Quando Peyton Manning dimenticò il proprio nome

Stiamo attraversando quel periodo dell’anno in cui la carestia di NFL comincia ad avere serie ripercussioni sulla nostra salute mentale e, tremendamente a corto di argomenti, ci arrovelliamo il cervello nel vano tentativo di colmare lo straziante vuoto oramai trasformatosi in voragine: stiamo attraversando quel periodo dell’anno in cui, per un motivo o per l’altro, le conversazioni sul “G.O.A.T.” riempiono con imperitura convinzione i palinsesti televisivi ed infiammano le nostre discussioni con perfetti sconosciuti sui social network.
Se si vuole parlare dei migliori giocatori di sempre non si può evitare l’argomento – ed il personaggio nonché giocatore – Peyton Manning: sì, Tom Brady ha vinto di più, molto di più, Tom Brady a quasi 44 anni è stato consistentemente capace di connettere in profondità con Mike Evans mentre il povero Peyton, a nemmeno 40, non era più in grado di spingere lo sferoide più in là di dieci yard, lo so cari lettori, ma Peyton Manning è Peyton Manning.

Molto probabilmente nessuno, a questo punto, si riferirà a lui come il “vero” G.O.A.T. ma ciò non toglie che il mezzano di Archie è stato uno dei giocatori più iconici, importanti e brillanti ad aver mai calcato il gridiron.
Sebbene neanche lontanamente fisicamente talentuoso come i vari Patrick Mahomes od Aaron Rodgers, Peyton Manning ha trovato modo di eccellere spremendo ai limiti dello schiavisimo ogni suo singolo neurone: nessun giocatore nella storia del gioco, domenica dopo domenica, scendeva in campo con un livello di preparazione e conoscenza della squadra avversaria simile a quello di Peyton Manning.
Durante il suo commovente discorso di commiato alla NFL, lo stesso Manning l’ha ribadito affermando, con la voce rotta dall’emozione, «There were other players who were more talented but there was no one could out-prepare me and because of that I have no regrets»: nessuno poteva vantarsi di presentarsi ad una partita più pronto di lui e sento di potergli dare ragione con consapevole tranquillità.

https://twitter.com/NFL/status/1110013921635631104

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Eccellere nella posizione più complicata nel mondo sportivo, per Peyton Manning, è stato piuttosto semplice, in quanto gli sono bastate innumerevoli ore trascorse al buio, in solitaria, nella sua batcaverna con il derrière saldamente incollato alla propria poltrona di fiducia: altroché gli allenamenti con i coltelli di Aaron Donald, altroché i bilancieri sformati dall’eccessivo peso alle estremità sollevati convulsamente da James Harrison, a Manning per dominare ed entrare nella storia è bastato studiare come un ossesso la squadra altrui, la propria e soprattutto sé stesso.
La maniacale ricerca della perfezione che l’ha spinto a sacrificare la propria vita alla caccia di qualsiasi cosa potesse dare il minimo vantaggio competitivo ai suoi Colts – o Broncos – non era però circoscritta al football americano, poiché Manning era un perfezionista pure in ogni singolo altro aspetto della vita reale: la perfezione, per lui, non era il fine, ma il mezzo con il quale ha affrontato e sta affrontando ogni singola giornata della sua vita.

Manning era un professionista ben prima di approdare in NFL grazie ad una diplomazia, una posatezza, un’eleganza ed una classe che non sono sicuro possano essere insegnate: un aspetto a cui teneva particolarmente era quello di non fornire motivazioni extra ai propri avversari con dichiarazioni esplosive nei giorni d’avvicinamento alle partite, poiché ciò ai suoi occhi era un errore comparabile ad un intercetto, incendiare senza particolari ragioni l’animo dei giocatori avversari per lui era estremamente stupido e regalava loro un vantaggio che sarebbe andato a vanificare ore di studio nel proprio cinema personale.
Questo mindset lo si può anche estendere alla sua vita normale, in quanto Manning davanti ad una telecamera ha sempre trovato le parole giuste dando costante prova di una classe e posatezza che non dovrebbero riguardare noi esseri umani, soprattutto quelli che per sbarcare il lunario si prodigano in questa disciplina: riassumendo, potremmo definire lo sceriffo con il numero 18 una buona – e bella – persona nata per condurre altre persone al successo.

