Gronkowski, quindi leggerino per essere un tackle, sarebbe titolare ovunque senza pensarci. Primo giocatore dei Bengals ad essere introdotto nella Hall Of Fame, ovviamente al primo anno di eleggibilità (1998). A detta di molti non ha avuto eguali, ed è una delle tante leggende ad aver chiuso la carriera senza aver vinto un titolo (a giocar due finali contro Montana, poteva accadere). E’ ancora oggi il metro di paragone per il suo ruolo e lo rimarrà a lungo.

Jonathan Ogden (Baltimore Ravens 1996-2007)

E’ stato il primo giocatore indotto nella Hall Of Fame (2013) ad aver giocato per tutta la sua carriera con i Baltimore Ravens. Per capire l’impatto che uno come lui poteva avere sul gioco, non si può prescindere dal dato fisico: due metri e sei centimetri per centocinquanta chilogrammi. Uniti a una intelligenza di gioco superiore e a una tecnica eccellente: troppo facile spendere l’aggettivo dominante. 

Ma sarebbe ancora una visione parziale. In tutta la sua carriera Jon è stato il leader silenzioso dei Ravens, ottimo complemento del leader più vocal, che lui chiamava quello col 52, quello che parla sempre. Stare in una squadra con Ogden, che diceva dieci parole al giorno, e Ray Lewis che anche alle messe della squadra era quello che urlava amen più forte di tutti gli altri doveva essere una esperienza di vita curiosa, come racconta lo scrittore John Feinstein in Next Man Up. 

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“Thou shalt not pass” (Jonathan Ogden)

Dopo Anthony Munoz, Ogden è quello che più di tutti ha incarnato la visione del tackle Perfetto. Chiaramente inaffrontabile sul piano fisico, tecnica pulita e dedizione alla causa. Raccontava Michael Strahan (uno che ha creato problemi a più di un tackle) che contro di lui il bull rushing era pressochè impossibile: due volte su tre finiva per terra il difensore. Inoltre le rare volte in cui Ogden poteva trovarsi in difficoltà aveva leve talmente lunghe e potenti da riuscire comunque a portare a casa il compito.

Atleticamente benedetto da madre natura, a UCLA faceva anche lancio del disco e del peso, con misure buone per essere ammesso ai trial olimpici. E’ stato il primo giocatore in assoluto selezionato dai Baltimore Ravens nel 1996, perchè Ozzie Newsome (ottimo tight end ed eccellente GM) riuscì a far prevalere il suo parere su quello dell’owner Art Modell, che voleva scegliere Lawrence Phillips, scomparso pochi giorni fa dopo una carriera stroncata da un carattere problematico fino all’eccesso.

Fortunatamente la scelta di Ogden si è rivelata forse la migliore mai fatta nella storia della franchigia, alla pari con Ray Lewis (scelto nella stessa draft di Ogden) e Joe Flacco. Newsome riuscì ad assicurarsi un giocatore praticamente senza difetti, inaugurando un ciclo di scelte che portò alla costruzione della squadra campione NFL 2000. I Ravens dominavano con difesa e running game, ma la sola presenza di Ogden permise anche ad un QB medio come Trent Dilfer di poter guidare una squadra al titolo. Convocato undici volte per il Pro Bowl, inserito nella squadra del decennio.

Tony Boselli (Jacksonville Jaguars, 1995-2001, Houston Texans 2002)
Proviene dalla stessa università di Munoz (USC) e come Ogden è stato il primo giocatore in assoluto selezionato nella storia della sua squadra. Tony Boselli è stato senza pensarci il miglior tackle della sua generazione insieme a Jonathan Ogden.

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Tony Boselli

Struttura fisica imponente (altezza 2.01, peso 144), Boselli ha sempre coniugato forza e tecnica. Era lui il denominatore comune del successo di giocatori quali Mark Brunell, Fred Taylor, Jimmy Smith. Boselli era la figura più nota e rispettata del miglior periodo della giovane storia dei Jacksonville Jaguars, quando erano allenati da Coughlin. Quei Jaguars vennero fermati a sorpresa in casa dai Tennessee Titans (che poi sarebbero stati sconfitti dai Rams al Super Bowl), dopo aver inflitto ai Miami Dolphins la peggiore sconfitta della loro storia, nel giorno del ritiro di Dan Marino.

Rispetto alle caratteristiche descritte per gli altri giocatori, ovviamente Tony non faceva eccezione: mix devastante di forza e tecnica, leader vero in campo, in sostanza si poteva permettere di mettere a terra gente come Bruce Smith o di gestire di pura tecnica giocatori come Jason Taylor.

