Brothers in arms. Le vite incrociate di Jerome Brown e Reggie White

Per un giocatore del sud degli Stati Uniti di quattordici anni, tanti sogni e belle speranze, poter assistere ad un camp di una squadra universitaria nota come i Tennessee Volunteers ha tutti i connotati del sogno.

Vedere come si allenano i grandi, capire e copiare le loro tecniche, stare a contatto con allenatori e giocatori adulti è una esperienza di quelle che restano attaccate alla pelle. Poi magari succede che quel ragazzone grande e grosso, sì, anche lui un defensive tackle come il quattordicenne, lo prenda con sè per chiacchierare, per spiegargli una tecnica, come si passa tra un centro e una guardia, come si molla un bloccatore in tempo per un bel placcaggio.

Beh, poi i camp finiscono, ci si saluta, magari un indirizzo per scriversi (siamo nel 1979), forse un telefono, un arrivederci, se capita. Il quattordicenne pensa che quello sembra forte davvero, se al college si mette in luce magari ha anche la strada spianata verso la gloria della NFL. Forse si ricorderà di lui. Chissà.

Pubblicità

Brooksville è una piccola città della Florida, contea di Hernando. Non è Miami, non è Tampa, nemmeno Jacksonville o Orlando. Ventimila anime in tutto e per tutto. Nel 1988 questa piccola città ospitò una scena che può sembrare una citazione dei Blues Brothers, quando i nostri eroi con la loro auto della polizia disperdevano in malo modo la manifestazione dei nazisti dell’Illinois.

Già, perchè un bel giorno una delegazione del KKK decise di andare lì ad esporre le proprie discutibilissime istanze. Le cronache raccontarono che ad un certo punto arrivò un pickup bianco, con la musica ad un volume oltre la soglia del sopportabile. Scese una persona sola, che con estrema calma esibì un cartello con la scritta “Go away KKK”, passando tra la folla e invitando tutti a restare tranquilli.

La manifestazione terminò spontaneamente senza ulteriori disordini. Non per la particolare minaccia rappresentata dal veicolo, sebbene la musica avesse reso fortunatamente problematica l’esposizione, nè per la banale metrica del cartello. Semplicemente per un improvviso attacco di buon senso dei signori incappucciati che avevano capito che chi reggeva quel cartoncino manoscritto era un ventitreenne già abbastanza conosciuto in città.

Si chiamava Jerome Brown ed era il ragazzo che a quattordici anni era andato ad assistere al camp dei Volunteers. Per completezza di informazione, il giovane defensive tackle con cui aveva fraternizzato in quel camp del 1979, rispondeva al nome di Reggie White.

Jerome Brown, "Go away KKK"
Jerome Brown, “Go away KKK”

Una buona educazione, prima di tutto. The U

Nel 1979, dopo anni di programmi sportivi di basso livello per il football, l’università di Miami nomina un nuovo allenatore capo, a nome Howard Schnellenberger. Il nuovo coach aveva una buona reputazione a Miami, specie a livello di NFL, poichè era stato l’offensive coordinator dei Miami Dolphins della stagione perfetta e ancora fino al 1978 aveva rivestito lo stesso ruolo come collaboratore di Don Shula, dopo una veloce parentesi come head coach dei Baltimore Colts.

L’imprinting di un capo così ingombrante si vide subito. Schnellenberger impose un cambio di approccio radicale dalle parti di Coral Gables, fino ad arrivare al logo del casco. Via quella M, troppo simile al logo dei Dolphins, già cromaticamente vicini. “We are The U”.

Anche a livello attitudinale si trattò di un vero e proprio anno zero. La religione del lavoro del nuovo coach portò gli Hurricanes alla vittoria al Peach Bowl del 1981 ma soprattutto alla storica vittoria dell’Orange Bowl del 1984, contro gli strafavoriti Nebraska Cornhuskers imbottiti di stelle del livello di Mike Rozier, Irving Fryar, Dave Rimington, Dean Steinkuhler. Guidati da Bernie Kosar, succeduto come QB a Jim Kelly, gli Hurricanes fermarono alla fine dell’incontro una conversione da due punti dei Cornhuskers e contro ogni pronostico portarono a Coral Gables il primo titolo nazionale nella storia del college.

