Nella mente di Carson Wentz

Immaginatevi di avere un QB che, dopo un rodaggio iniziale di 3 brutte partite a causa di un rientro accelerato da un fastidioso infortunio, da week 4 a week 16 lancia 22 TD e solo 5 intercetti, con una percentuale di completi del 64% e un passer rating inferiore solo a quello di Rodgers e Burrow. Sareste contenti no?

Considerate inoltre che questo quarterback ha guidato la sua squadra ad un record di 9 vinte e 3 perse durante quella striscia di 12 partite; certo il calendario non era proibitivo, ma in NFL non esistono vittorie facili come gli insegneranno le ultime due partite che condanneranno lui e la sua squadra a stare fuori dai playoff. Ora mi sa che sareste un po’ meno contenti.

Su questo quarterback, il front office della nuova squadra, che nel 2021 aveva investito una scelta al terzo giro e una condizionata al secondo che poi si è trasformata in primo giro, aveva riposto totale fiducia, ma dopo nemmeno un anno è stato liquidato e scambiato perché ha deluso ben oltre i numeri delle sue statistiche. Direi che sapendo anche questo adesso siete tutt’altro che contenti.

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Probabilmente avrete già capito che si sta parlando di Carson Wentz, QB prima dei Philadelphia Eagles, poi degli Indianapolis Colts e adesso dei Washington Commanders.

Nel 2017 a Philadelphia, nella striscia tra week 3 e week 12, Wentz ha lanciato 24 TD e solo 2 intercetti, con un passer rating di 108,6; alla seconda stagione in NFL era un serio candidato ad aggiudicarsi il titolo di MVP, ma un brutto infortunio al ginocchio contro i Rams pose fine alla sua stagione, che per i Philadelphia Eagles invece proseguì guidati da Nick Foles e si concluse con la vittoria del Super Bowl.

Molti a Philadelphia hanno indicato in quell’infortunio il punto di svolta, in negativo, della sua carriera, dicendo che non è mai più tornato quello di prima e che avrebbe dovuto, sull’esempio di Randall Cunningham, limitare di più il suo gioco di corsa per concentrarsi su quello di passaggio.

Personalmente non sostengo questa teoria, perché sicuramente non sono mai state le corse il punto di forza del gioco di Wentz e nel 2020 ha ottenuto statistiche, in quel fondamentale, analoghe a quelle della stagione del 2017. Io sono convinto che quell’infortunio abbia minato non tanto il suo fisico, quanto la sua sicurezza: probabilmente vedere un backup quarterback che era riuscito a trascinare al titolo la squadra che Wentz riteneva “sua”, gli ha lasciato la sensazione di aver subito dal destino beffardo un’ ingiustizia e  di aver sofferto la sottrazione della gloria che pensava essere destinata a lui.

Il vedere l’anno successivo come nello spogliatoio si fosse cementato il legame tra molti giocatori e Foles, sensazione naturale quando vivi insieme da protagonista un evento eccezionale come il Super Bowl, è stata a mio giudizio la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso e che lo ha spinto Carson a cercare di imporsi come leader forzando la situazione e ottenendo l’effetto opposto di quello desiderato.

Da allora sono state molte le incomprensioni con alcuni compagni e con il coaching staff, con la stampa di Philadelphia divisa su addossare i fallimenti della squadra alle colpe del quarterback o del resto del roster, come se non fossero un tutt’uno legato da un unico destino.

L’anno scorso è stata inevitabile la richiesta di Wentz di essere scambiato per cercare di riprendere in mano il bandolo della matassa della sua carriera e ripartire dal coach con cui si era trovato meglio nelle prime stagioni, Frank Reich, all’epoca offensive coordinator dei Philadelphia Eagles, che nel frattempo era diventato Head Coach degli Indianapolis Colts.

Reich e il General Manager dei Colts, Chris Ballard, avevano riposto grande fiducia in quell’acquisizione, perché pensavano che Wentz, ricongiungendosi al suo mentore, potesse ritornare il giocatore del 2017.

Invece è bastata metà stagione per far capire a tutto l’ambiente che quel ragazzo si era perso e che non era in grado di rispondere alle loro aspettative. Nonostante le statistiche fossero buone e la squadra fosse indirizzata a raggiungere un posto nei playoff, tutta la società si era resa conto che Wentz non era più il giocatore del 2017, in grado di guidare uno spogliatoio ed esserne il leader. Era come se fosse sconnesso dai suoi compagni, come testimoniato anche dalla scarsa connessione con i suoi ricevitori, insicuro nei momenti decisivi, confuso nelle chiamate, al punto da costringere Reich alla semplificazione degli schemi. Era solo questione di tempo; le devastanti sconfitte contro Raiders e Jaguars, che hanno decretato il mancato raggiungimento dei playoff, sono state solo il chiodo sulla bara del progetto di rilancio di Carson iniziato qualche mese prima.

