La (dis)Organizzazione dei Cincinnati Bengals

I Bengals sono una franchigia a gestione familiare che hanno avuto un buon passato nell’epoca di Paul Brown, con due finali Super Bowl perse contro i San Francisco 49ers di Joe Montana, seguite da una “decade perduta” negli anni ’90 all’inizio della gestione di Mike Brown, figlio di Paul, per poi avere una risalita con l’avvento di Marvin Lewis come capo allenatore dal 2003, che, nonostante non sia mai riuscito a vincere nemmeno una partita di play off, ha avuto il grande merito di aver iniziato un percorso di gestione professionale della società e della squadra, per arrivare ai giorni nostri in cui, pur con tutti i limiti del caso, la figlia di Mike Brown, Kate Blackburn, sembra aver fatto un ulteriore passo in avanti nella mentalità per competere con le migliori squadre della NFL.

L’evoluzione del Front Office dei Bengals sotto Mike Brown è un percorso ad ostacoli che ha visto soprattutto i tifosi Bengals pagare il prezzo più alto in termini di sofferenza e umiliazioni ricevute, ma come amo ricordare: per chi sa aspettare e non si dà mai per vinto, le cose belle prima o poi arrivano.

Fatta questa dovuta premessa vi starete chiedendo come si fa ad iniziare un pezzo partendo dalle conclusioni, beh questo è il modo migliore per farvi entrare nella mentalità dei Bengals, dove la logica non esiste e tutto funziona al contrario di come vi aspettereste.

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Immaginatevi di essere come Alice catapultata nel Paese delle Meraviglie, solo che qui ad accompagnarvi anziché il Bianconiglio c’è una bella Tigre del Bengala che si chiama Who Dey, la mascotte dei Bengals.

Quindi “Presto che è tardi”… iniziamo!

Le origini

Tutto inizia con Paul Brown, che è stato il fondatore e allenatore dei Cleveland Browns, che a lui devono il loro nome e i loro più importanti successi, e che fu licenziato nel 1963 dall’allora proprietario Art Modell.

Questa bruciante ferita ha influenzato psicologicamente tutta la storia dei Cincinnati Bengals, franchigia fondata dallo stesso Brown nel 1967 e di cui possedeva solo il 10% delle azioni, ma di cui aveva ottenuto il totale controllo delle operazioni legate al football.

Il terrore di poter essere licenziato di nuovo lo ha spinto nel 1983 ad una rischiosa mossa finanziaria che lo portò a vendere 117 delle 118 azioni da lui possedute con possibilità di ricomprarle ad un prezzo prestabilito 10 anni dopo, ma garantendo ai soci utili eccezionali per tutto quel periodo (66 milioni di dollari dal 1984 al 1993). L’azzardo riuscì, anche se lui morì nel 1991, e suo figlio Mike le poté ricomprare pagandole un quarto del valore reale, iniziando una scalata azionaria che portò la famiglia Brown nel 2011 al controllo pressoché  totale di tutte le quote azionarie.

Mike realizzò quindi il sogno del padre, ma soprattutto sovvertì l’ordine per cui non era un multimilionario uomo di affari a diventare proprietario di una società, ma il proprietario di una società a diventare un multimilionario.

Paul Brown

Prima di procedere con l’analisi della struttura societaria degli ultimi trent’anni dei Cincinnati Bengals, non si può non fare un piccolo excursus sul suo fondatore: il mitico Paul Brown.

Conosci la storia per capire il presente, questo è sicuramente uno dei principi fondamentali alla base delle nostre vite. Non voglio raccontare la vita di Paul Brown perché ci vorrebbe un libro intero per rendere giustizia ad una delle figure fondamentali della storia del football, ma voglio solo ricordare alcuni aneddoti che ne possano tratteggiare il carattere.

Brown era sicuramente un duro, una persona molto competente e determinata, che riusciva a vedere lontano. Fu il precursore della pay per view quando, nel 1948, mentre tutte le squadre lasciavano trasmettere gratuitamente le partite per farsi un po’ di pubblicità, lui ad una TV locale che chiedeva di poter fare lo stesso rispose che avrebbero dovuto pagare per farlo, perché voleva che fosse chiaro il concetto che le loro partite “meritavano qualcosa in cambio per essere viste”.

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Introdusse lo studio dei filmati, le sostituzioni durante i drives invece che dopo le serie, gli huddles, il facemask moderno per proteggere i giocatori dalla frattura dei setti nasali, gli assistant coaches a tempo pieno, tra cui Bill Walsh, il 40 yard dash, i test di intelligenza e sul playbook per i giocatori, una primordiale versione della West Coast Offense per valorizzare le qualità dell’allora QB Vigil Carter.

