La ripresa della BIG 10

Ora si gioca: il dietrofront della Big 10, tra pressioni economiche e sociali

Il cielo del Midwest cominciò ad annuvolarsi durante la mattinata del 9 agosto scorso, quando, nella semioscurità di un incontro telematico, i vertici della Big 10 Conference decisero che era necessario quantomeno “rivedere” l’idea, fino a quel momento inscalfibile, di poter garantire lo svolgersi di una stagione normale. Le prima gocce di pioggia che si abbatterono i Grandi Laghi in quella mattinata furono dovute alla scelta, fulminea ed irrevocabile, di cancellare i non-conference game e di tracciare nuovamente il disegno del calendario conference only.

È uno scherzo? Come faremo senza Ohio State vs. Oregon?

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Certo, lette ora, le nostre reazioni “a caldo” fanno sorridere. Però chi di noi si sarebbe potuto immaginare che quelle nuvole, non poi così minacciose, si potessero nel breve arco di 48 ore trasformare in bufera? Certo non noi della sponda vecchia dell’Atlantico, che già da mesi ci gustavamo il ritorno degli sport professionistici, senza grossi problemi riscontrati e presagibili. Ma eravamo troppo scarsamente informati.

Non più tardi dell’11 agosto, infatti, sempre i suddetti “vertici”, spararono la bomba che fece implodere il mondo del college football e i cuori di milioni di tifosi, specialmente quelli dei veri aficionados del Nebraska rurale o dell’Iowa, che si videro d’un tratto mozzate le radici grazie alle quali ogni autunno riescono a nutrirsi e a mantenersi in vita nonostante la stagione nefasta. La stagione sportiva era cancellata, period.

Nessun “puntino sulla i”, niente White Out, niente The Victors, niente Brown Jug e neppure Oacken Bucket o Bunyan’s Axe, niente The Game, e il Land of Lincoln per la prima volta senza padrone, niente tailgating, col cornhole e i corndogs, assolutamente niente di niente. Solo il silenzio delle cattedrali chiuse, bandite ai loro fedeli più ferventi.

Un atto che, per quanto approvato democraticamente con quasi l’80% delle preferenze (11 a 3 si chiuse la votazione), parve immediatamente come una decisa presa di posizione, figlia forse di uno snobismo e di una superbia propria dei decisori, ma anni luce distante dall’indole del popolo cui essi fanno da custodi. Volontà di – come direbbero loro –make a statement, ossia di far valere la propria voce e il proprio potere, con il preciso intento di indottrinare gli altri, sperando di convertirli e di portarli tutti sulla retta via appena tracciata.

Questo ruolo di “apripista” ideologico trascende quella che è l’impostazione intellettuale della BIG 10: una conference sempre in prima linea per quanto concerne l’evoluzione (BigTen Network ne è un esempio), ma che raramente ha prediletto scelte impopolari essenzialmente per perseguire un ideale. Detta in parole semplici: non ha mai posto gli interessi economici alle spalle di quelli ideologici, cosa che invece continua a fare la Ivy League, che della propria superbia fa un capostipite. È vero, BIG 10 e Ivy League condividono pochino – sarebbe come confrontare Serie A e Eccellenza – in primis in termini di introiti, ed è quindi equivoco forzare un paragone di questo tipo.

Più vicina alla BIG 10 – per interessi socio-economici – è invece la Pac-12, la conference della costa Ovest, la parte idealista e progressista dell’America, da cui, proprio per questo, era maggiormente prevedibile una decisione di questo tipo. Nella Pac-12 ci sono, per esempio, Stanford, che possiede la rinomanza delle scuole della Ivy, ma un programma atletico di livello differente, e Cal, l’università di Berkeley, da cui presero piede le proteste del ’68, solo le prime di una biblica serie. Discorso analogo lo si può fare per la Mountain West, che pur vedendosi composta da un crogiolo di culture diverse, raggruppa atenei come Fresno State, sempre in California siamo, quindi “vedi sopra”, o UNLV, simbolo della fluidità culturale di Las Vegas, o anche San José State, ateneo dove, proprio in quel ’68, John Carlos e Tommy Smith architettarono il loro celeberrimo “pugno al cielo”. Okay, forse il 2020 non è il 1968, anche se, come impatto sulla cultura collettiva, alla lunga, vedrete che gli si potrebbe avvicinare. Da loro, MW e Pac-12, sì, ci si poteva attendere un comportamento di questo tipo.