Dopo il trionfo, Schnellenberger si lasciò tentare senza eccessivo successo dai soldi della USFL, che in quel periodo stava seriamente infastidendo la lega maggiore portando a casa talenti quali Herschel Walker (New Jersey Generals) e un defensive tackle sensazionale, già evidenziatosi come volontario ai training camp della sua squadra, che aveva colto l’occasione di rimanere a giocare vicino casa accettando l’offerta dei Memphis Showboats. Si parla ovviamente di Reggie White.

Reggie White ai Memphis Showboats, 1985
Reggie White ai Memphis Showboats, 1985

Ma il lavoro fatto da Schnellenberger con gli Hurricanes aveva acceso la scintilla. Sia come stile di gioco che come attitudine, mai una squadra NCAA è stata così simile ad una della NFL. Il suo posto venne quindi ereditato da un giovane coach proveniente da Oklahoma State: Jimmy Johnson.

Pubblicità

Johnson si rivelò subito un allenatore che badava solo alla sostanza, che nel football si identifica chiaramente con i risultati in campo. Ma lasciando libero sfogo alla genuinità dei suoi ragazzi, per la maggioranza provenienti da zone non propriamente tranquille del circondario, Johnson chiarì bene i termini del paragone precedente con la squadra NFL: quel gruppo di collegiali erano in tutto e per tutto una fedele riproduzione degli Oakland Raiders di John Madden e questa attitudine non era particolarmente ben vista a livello di football universitario.

La squadra in campo era a dir poco imbottita di talenti, gente che in seguito avrebbe scritto pagine di storia della NFL come Michael Irvin, Vinny Testaverde, Brett Perriman, Bennie Blades, Jeff Feagles. Bravi anche se non fortunatissimi nei pro i due runner Melvin Bratton e Alonzo Highsmith. Un attacco che viveva con i big play e una difesa mostruosa, ancorata al centro dal talento irreale del defensive tackle Jerome Brown.

Parata di fuoriclasse degli Hurricanes, 1986. Jerome Brown asso di cuori
Parata di fuoriclasse degli Hurricanes, 1986. Jerome Brown asso di cuori

Brown era il capo riconosciuto di una difesa che incarnava in pieno l’aggettivo autoesplicativo villain.
Debordanti, in campo e nel comportamento. Massacravano l’avversario distruggendo sistematicamente i giochi nel backfield e dieci secondi dopo era comunque un primo down automatico per un comportamento antisportivo quasi garantito. Fare il gesto del tagliagola o tentare di piantare il QB avversario nel campo come un ombrellone non era poi ben visto dagli arbitri.

Anche sugli spalti la situazione non era differente. Sembrava di partecipare ad una puntata del leggendario Miami Vice, in un mondo che invece si deliziava di bande con tamburi e ottoni e con l’accademica disciplina “Student body left, student body right” che poteva trovarsi, per dire, a Notre Dame o a Penn State.

L’episodio più celebre, quasi leggendario fu quello della cena precedente il Fiesta Bowl del 1986, quando in seguito a qualche commento un po’ risentito dei giocatori dei Nittany Lions sulla leggendaria pettinatura di Jimmy Johnson, Jerome Brown e alcuni suoi compagni della difesa si presentarono in giacche di pelle e tuta mimetica. Brown prese il microfono e disse che prima di Pearl Harbour i giapponesi non avevano certo cenato con gli americani e abbandonò la scena con tutti i compagni di squadra, in sostanza inducendo l’intera nazione a tifare contro di loro.

Jerome Brown prima della finale contro Penn State (1986)
Jerome Brown prima della finale contro Penn State (1986)

Nonostante lo strapotere degli Hurricanes in tutte le fasi di gioco, quella finale sul campo passò alla storia per la nottata da incubo di Vinny Testaverde che lanciò cinque intercetti. Penn State vinse 14-10 e portò a casa il titolo nazionale.