Paul Brown Bengals

Dava grande importanza alla disciplina infatti rimandò a casa, prima di salire sull’aereo per andare in trasferta, un giocatore che aveva l’alito che puzzava di alcol; allenava i giocatori su come stare in piedi durante l’inno nazionale, per cui immaginatevi come avrebbe visto il gesto di Colin Kaepernick di inginocchiarsi, ma bisogna tener conto che fu anche uno dei primi allenatori a fare giocare gli afroamericani perché lui distingueva solo tra chi sapeva giocare e chi no.

Ma l’episodio che mi resterà sempre impresso fu che licenziò un punter durante l’intervallo di una trasferta, chiedendogli di lasciare la maglia nello spogliatoio e tornarsene a casa da solo; insomma un personaggio che potremmo definire con un eufemismo “di carattere”.

La struttura societaria

Tornando alla disamina dei tempi moderni della franchigia, essendo i Cincinnati Bengals la fonte di reddito familiare, Mike si nominò presidente con funzioni di General Manager in modo da potersi assegnare uno stipendio annuale, analogamente fece con suo fratello Pete (vicepresidente con delega al personale), con la figlia Kate (vicepresidente esecutivo) e  con il genero Troy (vicepresidente sviluppo business) elargendo per i loro stupendi circa 4 milioni di dollari complessivi nel 1999. Unica eccezione extrafamiliare : Duke Tobin, direttore del personale, la cosa che più si avvicinava ad un General Manager de facto.

Questo è stato il principale motivo per cui i Bengals non hanno mai avuto un vero General Manager, la società doveva restare un affare di famiglia; naturalmente ha avuto un ruolo fondamentale in Mike Brown la presunzione di capirne di football, ma queste sono qualità  che non si ereditano, infatti il padre Paul, pur lasciandolo gironzolare nella società, non gli diede mai un vero incarico di responsabilità.

Mike ha preso il controllo della società nel 1991, alla morte del padre, le cui ultime volontà furono quelle di non interrompere gli allenamenti per far venire la squadra al suo funerale, e lì iniziò quella che i tifosi Bengals definiscono la decade perduta (47 vittorie in 10 anni e neanche una stagione con record vincente).

Mike Brown
Mike Brown assiste agli allenamenti del Training Camp sul suo Cart su cui faceva sedere per chiacchierare solo i giocatori a cui era più legato

Mike Brown non aveva certo ereditato la competenza dal padre e non era nemmeno riuscito a sfruttare le sue esperienze a seguito della squadra per gestire la franchigia; a dimostrazione della sua incapacità tecnica basta citare le scelte fatte in prima persona di Head coaches disastrosi, dopo aver licenziato Sam Wyche che li aveva portati a un soffio dal vincere il Super Bowl nel 1989, come Dave Shula, Bruce Coslet e Dick LeBeau. Menzioniamo inoltre, per onor di cronaca, anche tra i giocatori, alcuni clamorosi bust scelti in quegli anni come David Kingler (6° assoluta), Dan Wilkinson (1°) e Akili Smith (1°) per cui i Saints arrivarono ad offrire 9 scelte, rifiutate dai Bengals, e che divenne uno dei più grandi bidoni della storia NFL.

Lo stadio

Nel bel mezzo della decade perduta, adducendo che l’aumento dei salari e delle tasse lo stavano dissanguando, ma non volendo in alcun modo cedere parte della società, Mike Brown iniziò a ventilare l’ipotesi di spostare la franchigia in un’altra città: Los Angeles che all’epoca non aveva una squadra NFL, ma più realisticamente Baltimora, città in cui effettivamente si spostarono i Cleveland Browns nel 1996.

Paul Brown Stadium Cincinnati Bengals

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I tifosi Bengals erano così esasperati dalla pessima gestione della squadra rispetto al padre che lo contestarono duramente, ma Mike andò avanti per la sua strada e riuscì a convincere la Contea di Hamilton di farsi carico di buona parte dei costi di costruzione e manutenzione del nuovo stadio, con un accordo fino al 2026 che vedrà far pagare ai contribuenti con le tasse 1,1 miliardi di dollari per far continuare a giocare i Bengals a Cincinnati.