In un’occasione, però, per la sorpresa generale di milioni di appassionati, Peyton Manning accantonò la propria accecante perfezione abbandonandosi ad una rara ed giustificata dichiarazione che non fosse per le inconfutabili prove video nessuno crederebbe possa essere uscita dalla sua candida – ma nei contesti giusti tagliente – bocca.
Prima, però, devo fornirvi del necessario background: andrei dritto al sodo ma per ovvie esigenze narrative sono costretto ad allungare un po’ il brodo.
Facciamo così, vi dirò solo una cosa: le imprecazioni che hanno stupito il mondo erano rivolte al proprio kicker.
Sì, al kicker.

Entrato in NFL nel 1998 con un hype spropositato, dopo una difficile prima annata nella quale ha stabilito il record – che molto difficilmente gli sarà tolto – per intercetti lanciati da un rookie, Manning trovò il proprio riscatto pressoché immediatamente, nel 1999 quando i Colts ed il proprio quarterback si resero protagonisti di una delle più brillanti metamorfosi di cui anche voi lettori più adulti abbiate memoria, ribaltando il 3-13 dell’anno precedente in un roboante 13-3 reso possibile da un Peyton Manning in costante crescita: per la prima volta dal 1987 i Colts vinsero la propria division.
Ai playoff, però, la magia evaporò piuttosto velocemente ed i Tennessee Titans, al termine di una partita combattuta ed incerta, portarono a casa la vittoria col risicato scarto di tre punti, 19 a 16.
L’immaginaria freccia, però, puntava verso l’alto, Indianapolis era una squadra giovane e brillante ed il futuro non poteva che essere roseo.

Il 1998 non rappresentò il primo anno fra i professionisti solamente per Peyton Manning, in quanto uno sconosciuto kicker che rispondeva al nome di Mike Vanderjagt, dopo un lungo tirocinio in CFL protrattosi per diversi anni, soffiò il posto all’ex-Pro Bowler Cary Blanchard diventando, un po’ a sorpresa, il nuovo kicker della squadra con il ferro di cavallo come stemma: il suo 1998 fu brillante e di lì in avanti immaginarsi qualcun altro calciare con violenza un pallone nel tentativo di farlo passare attraverso due pali per gli Indianapolis Colts non era facile.
Come già visto, Indianapolis aveva tutto il necessario per entrare nell’Olimpo della NFL erigendosi a papabile super-potenza dell’imminente ventunesimo secolo.

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Eravamo arrivati al 1999, quindi.
Nel 2000 Indianapolis confermò quanto di buono fatto vedere l’anno precedente, Peyton Manning concluse la stagione con numeri estremamente brillanti – quasi 4500 yard lanciate, 33 touchdown a fronte di 15 intercetti – guadagnandosi la seconda convocazione al Pro Bowl e ribadendoci che giudicare un quarterback dopo un solo anno è pura ed irrispettosa  follia – parlo con voi haters del povero Tua Tagovailoa.
L’epilogo fu però tetramente simile a quello della stagione precedente, questa volta la sconfitta arrivò per mano dei Miami Dolphins ai tempi supplementari dopo che Mike Vanderjagt spinse il piazzato della possibile vittoria a destra: imputare la sconfitta al solo Vanderjagt sarebbe però ingiusto, dopotutto il proprio quarterback completò poco più della metà dei passaggi tentati raccogliendo meno di 200 yard.
Difficile pensare di vincere così.

La sconfitta ebbe ripercussioni sulla stagione successiva: Indianapolis, apparentemente persa, concluse con un anonimo 6-10 l’annata ricordata quasi esclusivamente per l’esplosione di Jim Mora nel postpartita di una sconfitta contro i San Francisco 49ers.

«Playoffs? Don’t talk about—playoffs?! You kidding me? Playoffs?! I just hope we can win a game! Another game!»

Manning regredì, il numero di intercetti si avvicinò pericolosamente a quello dei touchdown lanciati – 26 a 23 – e Indianapolis, dopo un paio di stagioni promettenti sembrava essere tornata al punto di partenza.

Togliamo dall’equazione Jim Mora, rimpiazzato da Tony Dungy, uomo incredibilmente equilibrato, razionale e calmo che difficilmente si farà comandare dalle proprie emozioni: dal punto di vista umano questo era il miglior fit possibile per Peyton Manning, ragazzo – come già detto – posato e perennemente razionale.
Dopo quattro stagioni costellate di alti e bassi, i Colts erano davanti a un bivio poiché non solo dovevano trovare un modo per tornare ai playoff ma, soprattutto, una volta dentro era necessario conquistare quella prima, maledetta vittoria che avrebbe tolto molta pressione dalle non più tanto larghe spalle di Manning.
A quei tempi, per ovvi motivi, non seguivo la NFL ma vi confesso che baratterei qualche anno della mia permanenza su questa sfera per riviverli e verificare in prima persona se Manning fosse protagonista dello stesso, odioso, processo al quale settimanalmente una parte consistente della comunità NFL sottopone il povero Lamar Jackson che, ad onor del vero, nei primi tre anni di carriera ha avuto decisamente più successo di uno dei più grandi di sempre.
Scusate la divagazione.