Prescindendo dai risultati comunque invidiabili sul campo, gli Hurricanes erano ad occhi chiusi la squadra più detestata di tutta la NCAA e probabilmente contendevano ai Miami Dolphins lo scettro della città, sebbene questi ultimi fossero nel periodo d’oro di Dan Marino.

Jerome Brown comunque sembrava un predestinato. Nonostante un carattere non propriamente malleabile e un paio di figli già messi al mondo con donne diverse, sul campo era semplicemente il defensive tackle più dominante mai visto in quel decennio, forse includendo anche Reggie White

“La tua vita sta per cambiare”

Dopo i trionfi ottenuti a Chicago con la leggendaria 46 defense, Buddy Ryan accettò l’offerta dei Philadelphia Eagles e dal 1986 divenne il loro head coach. Per un genio difensivo come lui, trovarsi in casa un giocatore come Reggie White, che nel frattempo aveva abbandonato la lega minore, fu un vero e proprio invito a nozze. Ma quella difesa aveva talento ovunque, non era solo Reggie White.

C’erano Clyde Symmons, Seth Joyner, Roynell Young, Andre Waters. Si sarebbero poi aggiunti anche Wes Hopkins e Eric Allen. Brutti clienti per chiunque. White era talmente veloce per la sua struttura che poteva essere schierato indistintamente come tackle o come end con gli stessi devastanti risultati.

Racconta Phil Simms che nel 1986, fresco campione NFL, Bill Parcells lo convocò nel suo ufficio dove tennero il seguente scambio…

Pubblicità

– Phil, la tua vita sta per cambiare
– Coach non capisco
– Gli Eagles sceglieranno Jerome Brown
– Coach, ma questo è così forte?
– Si

La profezia di Bill Parcells era tutto sommato abbastanza scontata. Trasponendola ad oggi, avere White e Brown nella stessa linea vorrebbe dire avere insieme JJ Watt e Ndamukong Suh. La front four in maglia verde iniziò a dominare sistematicamente ogni avversario. Carica di talento e benedetta dal genio difensivo del suo allenatore, quella difesa era un mal di testa garantito per ogni allenatore avversario.

Raddoppio su White? Brown passava e inchiodava il runner a terra nel backfield cinque o sei yard indietro.
Raddoppio su Brown? White maltrattava il tackle, livellava il quarterback sul turf e lo rialzava con l’immancabile e consolatorio

Jesus loves you, Bro

Reggie e Jerome in campo
Reggie e Jerome in campo

Già, perchè qui entra in scena il livello umano della storia, qualcosa che in un mondo all about business come la NFL potremmo anche non aspettarci di trovare, per lo meno a quella profondità e con quella empatia. L’incontro tra due persone diametralmente opposte, come i due che si erano incontrati quasi da adolescenti al camp dei Volunteers sembrò uno di quegli scherzi del cielo.

Non l’unico, in questa storia. In campo i due erano le fondamenta della difesa perfetta. Precisi, determinanti, mai un egoismo o un protagonismo di troppo, una vera e propria macchina da guerra da schierare contro ogni attacco con l’elevata probabilità di vederlo soccombere.

Fuori, invece, quasi con naturalezza Reggie White riprese il suo ruolo di mentore verso il giovane e irruento compagno, sempre più amico. Brown proveniva da una famiglia non povera ma sicuramente non agiata e stava cominciando ad assaporare i pregi della celebrità e della ricchezza.

Era contento di poter affermare

Beh, finalmente ho i soldi per comprarmi una cravatta

Ma conservava tutti i suoi spigoli e tutto il suo stile di vivere ogni giorno al massimo. Passione per auto e moto, tanto che più volte Jeff Fisher, allora defensive coordinator a Phila, lo vedeva sfrecciare nei dintorni del parcheggio del campo di allenamento senza casco e a velocità insensate.
Per fortuna degli Eagles, Brown metteva lo stesso fuoco anche in campo.