Purtroppo la sua carriera non è andata oltre i sette anni a causa di problemi ormai cronicizzati ad una spalla. Convocato cinque volte per il Pro Bowl, tre volte All Pro, inserito anche lui insieme a Ogden nella squadra del decennio. Firmato nel 2002 in expansion draft dai neonati Houston Texans, non riuscì tuttavia a giocare neppure una partita con la nuova squadra, e tornò a Jacksonville, per ritirarsi con la franchigia di cui, ad oggi, è il giocatore più rappresentativo di sempre, probabilmente caso unico per un tackle.

Fuoriclasse in campo, persona integra e coerente fuori. Nel 2014 prese una posizione netta sulle class action che si stavano defilando contro la NFL per il problema delle concussion. A costo di sembrare impopolare, disse:

Ho dei dubbi sui casi sollevati da alcuni giocatori che si sono associati alla class action, sulle loro motivazioni. Noi conosciamo sin troppo bene i rischi e penso che gli eventuali ricavi ottenuti dovrebbero andare a beneficio di chi ne ha davvero bisogno, i giocatori colpiti da demenza precoce o dalla SLA.

Noi facciamo questo sport e i rischi li sappiamo. Un giocatore che dicesse “Ma io non avevo capito che il mio corpo non sarebbe più stato lo stesso per il resto della mia vita” starebbe mentendo a se stesso e agli altri, secondo me.

Kudos, Tony.

Walter Jones (Seattle Seahawks, 1997-2009)

Big Walt è stato introdotto a Canton nel 2014, al primo anno di eleggibilità. Per capire cosa possa portare un giocatore dalla fama alla leggenda potremmo snocciolare statistiche, convocazioni al Pro Bowl (nove  nel suo caso), nomination nella squadra All Pro (quattro volte nel first team, due nel second team), pareri di compagni e avversari. Per Jones è più espressivo ricorrere ad un video di meno di venti secondi estrapolato da una finale di conference contro i Panthers.

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Come sempre la telecamera segue la palla, portata dal runner Shaun Alexander. Concentrandosi sulla parte alta dello schermo si vede Walter Jones che letteralmente trasporta il defensive end avversario per buone quindici yard. Bisogna notare che Jones, andando per linee interne, riesce quasi a tenere lo stesso passo del suo runner, con la differenza che sta spingendo via un defensive end (Keith Rucker, un Pro Bowler…).

Sicuramente il runner ci ha messo del suo, ma è grazie a Jones che riesce a girare l’angolo indisturbato e a puntare il campo aperto. Jones è stato uno dei giocatori fondamentali dei Seahawks che arrivarono al Super Bowl del 2005 perso contro gli Steelers. Va da sè che Big Walt dominava fisicamente il duello con l’avversario (1.96, 147 kg): per allenarsi si metteva a spingere il suo SUV.

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Un allenamento come un altro…

Ricollegandosi al discorso della protezione del QB, Jones ha concesso ventitre sack in tutta la sua carriera (poco meno di due l’anno…) e in uno spazio di otto anni l’attacco per cui bloccava lui ha prodotto un runner da più di mille yard. In sette di questi otto anni il QB è andato sopra le tremila.

Most linemen open up rush lanes. Jones opened up rush canyons.

(Greg Bishop, Sports Illustrated)

Oltre all’innegabile valore tecnico, Jones era il vero e proprio uomo squadra in tutte le occasioni, anche fuori dal campo. Quando Matt Hasselbeck arrivò da Green Bay, al primo huddle prese per mano Jones (come usavano fare a GB). Walt rifiutò e ci rimase anche perplesso… Ad ogni festa della squadra era il ballerino più attivo, era sempre quello più allegro e riusciva a dare buonumore e allegria a tutti.

Veniva descritto come un Eddie Murphy un po’ sovrappeso. Incubo di ogni defensive end a causa del mix letale di forza e velocità, Hasselbeck era paradossalmente contento quando saltava il training camp per dispute contrattuali: “Meglio, si riposa e non si infortuna”. Illuminante.

Orlando Pace (St.Louis Rams 1997-2008, Chicago Bears 2009)

A cavallo del cambio di millennio, senza pensarci i Rams sono stati la squadra che ha praticato il più bel football offensivo di tutta la NFL, come fa trapelare la dizione “The Greatest Show on Turf”. Le storie su quel gruppo di fuoriclasse sarebbero da trattare a parte, a partire dal fattorino Kurt Warner che entra in campo per l’infortunio di Trent Green e accende il motore della più grande stagione della storia dei gialloblu.

