Il mesto epilogo della mesta vicenda Watson

Dopo un anno e mezzo così convulso e mesto da poter essere utilizzato come esempio per spiegare la teoria della relatività del tempo, la guerra fra National Football League e Deshaun Watson si è conclusa con un epilogo che, in un certo senso, non può lasciare soddisfatto assolutamente nessuno.
Dopo che la giudice Sue L. Robinson gli aveva bacchettato il polso con una squalifica di sei misere giornate, la NFL ha annunciato la propria intenzione di fare ricorso e lavorando a stretto contatto con l’associazione dei giocatori ha “abbellito” la pena raggiungendo l’accordo definitivo: 11 giornate di squalifica e una maxi-multa da cinque milioni di dollari, la più impegnativa mai assegnata a un giocatore – tranquilli, sono sicuro che in luce del contratto firmato a marzo riuscirà comunque a sbarcare il lunario.

Sono pienamente consapevole che una parte consistente dell’opinione pubblica NFL ritiene questa squalifica una farsa in quanto il grand jury ha deciso di non rinviarlo a giudizio e, quindi, è logicamente innocente: siate onesti con voi stessi, avevate dubbi che un giocatore del genere fosse messo sotto processo?
Se la storia ci ha insegnato qualcosa è proprio che la giustizia non sia uguale per tutti – soprattutto negli Stati Uniti – e che più è luminosa la stella di un atleta più è improbabile che tale atleta debba rispondere delle sue azioni tanto quanto siamo tenuti a farlo noi comuni mortali.

Sono più che convinto, purtroppo, che se al suo posto ci fosse stato un giocatore da practice squad – o un qualsiasi altro individuo che non può essere inserito nella discussione dei migliori quarterback del campionato – la lega avrebbe risolto in fretta e furia il problema esiliandolo senza nemmeno passare per vie legali.
Chi è disposto ad accollarsi un bagaglio di problemi etici così pesante per un cornerback “da profondità”?
Sarebbe seriamente disposta la National Football League a tenere in casa un possibile molestatore seriale se il suo valore assoluto fosse anonimamente nella media?
Sappiamo benissimo le risposte.

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Watson si è sempre professato innocente e ciò posso accettarlo, dobbiamo sempre partire dal presupposto che ogni persona sia innocente fino a prova contraria, ma permettetemi di essere disgustato da chi ha deciso di bollare l’intera vicenda come tentativo di un’orda inferocita di donne di fare soldi facili spennando il povero quarterback: a mio avviso, il cinismo è una virtù finché non prevarica i confini dell’empatia finendo per prenderne il posto.
Viviamo in un mondo che, fra i suoi tanti problemi, ne ha uno piuttosto serio con le donne, esseri umani esattamente come noi condannati però a condurre la propria vita in un pianeta che spesso non ha particolare considerazione di loro. Non voglio dirvi che una sospensione a tempo indeterminato di Deshaun Watson ci avrebbe magicamente fatto raggiungere la parità di genere, voglio solo provare a farvi presente che esultare sguaiatamente per la sua “vittoria” elevandola a monumento contro “la dittatura del politicamente corretto” è incredibilmente mesto, oltre che miope.

Watson si è sempre professato innocente, dunque.
Si è sempre professato innocente e, in quanto tale, durante la conferenza stampa di presentazione a Cleveland ha ribadito con fermezza che non si sarebbe scusato per qualcosa che non ha fatto… fino alla settimana scorsa quando durante un’intervista con Aditi Kinkhabwala di CBS si è scusato con tutte le donne coinvolte nella situazione.
Appena è stato annunciato l’accordo definitivo, Watson si è scusato ancora precisando, però, che in nessun modo tutto ciò può essere scambiato con un’ammissione di colpa e che le scuse rilasciate a CBS fossero rivolte a tutte le donne del mondo potenzialmente traumatizzate dalla sue possibili malefatte: giusto ora ricordo che fra le abilità che lo hanno reso uno dei migliori quarterback della lega spicca l’abilità di eludere la pressione del pass rush avversario.
Posso capire il suo ragionamento, se il Deflategate ci ha insegnato qualcosa è che mettersi contro la NFL – specialmente quando questa si impunta – sia una vera e propria scelta suicida in quanto l’iter legale potrebbe trascinarsi per anni finendo per inficiare non solo il rendimento in campo ma pure la propria esistenza al di fuori d’esso.

Watson si è sempre professato innocente, ma si è scusato per “qualcosa che non ha fatto”: bizzarro.
Permettetemi di faticare a comprendere alcune scelte lessicali sue e dei Cleveland Browns: perché l’owner Haslam ha ripetutamente parlato di «second chance»? Seconda opportunità in cosa, se non ha fatto niente come ha sempre sostenuto?
Perché, se non è vero che Watson ha molestato sessualmente tutte quelle massaggiatrici, Cleveland si è presa l’impegno di approvare scrupolosamente i fisioterapisti che da oggi in avanti seguiranno l’ex quarterback dei Texans?
Tutti questi comportamenti e scelte lessicali sembrano volerci suggerire che, contrariamente a quanto ripetuto dal giocatore, qualcosa sia effettivamente successo, ma niente, l’individuo a cui è stata concessa l’opportunità di redimersi non necessita di alcun genere di redenzione in quanto totalmente innocente: percepite anche voi una mancanza di coerenza di fondo?