Se avessi quarantacinque Jerome Brown, vincerei ogni partita
(Buddy Ryan)

Ma Reggie White lentamente stava lavorando anche su questo, stava facendo maturare Brown, lo stava avvicinando sempre più ad un sistema di valori più solido, la famiglia, la comunità, la fede. Reggie era una persona di un altro mondo, forse. Ogni venerdì andava a distribuire e cucinare cibo nei sobborghi più disagiati di Philadelphia. Un giornalista gli chiese di poterlo accompagnare per poter raccontare cosa stesse facendo. Lui rispose che poteva accompagnarlo, a condizione che non scrivesse una riga e che lo aiutasse ad aiutare gli altri.

Ma le carenze in attacco degli Eagles  rendevano inutile il lavoro di una difesa che puntualmente finiva tra le prime cinque in ogni campionato e gli Eagles si limitavano a presentarsi urbanamente alla Wild Card per poi cominciare a fare piani per il prossimo anno.

Pubblicità

Nel 1991, non tollerando oltre, il propietario Norman Braman decise per l’esonero di Buddy Ryan, allenatore adorato dai suoi, specie dai giocatori della difesa. Per sostituirlo venne promosso a capo allenatore Rich Kotite, ex coordinatore dell’attacco. Il clima durante il suo primo training camp non fu idilliaco, eufemisticamente.

Kotite snobbava il lavoro della difesa, talmente forte da essere presa per garantita ed automatica. Il tutto sfociò in un alterco veramente serio, dove dopo le schermaglie verbali alcuni giocatori tolsero letteralmente il loro head coach dalle mani di Jerome Brown, che non lo aveva particolarmente in simpatia.

Gli Eagles comunque erano davvero forti, anche perchè in attacco stava maturando un grande quarterback come Randall Cunningham e il suo bersaglio preferito, Mike Quick, era decisamente un ricevitore di fascia alta. Forse quando il mosaico cominciava ad avere tutte le tessere, la sfortuna volle avere il suo ruolo. Nella prima di campionato Randall Cunningham subisce un sack da Bryce Paup dei Packers. Rottura di un legamento, campionato finito.

La difesa non mollò nulla e per la quinta volta appena nella storia della NFL divenne la prima contro le corse e la prima contro i passaggi nello stesso campionato. Confidando nella guarigione di Randall Cunningham, il 1992 li avrebbe visti fra le squadre meglio attrezzate per la corsa al titolo.

Anche il clima nello spogliatoio si era rasserenato. Jerome Brown aveva regalato alla sua comunità di Brooksville in Florida un bel campo per gli allenamenti e aveva coinvolto tanti compagni di squadra per venire a raccontare il football ai ragazzi. C’erano i nomi più noti degli Eagles. C’era Reggie, c’era Mike Quick, c’era Randall Cunningham. C’era una bella atmosfera sana e rilassata. Jerome era davvero orgoglioso di quello che aveva fatto per i ragazzi della sua città.

“Diamo ora la parola a Reggie White”

Veterans Stadium, Philadelphia, 25 giugno 1992. In occasione di una partita interna dei Phillies, Reggie White venne invitato al microfono per prendere la parola per una iniziativa religiosa, la Billy Graham Crusade.
Quello che seguì non potrà mai essere dimenticato da nessuno e non solo a Philadelphia.

Reggie prese il microfono con voce rotta e diffuse una notizia che aveva saputo pochi minuti prima:

Ero qui oggi per darvi la mia testimonianza, ma devo fermarmi.
Oggi ho perso un grande amico e Philadelphia ha perso un grande giocatore.

Oggi è morto Jerome Brown.

Come sapete, lui per me era una persona speciale, come lo erano i suoi cari.
Tutte le voci che avete sentito su Jerome Brown, tutte le cose negative, non consideratele.
Era una delle persone migliori che io ho conosciuto nella mia vita

White rende pubblica la scomparsa di Jerome Brown (25 giugno 1992, Veteran Stadium)
White rende pubblica la scomparsa di Jerome Brown (25 giugno 1992, Veteran Stadium)

Purtroppo la mattina stessa Jerome aveva perso il controllo della sua Corvette sul bagnato di una stradina semideserta, finendo fuori strada e centrando un palo della luce. Quando lui e il nipote dodicenne Gus vennero estratti dalla massa informe di lamiere rimaste non c’era più nulla da fare.

