Uno sguardo al 2019: Miami Dolphins

Vi proponiamo la review della stagione 2019 delle trentadue squadre NFL, aspettative, risultati, futuro. Oggi è il turno dei Miami Dolphins.

“Culture” (countable and uncountable, plural cultures): The beliefs, values, behaviour and material objects that constitute a people’s way of life. (tratto da Wiktionary).

COME DOVEVA ANDARE…

Sì, ricordate bene. La definizione di “cultura” è lo stesso modo con cui più o meno dodici mesi fa iniziava, qui sulle pagine di Huddle, la nostra preview sul 2019 dei Miami Dolphins. Una squadra che era stata fatta saltare per aria con la dinamite (TANTA dinamite) e che era stata ricostruita… con quello che si era trovato in giro.  Come l’abbiamo definita e sentita definire più volte durante la stagione, “una squadra di scappati di casa”. Una squadra costruita scientificamente per perdere apposta tutte le partite e arrivare indisturbati a scegliere Tua Tagovailoa con la prima scelta assoluta del draft 2020. Un piano perfetto. Diabolico, per certi versi, ma perfetto…

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…E COME E’ ANDATA

Peccato che di perfetto, in questo mondo, non ci sia nulla. E che i Miami Dolphins, dopo un tremendo inizio di stagione, in cui perfetti sconosciuti chiamati dai waiver venivano messi in campo dopo 24 ore senza neanche aver conosciuto tutti i compagni, figuriamoci il playbook, abbiano iniziato ad ingranare e a credere a quello che un ragazzone di 38 anni, cresciuto in uno degli angoli più complicati di Brooklyn e poi forgiatosi alla dura scuola di Bill Belichick, stava raccontando loro. A capire che la legge del T.N.T., Takes No Talent, il muro verso cui chiunque in squadra, senza riguardo per l’età, l’esperienza o lo stipendio, doveva correre senza scuse ad ogni errore banale commesso in allenamento. Perché, per fare certe cose, non serve il talento, basta lavorare duro e impegnarsi a fare il proprio compito. E una volta che il messaggio passa, che gli “scappati di casa” iniziano a crederci, ecco che tutto diventa reale. Un quarterback pieno di figli, di anni e di peli sul mento diventa il salvatore della patria. Un cornerback che nessuno ha scelto in sette giri di draft diventa titolare fisso. Un defensive back giovane e fortissimo, 11esima scelta assoluta solo un anno prima, viene spedito da un’altra parte perché non ci crede, in quel progetto, nella visione di Brian Flores e Chris Grier. Un coach e un GM di colore, l’unica coppia così di tutta la NFL. Due che solo per quello, negli Stati Uniti, qualche cosa da raccontare ce l’hanno.

E gli scappati di casa, improvvisamente, diventano una squadra. Giocano e vincono delle partite quando perfino i loro tifosi li guardano e dicono: ma siete scemi? e Tua? Tua è un’altra storia, qui nessuno ci pensa a Tua. Qui si lavora, ci si allena, si corre bestemmiando contro sé stessi verso quel diavolo di T.N.T. per vincere ogni maledetta domenica, contro tutti. Anche all’ultima, anche a Foxboro, anche a casa di quelli lì, anche rovinando la festa a Tom Brady e togliendogli il turno di riposo che probabilmente gli costerà la stagione. Perché a Miami non ci sono più degli scappati di casa, c’è una squadra. E Brian Flores, che poteva benissimo essere coach dell’anno per quello che ha fatto, ha costruito la sua cultura.

COSA HA FUNZIONATO…

Numero 1: Brian Flores. Come già detto, ha preso un gruppo di persone trovatesi insieme quasi per caso (ma NON scelte a caso) e le ha trasformate in una SQUADRA. Li ha condotti in modo esemplare, facendoli crescere pian piano, facendosi apprezzare da tutti sia come condottiero che come persona e guadagnandosi un rispetto unanime. Non un brutto modo di esordire, davvero.

Numero 2: Ryan Fitzpatrick. Nessuno riesce a capire cosa ci sia di particolare in quest’uomo, ed è probabilmente per questo che il termine FitzMagic è così azzeccato. I suoi limiti sono sempre lì, non è diventato improvvisamente un fuoriclasse. Ma probabilmente con il passare degli anni e delle squadre ha raggiunto una consapevolezza che gli consente di passare sopra a tutto e di trasmettere sicurezza e tranquillità ai suoi compagni, che quest’anno ne avevano assoluto bisogno. Con lui in campo i Dolphins hanno cambiato faccia, quasi sempre in meglio.