È difficile scagliarsi contro Watson senza fare altrettanto nei confronti della lega perché, a mio avviso, l’intera vicenda è permeata da una coltre di mestizia che fa passare la voglia di dedicare tempo ed energie mentali a questa lega.
La vicenda, come già detto più o meno quattordicimila volte, è incredibilmente triste e si colloca in un filone narrativo piuttosto chiaro, ossia che alla National Football League non interessa assolutamente niente di donne, il debito morale nei loro confronti sarà estinto a ottobre con un paio di guantini rosa durante il mese della prevenzione del tumore al seno.
Mi raccomando care lettrici, entrate anche voi nel magico mondo NFL, la lega vi aspetta a braccia aperte, a patto che non facciate troppe domande e che, di tanto in tanto, chiudiate un occhio quando accuse del genere vengono gestite con l’approssimazione tipica di un’assemblea di classe alle superiori.

L’epilogo, in un certo senso, è perfetto così: la NFL se ne esce con il petto gonfio d’orgoglio per essere riuscita a imporre la propria disciplina al giocatore, Watson dopo 11 partite ai box avrà l’opportunità di giocare in una squadra nuova sotto un contratto disgustosamente ricco e totalmente garantito e i Cleveland Browns, dopo una miriade di tentativi andati male, possono finalmente fregiarsi di un vero franchise quarterback.
L’innocente Watson, quello che non si sarebbe mai scusato per nefandezze non commesse finché non è apparentemente stato costretto a farlo, potrà aiutarci collettivamente a dimenticare le gravi accuse di cui è stato “ingiustamente ricoperto” a suon di touchdown in una squadra che brama da decenni un individuo con le sue caratteristiche tecniche.

Sarà curioso constatare quale sia il numero di touchdown necessario per farci uscire definitivamente dalla testa che lega e presidente della squadra a più riprese abbiano velatamente ammesso il comportamento predatorio e seriale di un povero innocente, così innocente che a pochissimi minuti di distanza da un comunicato stampa nel quale annunciava la definitiva assunzione di responsabilità ha inaugurato la propria conferenza stampa professandosi nuovamente innocente: come vedete, la storia fa acqua da tutte le parti.
Non credo sia un caso che il motivo principale per cui la giudice Robinson optò per le sei giornate di squalifica fu la sua avvilente mancanza di rimorsi.

Non sono ingenuo, sono sicuro che dietro ogni dichiarazione di Watson ci sia la volontà di lasciarsi alle spalle la mesta vicenda quanto prima possibile ma, per uno giustamente ossessionato dalla propria innocenza, tutte queste scelte lessicali mettono in evidenza una mancanza di coerenza probabilmente forzata da fattori esogeni: eppure aveva dichiarato che avrebbe fatto il possibile per dissociare il suo nome da accuse del genere.
Ha detto che non si sarebbe mai scusato per nefandezze da lui non commesse eppure si è scusato, si è professato ad nauseam estraneo ai fatti eppure si è scusato, non ha mai dimostrato la benché minima parvenza di rimorso eppure si è scusato, insomma, questo ragazzo è apparentemente l’MVP nelle scuse gratuite.

In un certo senso tutto ciò è dannatamente coerente, i Cleveland Browns – e mezza NFC South – hanno venduto l’anima al diavolo per mettere le mani su un giocatore fenomenale di cui avevano disperatamente bisogno ricoprendolo d’oro e Watson, per non essere da meno, ha venduto la propria integrità a tutti noi scusandosi a ripetizione per qualcosa per cui, se innocente come ripetutamente affermato, nessuna persona estranea ai fatti dovrebbe scusarsi .

La parola chiave, in questa vicenda, è tristezza.
Le numerose accuse, indipendentemente dalla colpevolezza del giocatore, sono di una tristezza allucinante perché trascinano la NFL nel mondo reale, un mondo nel quale la misoginia è un pilastro della nostra società e, come vi ho già detto a ripetizione, per me questa lega è prima di tutto un mezzo d’evasione da una realtà insoddisfacente: da oggi, viste le circostanze, lo sarà un po’ meno visto che è fatta della stessa sostanza di questo mondo.
L’asta indetta per aggiudicarsi le sue prestazioni, così come se non fosse successo niente nell’ultimo anno e mezzo, è stata di una tristezza vomitevole perché ci ha messo davanti all’inconfutabile evidenza che le uniche cose che contano qua siano rendimento e talento, il resto è racchiuso in un fastidioso asterisco ignorabile o meno a seconda della nostra sensibilità.
L’intera battaglia legale è stata ovviamente triste: non mi sembra il caso di dilungarmi in ridondanti spiegazioni.

Viviamo in un mondo in cui la percezione è realtà e sebbene il caso Ridley non sia assolutamente comparabile a quello di Watson per una pletora di ragioni, l’osservatore esterno disinteressato potrà convenire che nella scala dei valori della National Football League è indiscutibilmente più riprovevole scommettere su una partita della propria squadra – mentre si è assenti per questioni personali – che, potenzialmente, molestare sessualmente più di venti donne.
Si è conclusa così, quindi, nel modo più mesto possibile una vicenda che come sempre ha tirato fuori il peggio da tutti noi – lega, squadre, Watson e appassionati vari -, con l’abbellimento della squalifica a un soggetto così unico nel suo genere che ha ripetutamente smentito le proprie scuse ribadendosi sempre e comunque innocente.

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Mattia Righetti

Mattia, 27 anni. Voglio scrivere per vivere ma non so vivere. Quando mi cresce la barba credo di essere Julian Edelman. Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango malissimo.

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2 Commenti

  1. Onestamente abbiamo più e più volte visto donne che dapprima consenzienti a distanza di tempo hanno tentato il colpo gobbo nei confronti di atleti famosi. Quindi il confine appare quanto mai fumoso e labile.

  2. Devo ammettere che anche io se avessero accusato un macellaio(con tutto il rispetto) le avrei credute di più…ma che il dietro le quinte della NFL facesse schifo l avevo già capito dopo l’emarginazione di kaepernick

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