La tirchiaggine di Mike Brown

La trattativa per lo stadio dimostra la grande capacità di Mike Brown di risparmiare su ogni cosa, un novello Paperon de’ Paperoni (Scrooge McDuck) insomma che ha sempre dichiarato che non avrebbe mai speso un centesimo più del necessario, ma neanche uno di meno, anche se io sulla seconda parte della sua affermazione avrei qualche dubbio con esempi concreti che potranno permettervi di farvi la vostra opinione in merito.

Nei bui anni novanta dei Cincinnati Bengals sono molti gli aneddoti che i giocatori hanno raccontato riguardo i risparmi estremi da parte della società: i Gatorade e le bottiglie di acqua non erano disponibili negli spogliatoi e dovevano essere portate da casa, successivamente fu introdotto un distributore a moneta per cui giocatori dovevano pagare per averlo!?!?…altro che doccia di Gatorade dopo la vittoria, Mike Brown sarebbe corso a strizzare l’erba per recuperarlo.

Negli spogliatoi i calzini e i sospensori erano gettati in un grosso contenitore per essere usati in comune, al punto che alcuni giocatori come T.J. Houshmandzadeh decisero di portarseli da casa e lavarseli da soli.

Gli asciugamani erano così vecchi e usati che il Running Back Ki-Jana Carter, prima scelta assoluta del 1995, decise, a fronte del suo contrattone, di comprarne uno stock per tutta la squadra.

Per risparmiare i costi del pernottamento i giocatori in trasferta dormivano in camera doppia, mentre per le partite in casa arrivavano direttamente allo stadio dalla propria abitazione anziché fare il rituale ritiro prepartita la sera prima come fanno molte squadre NFL, con il risultato che quella banda di scappati di casa mezzi delinquenti che formavano la squadra in quegli anni, se pensavano di essere inattivi, andavano allo stadio direttamente dal club in cui avevano passato la serata… e qualche volta scoprivano pure di dover scendere in campo!

I giocatori erano costretti a pagarsi anche la colazione effettuata allo stadio o al campo di allenamento, che in pratica a Cincinnati sono una struttura unica avendo il proprietario deciso di non costruire una facility dedicata, ma di usare gli spogliatoi dello stadio e allenarsi tutto l’anno all’aperto nel campo antistante lo stadio, praticamente sotto la tangenziale.

Anche le trattative con gli agenti dei giocatori sono sempre state particolari visto che abitualmente Mike Brown si faceva portare al ristorante dall’agente del giocatore a cui poi veniva rifilato il conto da pagare, altre volte invece offrì lui ma in questo caso portava i giocatori e gli agenti a mangiare da Wendy’s, la famosa catena di fast food.

Per onestà intellettuale bisogna ammettere però che, in forma privata e non pubblicizzata, tutta la famiglia Brown fece molte donazioni e opere di beneficenza per la comunità di Cincinnati.

Quest’ epoca ebbe una svolta nel 2003, quando venne scelto come Head Coach Marvin Lewis che non solo riuscì a risollevare la squadra dai bassifondi della classifica, ma ebbe un ruolo fondamentale dal punto di vista societario nel traghettare l’intera franchigia verso una visione più professionale, conquistando giorno dopo giorno la fiducia del proprietario e andando ad allinearsi sotto molti aspetti agli standard delle altre squadre della lega.

L’era Marvin Lewis

I Cincinnati Bengals non raggiungevano i playoff dal 1990, ma l’avvento di Marvin Lewis riuscì al suo terzo anno, nel 2005, non solo ad interrompere questa striscia negativa ma a vincere la division.

Da allora i Bengals diventarono una squadra che, oltre alla rispettabilità fuori dal campo, ottennero anche quella sul rettangolo di gioco, raggiungendo spesso i playoff.

Ma il processo di cambiamento non fu né facile né indolore, i Bengals di Marvin Lewis erano diventati un ambiente familiare dove c’era un profondo senso di lealtà nei confronti dei giocatori, per cui i contratti venivano onorati fino alla scadenza anche se il giocatore non garantiva adeguate prestazioni sul campo e c’era molta tolleranza anche per i comportamenti inappropriati fuori di esso. Dal 2000 al 2019 i Bengals ebbero 44 arresti tra i giocatori, con alcuni esempi quali il cornerback Adam “Pacman” Jones che fu arrestato ben 10 volte e, notizia di queste ore mentre sto scrivendo, è arrivato l’11° arresto. Nel 2006 i Bengals ebbero più arresti (9) che vittorie (8).