Ma torniamo alla BIG 10: hanno provato a dare una sterzata forte verso la direzione che loro ritenevano corretta (forse non proprio del tutto a sproposito, e lo vedremo), ma si son visti spalleggiare solo da un’altra Power 5, la più debole delle cinque, e quella che meno ci avrebbe perso da un 2020 bianchettato.

Il 12 agosto, infatti, la BigXII prese la parola, sostenendo che la stagione, secondo loro, si sarebbe potuta giocare normalmente e che le precauzioni dei loro colleghi del Midwest erano esagerate e controproducenti (e anche qui, argomentazioni per nulla campate per aria, e vedremo anche queste). SEC e ACC si accodarono in fretta, proseguendo il loro lavoro di rescheduling della stagione, facendo immediatamente realizzare alla BIG 10 di aver sopravvalutato la propria influenza a livello nazionale e di aver probabilmente sottostimato i danni che da una decisione così sarebbero derivati; danni che sarebbero ovviamente risultati ancor più laceranti ora che le altre avevano optato per giocare.

La prima università a parlare fu Nebraska – una delle tre scuole a votare contro la mozione – che si disse indignata e preoccupata per il futuro suo e della conference: gli Huskers avrebbero cercato di boicottare la decisione della BIG 10 provando a costruirsi da soli, mattone per mattone, una parvenza di schedule.

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Poi fu la volta di Ohio State, che fece ampiamente capire di essere contrariata, anche mediante la petizione indetta dal suo quarterback e giocatore simbolo Justin Fields (che raccolse oltre 300’000 firme).

Infine, alla snocciolata, parlarono anche gli altri, tra i quali uno dei primi fu James Franklin, capo allenatore di Penn State, che contestò non tanto la decisione in sé (anche perché il suo datore di lavoro votò a favore dell’annullamento, quindi se ne guardò bene), quanto la completa mancanza di comunicazione da parte della Conference, che non rese mai partecipi i membri degli avvicendamenti del processo decisionale, puntando il dito in particolare contro il commissioner Kevin Warren, ritenuto principale responsabile di questo buio carbonario nel quale l’istituzione si è avvolta. A Warren è stata mossa inoltre la critica di voler essere sovranista oltremodo, ma di non riuscire a governare neppure tra le sue mura domestiche, considerato che il figlio Powers è un wide receiver di Mississippi State, ed è normalmente a roster per i Bulldogs. Lui può giocare e noi no? Come ce lo spiega questo mister Warren?

Alle provocazioni dei Cornhuskers la BIG 10 ha risposto usando il pugno di ferro, sapendo di poterlo fare, visto che è più quello che Nebraska prende dalla Conference di quanto la BIG 10 “prenda” da Nebraska; salvo poi calare le braghe dinnanzi alle movimentazioni di Ohio State, in quanto in questo caso l’implicazione è rovesciata. Inutile girarci troppo attorno: è stato proprio il malcontento in zona Columbus, Ohio, a portare alla decisione della settimana scorsa di tornare sui propri passi e proporre una bozza di stagione. Una cosa fatta coi piedi, un tentativo di riparare ad un iniziale errore – oppure di sporcare una scelta che poteva avere un senso, a seconda dei punti di vista – che ha messo in ridicolo l’istituzione, dimostrandone l’inadeguatezza e la sudditanza nei confronti di chi ha più potere economico di essa, cosa che non dovrebbe mai accadere.

Denaro e salute (in ordine alfabetico, ma non solo)

Le ragioni del dietrofront, come detto, sono molteplici.

Prima avevamo lasciato in sospeso la questione riguardante le motivazioni di BIG 10 e BigXII che hanno portato alle scelte opposte che hanno aperto la falla dalla quale la nave della NCAA non ha ancora finito di imbarcare acqua, ma ora ci torniamo.