Numero 3: DeVante Parker e Mike Gesicki. I Dolphins avevano bisogno di prove, per essere certi che la cura funzionasse. Ed averle trovate in due dei giocatori che più in passato avevano lasciato perplessi staff e tifosi non può che essere una buona notizia. Parker ha dimostrato che può davvero essere il primo ricevitore in una squadra NFL e Gesicki, dopo un primo anno parecchio complicato, ha dato le certezze di cui Miami aveva bisogno, specialmente avendo una serie di altri buchi da riempire nel roster che vanno da qui a laggiù…

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…E COSA NON HA FUNZIONATO

Numero 1: la linea offensiva. Vabbè, a Miami è una tradizione. Triste, ma una tradizione. Quest’anno il reparto sembrava avesse le porte girevoli, tanta è stato il numero di cambi, inserimenti e partenze che si sono susseguiti durante la stagione. Solo un qb con l’istinto di Ryan Fitzpatrick poteva giocare dietro a quella fetta di Emmenthaler, e infatti uno come Josh Rosen non aveva speranze (pur mettendoci poi del suo). Come hanno detto in Cool Bueno (il podcast italiano sui Miami Dolphins 😉), asfaltare tutto e farci un parcheggio.

Numero 2: la pass rush. Taco Charlton, arrivato a stagione in corso, ci ha provato un po’, Charles Harris quasi neanche quello. Il livello di gioco della parte interna della linea difensiva è stato decente, ma la pressione che si suppone che debba essere esercitata sul quarterback avversario da parte dei giocatori esterni non si è mai vista. Non pervenuta. Zero.

Numero 3: il running game. Kenyon Drake aveva tenuto più o meno in piedi la baracca ad inizio stagione ma poi, una volta chiaro che non ne aveva più voglia e che si poteva ottenere qualcosa in cambio è partito anche lui ed è stato il turno di Kalen Ballage. Ed è finito tutto. 1,8 yards di media per portata, sipario. Da lì in poi, infortunatosi anche Myles Gaskin, la tanta buona volontà di Patrick Laird è bastata solo per avere la certezza che serviva il braccio di Fitzmagic.

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E ADESSO?

E adesso, il secondo anno. E sarà molto diverso.

Le aspettative saranno diverse: facile fare i bravi quando nessuno si aspetta nulla, è adesso che ti guardano in modo diverso che devi dimostrare qualcosa. Adesso che anche i media che ieri ti spernacchiavano arrivano a dire “This was NOT tanking!” (sentita con le mie orecchie su NFL Network) che le cose iniziano farsi interessanti.

Il panorama sarà diverso: non c’è più Tom Brady, non ci sono più i Patriots. Fa un certo effetto dirlo, e poi i Patriots non sono mica spariti, ma di sicuro la AFC East per la prima volta da 20 anni è diventata sulla carta una division aperta e contendibile. Molti dei nostri lettori non se lo ricordano neanche (o addirittura non c’erano) l’ultima volta che era stato così…

L’offseason è e sarà diversa: lo scorso anno è stato lacrime e sangue, quest’anno… no. Le lacrime e sangue imposte da Chris Grier gli hanno consegnato un capitale impressionante da far fruttare. Quasi 100 milioni di dollari liberi sul cap e 14 scelte al draft 2020 sono un tesoro inestimabile con cui i Dolphins stanno per presentarsi all’incasso. L’inizio della free agency è stato scoppiettante ma, rispetto ai tempi in cui Stephen Ross si divertiva a far piovere assegni in giro, gli investimenti sono stati molto più mirati, apprezzati quasi unanimemente e chiaramente orientati a trovare i giusti pezzi del puzzle. In attesa del draft e del momento in cui, pochi minuti dopo l’inizio del primo giro, i Miami Dolphins sceglieranno… il loro quarterback del futuro.

E i tifosi? Beh… 😊

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Mauro Rizzotto

Più vecchio di quello che sembra, continua a sentirsi più giovane di quello che è. Fra una partita della sua Juve e una dei suoi Miami Dolphins sceglie la seconda. Fra una partita dei Dolphins e la famiglia... sceglie sempre la seconda. Vabbè, quasi sempre. Sennò il tempo per scrivere su Huddle dove lo trova?

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