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Marvin Lewis cercò molte volte di recuperare giocatori “problematici” e in alcuni casi ottenne buoni risultati come nei primi anni del linebacker Vontaze Burfict ad esempio, ma la società non riuscì a mantenere un’adeguata e coerente linea di condotta come dimostra l’esempio del compianto wide receiver Chris Henry, morto nel 2009 durante una lite con la fidanzata, che dopo una serie di arresti fu tagliato nell’aprile 2008; in quell’occasione Mike Brown dichiarò che Henry aveva perso il diritto di essere un Bengals e che la sua condotta non poteva essere più tollerata. Davvero devo dirvi come è finita quella vicenda? Non riuscite sul serio ad immaginarlo? Fu rifirmato per due anni quattro mesi dopo!

lewis brown bengals
Marvin Lewis e Mike Brown in conferenza stampa dopo la morte di Chris Henry

I risultati in campo però iniziarono ad arrivare sia grazie ad un quarterback talentuoso come Palmer che all’Head Coach che riuscì a condurre la franchigia verso una mentalità più vincente.

Carson Palmer rappresentò un esempio lampante di quanto la mentalità di Mike Brown fosse un limite enorme per questa squadra, infatti non gli venne mai costruito attorno un roster all’altezza, portandolo all’esasperazione al punto di richiedere una trade nel 2011 che ottenne come risposta una rara conferenza stampa di Mike Brown che non solo negava la trade, ma gli ricordava di aver firmato un contratto e di aver dato la sua parola, per cui avrebbe dovuto giocare con i Bengals. Come risposta Palmer disse che piuttosto che continuare a giocare per loro si sarebbe ritirato.

I Bengals scelsero Andy Dalton al draft e perfezionarono una trade che spedì Palmer ai Raiders.

Questo esempio dimostra come purtroppo la trasformazione non fu mai compiuta del tutto e la società conservava alcuni retaggi del passato come il fatto che non venne mai costruito un campo di allenamento coperto. Famoso il discorso di Mike Brown prima del Pre Training Camp Media Luncheon: ”Ho pianificato di procedere al mio passo, alla mia maniera, ma non ho intenzione di approfondire pubblicamente quale sia”, a riprova della sua difficoltà ad adeguarsi al cambiamento dei tempi .

Marvin Lewis dal canto suo fu sempre molto limitato in certi aspetti del gioco come l’incapacità di fare aggiustamenti a partita in corso, perché l’allenatore continuò per tutta la sua carriera a sostenere che non avevano senso e che bisognava rimanere con il piano prepartita, perché la differenza la faceva solo l’esecuzione dei giochi. “Dobbiamo eseguire meglio” rimbomberà sempre nelle mie orecchie ogni volta che penserò a lui; credo sia la frase più detta nelle conferenze stampa post partita di tutta la storia della lega.

La free agency non veniva utilizzata in modo da risparmiare soldi, la squadra veniva costruita sempre e solo tramite il draft, ma i Bengals hanno sempre avuto il minor numero di scout di qualsiasi squadra NFL con solo 6 elementi e i rookie non venivano fatti giocare per i primi due anni, salvo eccezioni dovute a necessità come il QB Andy Dalton o talenti innegabili come A.J. Green. I senatori della squadra, per un debito di riconoscenza, rimanevano in campo anche quando si vedeva chiaramente che non fossero più all’altezza come il MLB Rey Maualuga. Questa gestione ovviamente non permetteva una rapida crescita della squadra e soprattutto non consentiva di fare l’ultimo salto di qualità per fare strada ai playoff nonostante ci fossero stati molti roster talentuosi e degli assistant coaches di grande qualità come Mike Zimmer, Hue Jackson, Jay Gruden, Paul Guenther.

La mia valutazione di Marvin Lewis avrà sempre il sapore agrodolce di ringraziamento per le molte cose positive che ha fatto per questa franchigia, riuscendo ad aprire un po’ la visione ottusa e retrograda di Mike Brown  come forse nessun altro Head Coach sarebbe riuscito a fare, ma mi lascerà comunque il rimpianto per tutto quello che non è riuscito a fare con una squadra con una potenzialità molto superiore ai risultati ottenuti.

La svolta

Pur continuando a non nominare un General Manager, nel 2014 venne dato un ruolo dirigenziale anche a Marvin Lewis con delega al personale e al coaching staff, a dimostrazione della grande fiducia che si era ormai conquistato, mentre alla figlia di Mike Brown, Kate Blackburn, venne affidata la gestione dei contratti.

In realtà la vera struttura organizzativa operativa e i ruoli effettivi non sono mai stati facilmente distinguibili e sono in realtà ignoti non solo alla stampa, ma alla NFL stessa, secondo le indiscrezioni di alcuni GM della AFC.