La BIG 10, a ragione, sosteneva che sia totalmente irresponsabile da parte di una qualunque lega dilettantistica, che, in quanto tale, non prevede retribuzioni per i propri tesserati, forzare a tutti i costi la mano per tentare di giocare. Ideologicamente è la cosa più corretta (non a caso è la posizione sostenuta dalla Ivy League), in quanto a rischiare la salute sono i ragazzi buttati nella zuffa sul gridiron, e ad ottenere i profitti sono quelli seduti nello sky box con mascherina e distanziamento sociale. Eticamente scorretto, converrete.

La BigXII, dal canto suo, assolutamente a ragione anche in questo caso, sosteneva che per gli stessi ragazzi fosse molto meno pericoloso giocare a football – allenandosi in ambienti controllati, con persone testate settimanalmente e, soprattutto, con un obiettivo che li tenesse lontani dalla notoriamente claustrale vita del college – rispetto a qualsivoglia attività essi avessero intrapreso all’esterno, anche il semplice andare da Walmart; lasciando comunque, correttamente, ai ragazzi la liceità di potersi “chiamare fuori” dalla stagione, senza perdere un anno di eleggibilità e senza perdere la preziosissima scholarship. Inoltre, se da un lato è vero che i ragazzi non vengono retribuiti per le loro gesta sul campo, dall’altro non va dimenticato che essi si giochino le loro chance per ottenere in un futuro abbastanza prossimo i beneamati dead presidents della NFL. Come scrisse su twitter Joe Burrow: “se la SEC l’anno scorso avesse annullato la stagione, io ora sarei alla ricerca di un lavoro”. Bersaglio centrato Joey, d’altronde fallisci raramente.

E poi, vogliamo scoperchiare il vaso di Pandora e parlare degli “spiccioletti” che nessuno, perlomeno per via ufficiale, menziona, ma che non solo sono “una delle”, ma sono “la prima” e fondamentale motivazione del testacoda della BIG 10? Secondo il New York Post, infatti, la cancellazione della stagione autunnale di football, con annessi e connessi, avrebbe causato alla BIG 10 una perdita di oltre 1 miliardo di dollari, di cui 275 milioni derivanti dalla vendita dei biglietti (e quindi in ogni caso da “salutare”) e gli altri da diritti tv, merchandising ed eventi vari. Il danno economico per ogni singola università sarebbe ammontato ad una cifra dai $49 milioni di Rutgers ai $104 di Ohio State. Capite che anche se il diritto alla salute “non ha prezzo”, combattere per quel diritto ne potrebbe avere uno salatissimo, che non tutti son disposti a pagare.

La formula

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La settimana scorsa è arrivata, quindi, la decisione di riprendere, e nel weekend è stato reso pubblico il nuovo calendario: la formula proposta prevede una stagione regolare di 8 settimane, che darà il primo kickoff nel weekend del 24 ottobre.

Potranno le squadre della BIG 10 (leggete: Ohio State) partecipare ai Playoff? In linea teorica sì, visto che la stagione si concluderebbe il giorno prima della Selection Sunday della commissione, ma se per caso qualche squadra, come è ampiamente prevedibile, dovesse saltare una o più gare per “problemi covid” allora ci affideremmo al buon senso dei commissari e alla loro capacità di prendere la decisione più giusta. Vi fa ridere? Beh, ad ora è proprio così: non è stato sancito nessun “limite minimo” di gare al di sotto del quale una squadra non possa definirsi eleggibile per i CFP, discorso che riguarda, in effetti, tutte le interessate (anche Clemson o Alabama potrebbero chiudere la stagione con 6 o 7 gare, e a quel punto? Dentro UAB che ha iniziato a giocare a luglio e non intende fermarsi!). Addirittura, ad ora, vista la concreta probabilità che le squadre della BIG 10 (e non solo, in realtà) chiudano la regular season con un numero di gare disputate differenti l’una dall’altra, a valere, per il titolo di campione di conference, sarà la percentuale di vittorie. È chiaro che anche qua qualche clausola andrà inserita, onde evitare di vedere l’Indiana di turno che dopo una partenza 1-0 inizi ad organizzare “covid party” per far ammalare i suoi studenti e bloccare le gare degli Hoosiers, che si vedrebbero incoronare campioni (assurdo, sì, ma ad ora possibile).