Ma oltre a Warner, Faulk e un gruppo di ricevitori da urlo, per motivare le performance di un attacco di quel tipo dobbiamo anche dare i giusti meriti a una linea dove giganteggiava Orlando Pace, The Pancake Manprima scelta assoluta dei Rams nel 1997 (per onor di cronaca, Peyton Manning aveva appena deciso di passare un altro anno ai Volunteers). Il pedigree ai tempi degli Ohio Buckeyes può essere riassunto dal fatto che Sports Illustrated lo aveva incluso nella squadra di college del secolo. 

Per capire la levatura tecnica di Pace, può essere sufficiente ricordare che nel 2000 fu in campo nel 99.6% degli snap offensivi (1006 su 1013) senza commettere neppure una penalità di holding. In quell’anno i Rams stabilirono il record della NFL per le yard lanciate (5232, a cui aggiunsero 1843 yard su corsa…).

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Orlando Pace. Specialità della casa: pancake

Come nel caso di Tony Boselli, anche per Pace il declino fu imputabile alla cronicizzazione di alcuni infortuni. Nel 2009 purtroppo venne ritenuto una cap casualty e per risparmiare sei milioni di dollari sul tetto salariale i Rams lo mandarono a Chicago, dove giocò in tutto undici partite prima di infortunarsi di nuovo.

Menzioni d’onore

Bruce Matthews. Sebbene abbia giocato tackle solo nei ritagli di tempo, non possiamo non ricordare Bruce Matthews. Diciannove anni in linea d’attacco (Oilers e Titans, quindi non ha mai cambiato squadra) senza saltare una singola partita. C’è stato un momento in cui il suo head coach è stato suo compagno di college (Jeff Fisher), se serve una definizione di longevità. Va ricordato che in sostanza la famiglia Matthews è la vera e propria dinastia della NFL. Bruce è fratello di Clay Matthews (ex LB dei Browns) e quindi zio di Clay Matthews Jr (pass rusher foltocrinito dei Packers), ma per l’impatto dell’albero genealogico dei Matthews sulla NFL vi rimandiamo a fonti più autorevoli.

La linea dei Miami Dolphins 1989-1990. Il riscontro più contundente sull’importanza del lavoro di questi giocatori: nel periodo indicato la OL dei Miami Dolphins ha fatto sì che Dan Marino non subisse un sack per diciannove partite consecutive. Hanno contribuito a questo record Jeff Dellenbach e Richmond Webb (LT), Roy Foster e Keith Sims (LG), Jeff Uhlenhake (C), Harry Galbreath e Jeff Dellenbach (RG), Ronnie Lee e Mark Dennis (RT).

Il presente

Per quanto abbiamo visto, oggi un left tackle forte, solido e affidabile è diventata una necessità imprescindibile per ogni squadra. Al momento attuale il miglior angelo custode in circolazione è Joe Thomas dei Cleveland Browns, dove insieme al centro Alex Mack costituiscono le fondamenta di una linea d’attacco sicuramente interessante che però predica abbastanza nel deserto.

Molto ben avviato è anche Tyron Smith dei Cowboys, ennesima riprova che scegliere un tackle da USC è un ottimo investimento. Joe Staley (Fortyniners) e Trent Williams (Redskins) sono due eccellenti veterani che probabilmente hanno già giocato il loro football migliore. Il futuro del ruolo, oltre a Thomas e Smith che sono giovani, vede sul binario giusto anche Kyle Long dei Bears (figlio del leggendario Howie Long), Eric Fisher (Chiefs) e Luke Joeckel (Jaguars: eredità un po’ impegnativa…).

Troppo esposto agli infortuni Jake Long, che venne scelto nel 2008 dai Dolphins con il numero uno assoluto. Dopo quattro anni di livello assoluto, venne lasciato andare per i ricorrenti problemi fisici: annata accettabile con i Rams, ora ai Falcons.

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Joe Thomas

Va da sè che tutti questi giocatori ormai occupano una fetta consistente nel tetto salariale delle rispettive squadre, ma la caccia al left tackle procede ormai ogni anno, ad ogni mercato dei free agent, ad ogni draft.

Le incredibili skill di questi giocatori hanno ormai una importanza riconosciuta anche dal grande pubblico, che ha capito che se il loro quarterback riesce a giocare bene e a lungo è solamente grazie agli angeli del lato oscuro…

E a Lawrence Taylor…

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Mauro Clementi

Curioso esempio di tifoso a polarità invertita: praticamente un lord inglese durante le partite della Roma, diventa un soggetto da Daspo non appena si trova ad assistere ad una partita di football. Ha da poco smesso lo stato di vedovanza da Marino. Viste le due squadre tifate, ha molta pazienza.

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