Jerome Brown aveva solo ventisette anni, suo nipote appena dodici. Non c’era internet, le notizie allora viaggiavano ad una velocità diversa. Ci si preoccupava di evitare che la famiglia venisse a saperlo all’improvviso da un notiziario locale, magari. Ma una volta avuta la triste, ineluttabile certezza dell’irreversibilità dell’accaduto Reggie White si fece forza e annunciò la tragedia a tutti.

Tutta la squadra andò ovviamente a Brooksville per l’ultimo saluto al compagno andato via troppo presto. Reggie lo ricordò a tutti, disse che sarebbe stato tutto più difficile, sia in campo che fuori. Parlò della loro amicizia, di come in sostanza fossero ancora due ragazzini in un corpo adulto. Bob Golic, la riserva di Jerome, con un nodo in gola  raccontò

Pensavamo che da un momento all’altro uscisse fuori da lì, che ci avesse fatto l’ennesimo scherzo.
Quando lo chiusero e ce lo tolsero dagli sguardi, beh, è stata dura.

Il momento più intenso dopo la funzione. Reggie si tolse la cravatta, la posò sopra i fiori, sulla cassa che conteneva il corpo del suo amico. I compagni fecero tutti lo stesso. Jerome lo avrebbe apprezzato certamente.

L'omaggio delle cravatte
L’omaggio delle cravatte

Millenovecentonovantadue: una fine e un inizio

La tragedia di Jerome Brown diede una forza diversa ai Philadelphia Eagles, che erano sì consapevoli della loro levatura ma anche del fatto che avevano perso un insostituibile, in campo e nello spogliatoio. La parola d’ordine, vista anche la finestra temporale che per parecchi veterani cominciava a chiudersi, era chiara: vincere per lui. Bring it home for Jerome.

Nella prima partita di campionato Reggie White e Seth Joyner mostrarono al mondo per l’ultima volta la maglia numero 99 degli Eagles, che da quel momento in poi nessuno avrebbe più indossato. Jerome, purtroppo troppo presto, era stato consegnato alla storia della NFL.

Il ritiro della numero 99
Il ritiro della numero 99

Gli Eagles riuscirono a qualificarsi per la post season e andarono a vincere al Louisiana Superdome, dove in occasione di un sack per una safety Reggie indicò il cielo perchè fosse chiaro a tutti a chi stava dedicando quei punti. Ma nel divisional successivo quei Dallas Cowboys erano troppo forti anche per le loro motivazioni, anche per il loro cuore.

L’ennesima offseason di mugugni a Philadelphia, ma stavolta la conclusione fu completamente diversa. Reggie White voleva restare a Philadelphia, era una persona leale e con un senso di gratitudine verso la comunità senza uguali. Ma dopo una disputa con la sua squadra e con la stessa NFL Reggie si ritrovò in sostanza ad essere il primo free agent dell’era moderna.

Ottenne la facoltà di scegliere se accettare o meno l’offerta degli Eagles o di esplorare qualsiasi altra possibilità. Iniziò in sostanza a valutare le offerte che, per un giocatore dal talento così sovrumano, piovvero letteralmente addosso a lui.
Anche se è presumibile pensare che le cose siano andate in maniera più protocollare, in sintesi quello che avvenne è che Reggie disse

Andrò dove Dio vuole che io vada

Pochi istanti dopo Reggie avrebbe ricevuto una telefonata da Mike Holmgren, ex assistente di Bill Walsh a San Francisco da poco arrivato in Wisconsin…

Reggie, è Dio che ti parla. Vieni a Green Bay

Tutta la NFL venne messa a soqquadro dalla notizia che un giocatore così forte fosse stato messo in grado di rappresentare se stesso nelle trattative con le altre squadre, senza che la sua squadra precedente, al termine del contratto, potesse esercitare alcun tipo di prelazione sul giocatore. Oggi è la norma, nel 1992 non lo era.