Le future interruzioni della stagione, infatti, si basano su un color-coded system (un sistema codificato a colori), che prevede l’attribuzione ad ogni ateneo di un colore: verde se la percentuale di tamponi positivi dovesse essere inferiore al 2%, giallo se dovesse essere compresa tra il 2% e il 5%, che prevederebbe una prosecuzione delle attività, ma con “cautela”, e rosso se dovesse eccedere il 5%, che significherebbe interruzione immediata di ogni attività. Come potete capire, si naviga a vista.

Ultimo punto, di poco conto, ma pur sempre importante: Ohio State – Michigan è stata nuovamente spostata al termine della stagione. Stupendo, perché come è giusto che sia The Game chiuderà la stagione regolare di Buckeyes e Wolverines, ma… se dovessero – una tra OSU e UofM, o tutte e due – rimandare una gara e scalare di una settimana il calendario? Vorrebbe dire o sforare sulla data di selezione dei Playoff, inammissibile, almeno a priori, per Ohio State, oppure che The Game sarebbe a rischio cancellazione. Sì, si naviga decisamente a vista e la nebbia è molto fitta.

E la Pac-12?

La Pac-12, pur avendo cercato fino all’ultimo di evitare di replicare la figura da voltagabbana dei cugini del Midwest, è dovuta anch’essa cedere alle troppo imponenti pressioni sotto cui le altre quattro superpotenze la hanno posta. Le è toccato andare contro i suoi principi, tra i quali gli ultimi ad aver opposto resistenza son stati quelli politici: infatti, se Donald Trump ha esultato alla comunicazione della ripresa della Big10, dicendosi entusiasta di aver contribuito a questa scelta, beh, ad Ovest, specialmente in California e in Oregon, pur di far scontento l’attuale Presidente hanno tentato di fare tutto il possibile, dalle leggi statali molto più restrittive di quelle “intimate” dal tycoon, al categorico rifiuto di scendere a patti per “salvare l’economia”, ribadendo il concetto health first, alquanto avverso all’ideologia repubblicana. Nel Golden e nel Beaver State, infatti, è attualmente in vigore una norma che non consente allenamenti in gruppi di oltre 12 elementi, il che, com’è chiaro, vieterebbe gli scrimmage.

La Pac-12, quindi, nonostante i tanti paletti ancora vigenti che la obbligheranno a gestire le diverse situazioni singolarmente, ha deciso di procedere con la programmazione della stagione che vedrà il sipario alzarsi il 6 novembre e che prevederà una regular season di 7 giornate, che si concluderà entro e non oltre (perlomeno nelle idee iniziali) la fatidica data di riunione dei commissari Playoff. Una forzatura ancora maggiore di quella azzardata dalla Big10 che non renderà per nulla semplice la gestione di eventuali cancellazioni o rinvii. Ma, come detto, dal punto di vista economico è fondamentale non tanto il riuscire a portare una squadra ai Playoff, quanto il poterlo fare: chi seguirebbe le gesta di Oregon sapendo che ne sarebbe tagliata fuori a prescindere?

Anche la Mountain West si è allineata – seguita dalla Mid-American (che non voleva rimanere l’unica conference della FBS a non giocare) – impegnandosi a produrre una proposta di calendario in tutto e per tutto simile a quello della Big10 (inizio il 24 ottobre).
Il commissioner della Pac-12 Larry Scott ha commentato la decisione dicendo che essa, cito: “è stata il risultato di ciò che era stato detto in agosto – ossia che avremmo seguito la scienza, seguito i dati, seguito i consigli dei nostri esperti medici”, e, ci permetteremmo di aggiungere, seguito il flusso, che non ha lasciato loro scelta.

In conclusione

Detto tutto ciò, noi (e probabilmente anche voi, se state leggendo Huddle Magazine) siamo contentissimi che la BIG 10 ritorni, nonostante le mille limitazioni, la riduzione di gare e l’assenza di tifosi. Appurato questo, però, è innegabile che ad uscirci sconfitta da questa situazione sia la BIG 10 stessa, autrice di un comportamento che con l’etica kantiana centra pochino, e che è stato fin da subito viziato da considerazioni e pareri superficiali e miopi. Ha vinto il denaro, è vero, ha vinto il capitale, certo. Ma ha vinto anche il popolo, perché, in fondo, la salute è “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia” (definizione OMS), e questa gente ha assoluto bisogno del college football per potersi considerare in salute.

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