La cura Dungy sortì gli effetti sperati in tempo record ed i Colts, dopo lo straziante 2001, tornarono a giocare del sano football americano a gennaio: questa volta, però, non uscirono sconfitti da una battaglia all’ultimo sangue decisa in extremis, ma vennero letteralmente triturati dai New York Jets che li liquidarono con un perentorio 41 a 0.
Il record ai playoff di Peyton Manning nei cinque anni trascorsi in NFL era impietoso: tre sconfitte su tre partite giocate, un solo touchdown lanciato a fronte di due intercetti, 186 yard a partita ed una percentuale di completi nettamente inferiore al 50 percento.
Ai playoff Manning era puntualmente protagonista di una trasformazione che lo rendeva la brutta copia del quarterback che in regular season continuava a dare segnali di crescita affermandosi, anno dopo anno, come una delle più luminose stelle nel firmamento NFL: i playoff rappresentavano la personalissima mezzanotte di Peyton Manning ed una volta scoccata puff, come per magia si trasformava in uno dei peggiori quarterback della lega, un individuo che non aveva alcuna ragione di trovarsi coinvolto in partite del genere.
Vanderjagt, nel frattempo, continuava a fare il proprio lavoro con apprezzabile costanza, ed il front office, consapevole del valore di un kicker in grado di convertire l’85% dei piazzati tentati nel lustro precedente, ne ricompensò la brillantezza con un quinquennale che lo rese il kicker più pagato della NFL: insomma, almeno lui avrebbe vissuto una offseason piuttosto tranquilla, no?

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Durante un’intervista rilasciata ad un’emittente televisiva canadese, il neo-rinnovato e meritatamente milionario kicker rispose alle domande postegli con eccessivo zelo, e di punto in bianco cominciò a scagliare dardi infuocati in direzione del proprio quarterback raccontando come, durante la settimana prima della nettissima sconfitta contro i Jets, tutti i suoi tentativi di caricare il compagno di squadra furono accolti con robotici «sì sì ok» che frustrarono il kicker fino a spingerlo a mettere in dubbio l’entusiasmo e la leadership di Manning in diretta televisiva: per Vanderjagt un quarterback, oltre che a lanciare touchdown ed evitare turnover, non doveva aver problemi ad urlare in faccia a qualsiasi compagno di squadra lasciandosi trascinare dalle proprie emozioni nella speranza di contagiare il resto dello spogliatoio.
Sciaguratamente, Vanderjagt non si fermò lì e decise di lanciare sotto il proverbiale tram pure il proprio nuovo allenatore, Tony Dungy, colpevole di essere troppo simile a Peyton Manning, troppo misurato e tranquillo: a suo avviso, il mix Dungy-Manning non avrebbe condotto i Colts lontano.
La chiosa, se possibile, fu ancora peggiore.

«I’m not a real big Colts fan right now, unfortunately, I just don’t see us getting better»

Intendiamoci, un’affermazione del genere sarebbe risultata terribilmente inappropriata anche se proferita dallo stesso Manning, figuriamoci da un kicker: sapete che sono per le pari opportunità e per questo motivo loro appassionato sostenitore, ma un kicker certe dichiarazioni in televisione non dovrebbe farle.
Le scuse, a quel punto una formalità, arrivarono pressoché immediatamente, ma oramai il dado era tratto.

Tutto ciò ebbe luogo durante la settimana del Pro Bowl e Peyton Manning, per la terza volta in carriera, era alle Hawaii a godersi una meritata settimana di vacanza e adorazione in mezzo a quanto di meglio – teoricamente – la NFL avesse da offrire: Manning, da buon diplomatico qual è, si rifiutò di commentare le dichiarazioni del proprio kicker dicendo che avrebbe affrontato la situazione una volta tornato ad Indianapolis.
Che noia Peyton, sempre così posato, sempre così perfetto…

Il 2 febbraio 2003, il giorno del mio settimo compleanno, durante il Pro Bowl, Peyton Manning per una trentina di secondi si dimenticò di essere Peyton Manning dimostrandosi finalmente umano e, soprattutto, emotivo come tutti noi: cortocircuito? Qualche cavo si è scollegato nel momento peggiore?
Intervistato a bordocampo, dopo aver parlato del suo rapporto con Marvin Harrison, ricevitore che aveva appena concluso la regular season con 143 ricezioni, comodamente record all-time per catch in una stagione, fu nuovamente pungolato sull’argomento Vanderjagt: sapete i giornalisti come sono, no?
La sua risposta – dal minuto 1:01 del video qui sotto – entrò direttamente nella leggenda.