Reggie avrebbe anche accettato una offerta minore dagli Eagles pur di restare e di non trasferire la sua famiglia. Tra lo sgomento dell’intera città quell’offerta non arrivò e Reggie si trasferì ai Green Bay Packers dove, oltre ad una buona difesa, avrebbe trovato un giovane quarterback in ascesa, un duro, uno che non mollava mai: Brett Favre.

Team building: Brett e Reggie
Team building: Brett e Reggie

Brett raccontò che al primo immancabile “I love you, Brett” che Reggie gli elargì al telefono si sentì in lieve imbarazzo… Dopo aver capito che Reggie era proprio così si limitò, un po’ perplesso,  a rispondergli “I love you too, Reggie”. Tutto divenne facile da subito, come poteva accadere tra fuoriclasse.

Il trionfo di Green Bay

Divenne subito chiaro che l’inserimento di un giocatore come White in una difesa già di buon livello avrebbe prodotto in tempi rapidi una difesa al livello dell’attacco, già molto buono. Nel 1997 finalmente Reggie White coronò il sogno di una carriera arrivando a vincere il Super Bowl con i Packers, che sconfissero i New England Patriots al Louisiana Superdome per 34-21.

White maltrattò la linea dei Pats per tutta la serata, arrivando ad atterrare due volte Drew Bledsoe. I Green Bay Packers tornarono a casa con il loro terzo titolo, il primo che recava la dicitura Vince Lombardi Trophy. White aveva mantenuto una costanza di rendimento impeccabile e nel 1998 venne proclamato miglior difensore dell’anno per la seconda volta nella sua carriera. Fino a quel momento non aveva mai saltato un Pro Bowl, incidentalmente, e due volte era andato a giocarlo con Jerome Brown.

Super Bowl XXXI - Packers 34, Patriots 21
Super Bowl XXXI – Packers 34, Patriots 21

La carriera di Reggie ormai era compiuta. Un primo ritiro, un ultimo campionato con i Panthers nel 2000 e poi il ritiro definitivo con il record assoluto dei sack realizzati.

Il Ministro della Difesa

Reggie ormai poteva dedicarsi a tempo pieno alla sua dimensione spirituale. Già ministro battista durante la sua carriera, cosa che gli valse il leggendario soprannome di Minister of Defense, White si mise ad approfondire le scritture in lingua originale, continuò sempre più a condividere tempo e vita con la sua comunità nella Carolina, dove si era stabilito a fine carriera.

Natale 2004

Racconta sua moglie Sara che la sera del 25 dicembre, mentre tornavano a casa dal cinema, Reggie le fece notare qualcosa di strano lassù, tra le stelle, ed aggiunse le parole

Chissà, forse stanotte accadrà qualcosa…

Reggie da tempo conviveva con una malattia dell’apparato respiratorio, la sarcoidosi, che occasionalmente gli provocava apnee notturne e crisi respiratorie. Alle sette del mattino seguente la moglie vide che non riusciva praticamente più a respirare e chiamò subito il 911, mentre i figli ancora dormivano. La corsa all’ospedale fu vana.

Poco prima delle otto del mattino del 26 dicembre 2004
venne constatata la fine del passaggio su questa terra di Reginald Howard White,
ministro battista e leggenda del football.

Reggie aveva solo quarantatre anni.

La notizia commosse l’intera NFL. Reggie era stimato e benvoluto da tutti, compagni ed avversari. Per i familiari di Jerome Brown lo shock li riportò a quel maledetto giugno 1992, tanta era l’importanza di Reggie per loro. Ai funerali, tra coloro che vollero portare a braccia Reggie verso il suo ultimo viaggio c’erano tanti ex Eagles, tanti ex Packers, Brett Favre in prima fila.

