NCAA Championship: La settima meraviglia di Saban

Alabama vince 52-24 su Ohio State e si aggiudica il suo diciottesimo titolo nazionale, il settimo nei dodici anni di era Saban, il quale rompe così la parità a quota sei con il leggendario “Bear” Bryant e diviene l’allenatore di college football con il maggior numero di titoli in bacheca. E, anche, se vogliamo fargli i conti in tasca, il primo della storia a toccare quota 10 milioni di guadagno annuale (9,1 di contratto più 950’000 $ di premio per il titolo). Un Nick Saban che per una delle prime volte – sarà l’età, saranno le critiche dell’anno scorso, sarà la situazione mondiale – è parso visibilmente “umano”: lasciandosi andare ad ampi sorrisi, anche dinnanzi alle bordocampiste di ESPN con le quali è solitamente caustico, e ad un pianto liberatorio sotto i coriandoli crimson & white.

Ma veniamo alla gara – rissunta per la verità già ampiamente dal punteggio. La serata di Ohio State è riassunta in modo magistrale dalla prima corsa di Trey Sermon: i Buckeyes sono andati a sbattere contro un muro che li ha respinti causando loro molto, molto dolore.

Ohio State, che già si presentava alla gara con delle defezioni (tra cui il kicker titolare e il suo backup) ha avuto un approccio traumatico alla stessa: fuori Sermon per infortunio e three and out molto rapido, palla ai Tide e touchdown Najee Harris.

Il primo tempo scorre come la più classica delle sparatorie collegiali: si risponde colpo su colpo, con Mac Jones e Justin Fields che dimostrano tutto il loro valore. La differenza, però, all’occhio dell’osservatore neutro appare chiara: Ohio State dà l’impressione di poter essere fermata, o quanto meno arginata; Alabama no. È un fiume in piena che ha già abbontantemente svalicato gli argini ed è pronto ad allagare tutta la vallata. Chi ha dato una grossa mano a rendere i suddetti argini poco funzionali è indubbiamente l’Heisman Trophy winner Devonta Smith, inarrestabile per tutto il primo tempo, chiuso con 12 ricezioni per 215 yard e 3 TD (nel secondo tempo un infortunio al’indice della mano destra gli impedirà di migliorare il suo score, ma già così, anche prescindendo dal fatto che lo abbia raggiunto in 30 minuti e non in 60, è impressionante). Si è preso i complimenti anche di alcune persone discretamente importanti.

Greatness recognizes greatness, direbbero loro.

Inoltre, come ampiamente prevedibile, ha fatto invecchiare piuttosto male le dichiarazioni di Shaun Wade, il quale aveva detto ai giornalisti “sapete tutti chi tra i ricevitori di Alabama voglio marcare”. Tutti ma non Devonta, Shaun, ascolta noi.

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Devonta immarcabile, Najee inatterrabile e Mac praticamente impeccabile: il mostro a teste di Tuscaloosa (simpaticamente proposto in un’animazione di ESPN) ha così divorato l’agnello sacrificale di turno, poco importa si trattasse di Ohio State, Georgia, Tennessee o Wofford.

La sensazione, in ogni gara dei Tide, è che siano sempre stati in controllo: anche quando hanno subito (con Ole Miss e con Florida), o quando hanno segnato meno (con Notre Dame), hanno sempre dimostrato di controllare il ritmo, e di avere sempre almeno una, se non due, marce ancora da inserire, prontamente azionate quando ce n’è stato bisogno.

Nella gara di ieri c’è stato solo un momento in cui l’invulnerabilità di Bama è sembrata poter vacillare: il fumble di Mac Jones ad inizio secondo quarto, che ha portato al 14-14 e che sembrava poter cambiare l’inerzia del match in favore della squadra del Midwest. Ma così non è stato: dentro la quarta, drive di 2 minuti (e non di più): touchdown Najee Harris. Class.

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Dal punto di vista tattico è stata l’ennesima vittoria della RPO di Steve Srakisian, che ha mandato in frantumi le coperture dei Buckeyes, rese quasi sempre inefficienti dalle motion dei ricevitori di Bama. Iconico, in questo senso, il secondo TD dei Tide, con la finta di end around di Smith che manda completamente fuori giri Wade, il quale si affretta ad attraversare il box a tutta velocità – sapendo che l’unico modo di fermare Devonta è mettercela tutta – ritrovandosi poi privo di uomo, con Smith a passeggiare verso l’end zone nel lato originario.

In generale, la trail technique utilizzata spesso dai cornerback di OSU – non sappiamo, però, quando per volontà o per necessità – non è sembrata l’idea del secolo contro le frecce in maglia rossa: se concedi un vantaggio a Smith, Metchie, Waddle o chi per loro, esso non può che aumentare passo dopo passo. E così è andata.

Due parole sugli sconfitti: 52 sono il numero di punti più alto mai concesso da Ohio State in una gara di postseason, eppure son sembrati quesi inevitabili. Spesso la difesa dei Buckeyes è apparsa preparata, infatti i giochi dei Tide non perforavano fuori per fuori l’opposizione avversaria, ma la logoravano, guadagnando sempre quelle 2 o 3 yard dopo il contatto che, alla fine dei conti, risultavano sempre bastevoli per muovere la catena. Spiego meglio: ci sono state gare di Bama (esempio quella con Florida), nelle quali i Tide sarebbero riusciti a far muovere anche una catena di 30 yard in 3 giochi, ieri no. Ma quelle 10 yard erano semplicemente troppo poche da difendere in 3 snap per la pur encomiabile difesa biancorossa. E anche quelle volte (2, ed entrambe in redzone) nelle quali i 3 giochi non erano bastati ai Tide per guadagnare un primo down, si sono giocati il 4° in modo vincente due volte su due. A corroborare l’ipotesi, infatti, ci sono i minuti di possesso: 38 minuti a 22, con, a volte, drive anche molto lunghi per arrivare in endzone. Ma sempre, ineluttabilmente, l’unica cosa che fermava l’attacco di Bama era la fine del campo.

Fields è stato encomiabile: arrivava dal terrificante colpo da KO subito contro Clemson ed è apparso, comunque, in buono condizioni. Semplicemente sono stati più bravi gli altri, a partire dalla linea difensiva guidata da un tremendo Christian Barmore, autore di 1 sack e 2 TFL (di cui uno in un decisivo quarto down che ha messo la pietra tombale sopra alla partita).

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Finisce così, in modo “usuale”, una stagione del tutto inusuale. Finisce con la meritata vittoria della squadra più forte (“la più forte di tutti i tempi” ha sostenuto a fine gara Mac Jones, ma crediamo che Joe Burrow non sia d’accordo). Finisce con l’Hard Rock Stadium di Miami Gardens coperto di coriandoli cremisi.

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Ora è tempo di offseason, inizia la strada verso il Draft (anche su Huddle) e si vedrà chi deciderà di restare al college e chi di fare il grande il salto.

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È stato – soprattutto viste le premesse – un immenso piacere poter vivere questa stagione e potervela raccontare qui. Siamo sicuri che non la dimenticheremo mai.

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