Con la fine della stagione 2018 ebbe termine anche la carriera da Head Coach di Marvin Lewis, infatti dopo la sconfitta alla Wild Card dei playoff del 2015 non seguì più alcuna stagione vincente e la separazione fu la conclusione inevitabile, nonostante si fosse più volte ipotizzato negli anni precedenti un suo passaggio dal campo di gioco a dietro la scrivania, con la promozione o di Mike Zimmer o in seguito di Hue Jackson ad allenatore capo.

Nella scelta del nuovo Head Coach nel 2019, un Mike Brown ormai ottantaquattrenne fu convinto dalla figlia e dal cognato di propendere per una linea giovane e offensiva, per cui la scelta ricadde su Zach Taylor, proveniente dalla scuola di McVay che aveva appena raggiunto il Super Bowl con i Los Angeles Rams.

L’anno seguente, per la prima volta, i Bengals furono molto attivi in free agency, investendo una cifra stimabile in 145 milioni di dollari (come somma degli stipendi complessivi per la loro intera durata dei contratti firmati).

Seppur i risultati per ora non siano arrivati e ci siano molte perplessità per l’inesperienza di Zach Taylor, il cercare vie nuove per rendere la squadra competitiva dimostra una decisa svolta nell’atteggiamento della società, forse dovuto anche al fatto che Mike Brown sta iniziando ad accettare di non avere più molto tempo per poter cercare di vincere qualcosa, trovandosi così costretto ad accelerare un processo di crescita secondo dei canoni mai seguiti fino a questo momento.

La speranza

Il draft 2020 ha rappresentato un ulteriore salto di qualità per i Cincinnati Bengals, infatti con la prima scelta assoluta è stato selezionato Joe Burrow, il QB da LSU che ha infranto molti record del college football. Il suo arrivo, oltre all’enorme potenziale sul campo di gioco, ha rappresentato un cambio di mentalità sia nei giocatori che nella dirigenza.

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Joe Burrow : pallone autografato con didascalia “2020 #1 pick”

Non avevo mai visto un giocatore riuscire da rookie a caricarsi sulle spalle la responsabilità di un’intera franchigia, cercando di inculcarle una mentalità vincente. Riprova è stata, quando dopo il suo brutto infortunio, tutta la società si è sentita persa e lo spogliatoio stesso ha iniziato a mostrare malumori nei confronti del coaching staff. Chiunque in ambito Bengals, e non solo, abbia conosciuto il ragazzo ha capito quanto fosse speciale come carisma e leadership; lo stesso Mike Brown durante le interviste pre draft, subendone il fascino, per la prima volta nella sua vita professionale, anziché fermarsi alle domande di rito, gli ha chiesto di rivolgergli pure tutte le domande che desiderasse. La stessa conferma di Zach Taylor dopo la seconda stagione con un record disastroso sembra sia stata dettata dalla buona opinione di Burrow nei confronti del suo capo allenatore. Questo, d’altro canto, dimostra la fragilità di una società che ha riposto nel suo giovane talento tutte le sue aspettative, conferendogli un ruolo non solo di giocatore che va ben oltre quello che sarebbe giusto e logico attribuirgli.

E’ presto per dire se davvero Joe Burrow riuscirà a trasmettere una mentalità vincente ai Cincinnati Bengals, ma di sicuro è già riuscito ad infondere un sentimento che nei tifosi era scomparso da 30 anni : la speranza!

Il risveglio

Le conclusioni le abbiamo già analizzate all’inizio, per cui non ci resta che svegliarci proprio come Alice dopo il suo viaggio nel paese delle meraviglie, destarci dall’incubo vissuto sotto la gestione di Mike Brown, un periodo che sta inevitabilmente volgendo al termine, anche solo per i limiti anagrafici del proprietario, sperando che adesso da svegli inizi per noi tifosi il nostro viaggio nel paese delle meraviglie chiamato playoff, perché, come ho scritto all’inizio, con i Cincinnati Bengals tutto funziona al contrario.

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Giorgio Prunotto

Appassionato da 30 anni di football americano e dei Cincinnati Bengals, stregato dal design del loro casco, dalle magie di Boomer Esiason e dalla Ickey Shuffle.

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2 Commenti

  1. Complimenti per questo articolo.
    Non tifo Bengals, ma auguro loro il meglio e mi auguro che Burrow possa tornare al top della forma.

  2. Grazie mille, è un articolo sui Bengals ma in fondo è un insegnamento trasversale per tutte le franchigie. Su Burrow sono di parte ovviamente, ma credo sarà un vero patrimonio per tutti gli amanti di questo sport.

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