Brett Favre al funerale di Reggie White
Brett Favre al funerale di Reggie White

La coppia degli Eagles che terrorizzò gli attacchi di tutta la NFL per quei quattro anni era di nuovo insieme in un altro luogo, ricomposta da un destino che aveva chiesto un prezzo molto alto, spegnendo prima del tempo quelle fiamme che brillavano con una intensità diversa.

La fine della storia…

I Miami Hurricanes di quel periodo furono probabilmente il nido ideale per Jerome Brown, sia a livello tecnico che a livello caratteriale. Il suo allenatore Jimmy Johnson passò alla NFL nel 1988. Qui costruì una delle squadre più forti di sempre, i Cowboys degli anni Novanta.

Tra i tanti fuoriclasse, quella squadra schierava Michael Irvin, grande amico di Jerome Brown dai tempi di The U, e il QB Troy Aikman. Questi commentò una azione in cui White lo rimontò in velocità e lo spalmò a terra dicendo che se non poteva correre più veloce di uno così grosso avrebbe preso davvero un gran numero di colpi in carriera. Ma quella squadra portò a casa tre Super Bowl, due sotto la guida di Johnson che poi non ebbe la stessa fortuna con i Miami Dolphins

I Philadelphia Eagles ebbero un ovvio calo di risultati dopo aver perso nell’arco di due anni la miglior coppia di lineman del campionato, forse una delle migliori di sempre. Le loro sorti si sarebbero risollevate più tardi con l’arrivo di Donovan McNabb.

I Packers confermarono la loro solidità e la bravura del loro front office. Riuscirono ad assicurare una degnissima successione a Brett Favre scegliendo quello che oggi è il miglior QB in attività, Aaron Rodgers, che li ha condotti nuovamente al titolo in occasione del Super Bowl XLV.

La famiglia di Jerome Brown rimase a Brooksville, tra l’empatia della comunità che aveva adorato quel ragazzone irrequieto che tra una partita e l’altra si occupava di far costruire una scuola, aiutare una istituzione, invitare i ragazzi al suo football camp con le stelle della sua squadra. Purtroppo nel 2012 il figlio primogenito che Jerome ebbe in gioventù ha avuto una condanna per omicidio.

L’eredità di Reggie White è ovunque. Nella sua comunità, che non può dimenticare quello che faceva per tutti e con quale ardore. Nella storia del football, in ogni forma possibile e immaginabile. Il precedente da lui creato nella storia della free agency fece da apripista ad altre trade che riuscirono in seguito a fare la differenza, su tutte quella di Deion Sanders.

Reggie è al numero sette nella lista dei 100 più forti giocatori di sempre, secondo giocatore difensivo dopo Lawrence Taylor. Introdotto nella Hall of Fame nel 2006, la sua maglia numero 92 è stata ritirata sia dai Philadelphia Eagles che dai Green Bay Packers.
La strada a lui intitolata vicino al Lambeau Field sta lì a mostrare a tutti quale sia il posto più adatto per Reggie a Green Bay. Quello vicino a Vince Lombardi.

Reggie White (1961-2004)
Reggie White (1961-2004)
Riferimenti:

Per la storia dei Miami Hurricanes: Espn 30 for 30: The U (Ben Corben)
Per la carriera di Brown e White ai Philadelphia Eagles: NFL Network: A Football Life – Jerome Brown and Reggie White

T.Shirt e tazze di Huddle Magazine Merchandising

Mauro Clementi

Curioso esempio di tifoso a polarità invertita: praticamente un lord inglese durante le partite della Roma, diventa un soggetto da Daspo non appena si trova ad assistere ad una partita di football. Ha da poco smesso lo stato di vedovanza da Marino. Viste le due squadre tifate, ha molta pazienza.

Articoli collegati

Pulsante per tornare all'inizio
Chiudi

Adblock rilevato

Huddle Magazine si sostiene con gli annunci pubblicitari visualizzati sul sito. Disabilita Ad Block (o suo equivalente) per aiutarci :-)

Ovviamente non sei obbligato a farlo, chiudi pure questo messaggio e continua la lettura.