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I risultati sono stati così disastrosi che Reich e Ballard non hanno avuto remore nel prendersi la responsabilità del fallimento del progetto e mandare Wentz ai Commanders, senza neppure aspettare di avere un’alternativa valida per il ruolo e senza avere nemmeno grandi possibilità di trovarne una adeguata al draft: questo la dice lunga su quanto Wentz sia stato deludente ad Indianapolis.

I Colts hanno dimostrato grande umiltà nel non intestardirsi cercando di far funzionare qualcosa che si erano resi conto che non potesse funzionare e il destino ha ricompensato la loro onestà intellettuale facendogli arrivare inaspettatamente dai Falcons un quarterback veterano, ma con ancora qualche cartuccia da sparare, come Matt Ryan.

Tornando a Carson Wentz la situazione sembra davvero irrecuperabile: alla soglia dei trent’anni, con un fisico che ha subito alcuni infortuni importanti a ginocchio e schiena, è chiamato alla corte di Ron Rivera per vedere se esiste per lui ancora un futuro da starter in questa lega.

Personalmente sono convinto che se verrà gestito come è stato fatto finora, la sua carriera da titolare finirà il prossimo anno. Se neppure un coach come Reich, che lo stesso Wentz apprezzava e di cui si fidava, è riuscito a riportarlo ai vecchi fasti, non so davvero quale altro allenatore possa farlo.

L’impressione è che il problema di Wentz sia principalmente nella sua testa e che solo un mental coach possa essere la soluzione. Alcuni atleti come Micheal Jordan, Kobe Bryant e, nel football americano, Russell Wilson, si sono affidati a degli psicologi specializzati nello sport ottenendo risultati eccezionali. Wilson lo ha fatto per tutta la sua carriera, ma ha dichiarato più volte quanto sia stata fondamentale la figura del suo mental coach dopo la devastante sconfitta nel Super Bowl del 2015.

Un altro esempio eclatante di quanto questi professionisti possano essere importanti per gli atleti lo abbiamo visto nelle ultime Olimpiadi, quando, contro ogni pronostico, Marcell Jacobs ha vinto l’oro nei 100m, dimostrando non solo una condizione atletica eccezionale, ma una forza mentale indispensabile per superare i propri limiti e conquistare il gradino più alto del podio.

Dalla stagione 2019 tutte le squadre NFL hanno introdotto delle collaborazioni costanti con degli psicologi che per qualche ora a settimana seguono i giocatori e gli allenatori soprattutto nella gestione dei problemi di salute mentale, ansia, depressione, abuso di sostanze, sopportazione del dolore e gestione delle problematiche familiari.

Questo è stato un passo fondamentale per far accettare ai giocatori l’idea che tutti gli aspetti, anche quelli mentali, non devono essere sottovalutati e  non possono essere trascurati in uno sport professionistico in cui si misurano i centesimi di velocità di corsa, i cm di salto raggiunti, i chilogrammi di muscoli acquisiti. Troppo spesso dei giocatori con grandissimo talento, ma provenienti magari da realtà difficili, hanno visto andare in fumo tutte le loro speranze per l’incapacità di gestire delle situazioni che la vita da atleta professionista gli presentava. Quanti sono caduti nell’abuso di farmaci e droghe? Quanti non hanno saputo allontanarsi dagli ambienti criminali in cui erano cresciuti in termini di compagnie (vedi la storia di Michael Vick per citarne una)? Troppi per non meritare una maggiore attenzione da parte delle squadre che così tanto hanno investito in quei ragazzi.

Io credo che siamo ancora agli albori di un processo in cui  psicologi e mental coach saranno inseriti a tutti gli effetti nel roster dei coaching staff, perché è impensabile continuare a valutare i vari aspetti del gioco solo in base alle statistiche, agli analytics, alle analisi finanziarie del cap, dimenticandosi che alla base di tutto c’è la testa di dei ragazzi che troppo spesso non sono pronti a gestire i ritmi e le aspettative di una lega professionale, ma spietata, come la NFL. Quelle menti vanno preparate e allenate, esattamente come la tecnica e il fisico e spero davvero che Carson Wentz, insieme allo staff dei Washington Commanders, capisca che se vuole dare una svolta alla sua carriera dovrà intraprendere un percorso diverso da quello tentato negli ultimi anni e allora quel viaggio non potrà che iniziare analizzando cosa è cambiato nella sua testa dopo quell’infortunio del 2017.

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Giorgio Prunotto

Appassionato da 30 anni di football americano e dei Cincinnati Bengals, stregato dal design del loro casco, dalle magie di Boomer Esiason e dalla Ickey Shuffle.

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2 Commenti

    1. Grazie. Diciamo che l’aspetto mentale dei giocatori mi affascina molto e cerco sempre di analizzarlo per capire meglio le loro prestazioni in campo.
      Wentz è un giocatore che ho seguito tanto e purtroppo non è riuscito a superare i suoi fantasmi (a riguardo ti invito a cercare su HUDDLE questo pezzo particolare ma secondo me illuminante: C’era una volta… Carson Wentz)
      Spero ti piaccia.

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