Wow.
Peyton Manning, la definizione di classe e razionalità, che definisce “idiota” il proprio kicker in quattro occasioni separate? Peyton Manning, un cyborg programmato per dire e fare la cosa giusta in qualsivoglia contesto, che allude al fatto che probabilmente tali dichiarazioni sono state fatte in quanto ubriaco?
Come nel caso di Vanderjagt, le scuse furono immediate e tutte le parti coinvolte fecero il possibile per insabbiare il botta e risposta, o meglio, contenerne la dimensioni e non trasformarlo nella storia che avrebbe governato una stagione ancora ben lontana dal vedere la luce.
Le roboanti parole di Manning lasciarono di stucco tutto il mondo NFL, meravigliato dall’apparente mancanza di professionalità di un quarterback che già alla più tenera delle età aveva imparato a stare davanti ad una telecamera.

Ovviamente la vicenda non finì lì, poco dopo l’inizio della stagione 2003 Vanderjagt, in un’intervista rilasciata ad ESPN The Mag, confessò senza troppa vergogna di essere stato ferito dai commenti di Manning, che la sua famiglia pensò addirittura di querelarlo per diffamazione – ah, tutto il mondo è paese – e che, soprattutto, lui non era “semplicemente un kicker”, ma un leader rispettato all’interno dello spogliatoio attorno al quale gli altri giocatori gravitavano “malgrado” il ruolo.
Sorprendentemente, il 2003 fu un anno di svolta per Manning e lo stesso Vanderjagt, in quanto il quarterback non solo si aggiudicò il primo MVP, ma raccolse anche le prime due vittorie ai playoff della propria carriera, demolendo i Broncos – cinque touchdown e partita conclusa con il passer rating perfetto di 158.3 – ed i Chiefs, mentre Vanderjagt, se possibile, impressionò ancor più del compagno-rivale non fallendo un singolo piazzato durante la stagione: terminò il 2003 un surreale 40 su 40 per quanto riguarda i field goal ed un necessario 58 su 58 sugli extra point.
Nessuno prima di lui era stato in grado di mandare a bersaglio ogni singolo piazzato tentato durante regular season e playoff.

La sua carriera con i Colts si concluse con la beffarda sconfitta al Championship Game del 2005 arrivata per mano degli Steelers, un 21 a 18 reso possibile da un errore in extremis da 46 yard che costò loro la possibilità di riacciuffare il pareggio: qualche giorno dopo, davanti a milioni di americani, ospite di David Letterman – sfegatato tifoso Colts -, il kicker/rockstar convertì con facilità lo stesso identico calcio che concluse la loro cavalcata al Super Bowl.
Per Indianapolis quella fu la goccia che fece traboccare il vaso e la seguente offseason decisero di non offrirgli un contratto, soffiando ai New England Patriots Adam Vinatieri, uno dei più kicker più clutch ed affidabili della storia: ironicamente, a meno di un anno di distanza, Indianapolis si aggiudicò il Lombardi passeggiando sui poveri Chicago Bears guidati da Rex Grossman.
Non mi sento di dovervi raccontare l’evoluzione della carriera di Manning.

La clamorosa intervista di Manning non macchia in alcun modo la carriera di uno dei più grandi di sempre, ma a mio avviso ha rappresentato un momento cruciale nel suo sviluppo come giocatore, come leader e come uomo, poiché per una volta, per manciata di secondi, Manning si è trasformato in essere umano lanciandosi in un’umanissima – e condivisibili – invettiva che ci ha permesso di empatizzare – relativamente – con lui: è accettabile avere emozioni, è totalmente umano esprimerle indipendentemente dal proprio status o professione, non c’è nulla di male a far sapere al mondo intero che si ritiene il proprio kicker un idiota che, forse, prima di andare in diretta si è scolato qualche bicchierino di troppo.
Per un momento, nel contesto più improbabile possibile, Peyton Manning è stato un essere umano come lo siamo tutti noi e, avessi avuto l’età per apprezzarlo, lo avrei eletto immediatamente a mio nuovo idolo nonché fonte di ispirazione.

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Mattia Righetti

Mattia, 27 anni. Voglio scrivere per vivere ma non so vivere. Quando mi cresce la barba credo di essere Julian Edelman. Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango malissimo.

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