Bottlegate, il giorno che la NFL vorrebbe dimenticaste

La National Football League ci offre consistentemente uno spettacolo così di qualità che nei – rari – momenti in cui tutto va bene ci chiediamo se ciò a cui stiamo assistendo sia reale. Per esempio, dopo l’epico botta e risposta fra Chiefs e Bills dello scorso Divisional Round dubito che qualcuno di noi fosse in grado di nominare qualcosa di migliore rispetto al prodotto di questa lega: insomma, in NFL tutto è sempre luccicante e stupendo… finché non smette di esserlo.
Nei momenti in cui le cose non vanno secondo i piani la reazione è sempre la stessa, ossia di gettare quanta più polvere possibile sotto il tappeto cambiando, nel frattempo, la storia per rimuovere dalla testa del tifoso medio un ricordo che potrebbe intaccare la limpidissima reputazione di una lega sempre così attenta al candore della propria immagine. Si sa, la NFL eccelle nell’arte del gaslighting – molto curioso di vedere come sarà gestita la situazione Tagovailoae il fatto che pochi di voi leggendo la parola “Bottlegate” abbiano già capito di cosa io stia per parlarvi ne è ottima prova.

Fra i motivi principali per cui amiamo lo sport troviamo sicuramente la libertà che una partita – o gara che sia – sa regalarci: per un numero variabile di minuti siamo in grado di mettere un muro fra noi e il calderone in cui relazioni interpersonali, preoccupazioni, lavoro, scuola, salute e consapevolezza di sé tentano di farci annegare quotidianamente.
Lo sport, per un breve intervallo temporale, ci permette di concentrarci sull’hic et nunc aiutandoci a smettere di tartassarci col nostro passato e angosciarci per il futuro: insomma, lo sport è in grado di anestetizzare il nostro cervello come un alcolico o una droga qualsiasi.
Uno o più cervelli anestetizzati, però, sono prerogativa di ogni disastro.

Sono più che convinto che istanze come quelle del Malice at the Palace, Italia contro Serbia del 2010, Disco Demolition Night o qualsiasi altro evento sportivo boicottato dalla condotta degli spettatori siano stati resi possibili da un assopimento collettivo di cervelli e, magari, da qualche bibita alcolica di troppo.
Bottlegate, però, è diverso.
In un certo senso, Bottlegate è giustificato: lasciatemi chiarire.
Quanto vi racconterò nei prossimi paragrafi non può godere del beneficio di nessuna attenuante e, indipendentemente dall’inettitudine arbitrale, mettere a repentaglio vite umane per il risultato di una partita di football americano è così insensato che non credo sia nemmeno necessario trovare un mezzo di comparazione per completare la similitudine. Ciò che voglio dirvi è che per rintracciare la genesi di Bottlegate non sia affatto necessario servirsi di manuali di sociologia o di chissà quale termine scientifico, Bottlegate è stato la reazione – sbagliata e ingiustificabile – a un qualcosa di altrettanto sbagliato e inaccettabile, seppur in un piano metafisico completamente diverso.

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Il giorno è il 16 dicembre 2001, il luogo è quello che ai tempi si chiamava ancora Cleveland Browns Stadium.
Prima di andare avanti, però, è obbligatorio chiarire una cosa. Quella era la terza stagione dei “nuovi” Cleveland Browns e le prime due non erano andate affatto bene, in quanto fra 1999 e 2000 i Marroni furono in grado di vincere solamente cinque partite.
Potete dunque immaginare che il fatto che a metà dicembre Cleveland stazionasse su un poliedrico 6-6 conferisse una certa importanza alla visita dei Jacksonville Jaguars che, su un 4-8 tipicamente jaguariano, non avevano più molto da chiedere alla stagione.
Cleveland si trovava in una posizione alquanto complicata, per qualificarti ai playoff con un 6-6 sei costretto a vincere tutte le partite rimanenti e sperare in aiuti esterni: tutto ciò per farvi capire quanto quella partita fosse importante per i Cleveland Browns come franchigia e per Cleveland come città.

Quello che andò in scena in campo, tuttavia, non fu poi il migliore degli spettacoli.
L’attacco dei Browns, guidato da Tim Couch, faticò tremendamente a tenere in vita drive principalmente a causa di una tragicomica inefficacia su terzo down – tre conversioni su undici tentativi – e per mettere a segno un touchdown i Marroni dovettero affidarsi al buon Anthony Henry, di professione defensive back.
In tutta sincerità, una squadra dominata dagli insipidi Jacksonville Jaguars non poteva nemmeno permettersi di sognare i playoff, ma a rendere inimitabile il football americano ci pensa anche il fatto che indipendentemente da tutto una partita non si può mai dare per conclusa fino al fischio finale, soprattutto se il proprio reparto difensivo si rifiuta categoricamente di alzare bandiera bianca e mandare in fumo una stagione, fino a quel momento, indubbiamente positiva.

Per un periodo non indifferente di tempo c’è chi ha creduto che Couch potesse essere la risposta che Cleveland cercava disperatamente.

Ultimo quarto, 12 a 10 Jaguars.
L’indefessa difesa dei Browns costringe Jacksonville a un piazzato che li catapulta sul +5 ma che non può bastare a garantir loro la quinta vittoria stagionale. L’attacco dei padroni di casa, infatti, ha ancora tre minuti a disposizione per riuscire nell’impresa di concludere un drive in end zone: dovessimo basarci su quanto visto fino a quel momento potremmo però alzare in cielo il braccio di Jacksonville, Cleveland si è dimostrata assolutamente incapace di muovere le catene, figuriamoci con così poco tempo a disposizione.
Per segnare un touchdown, oltretutto.

Ovviamente, visto che il football americano funziona in modo strano, l’attacco dei Browns comincia a macinare yard: un passaggio a O.J. Santiago, uno a Kevin Johnson, uno ad Andre King ed eccoli in red zone con ben due minuti rimasti da giocare.
L’inerzia è tutta dalla loro parte, quindi poco male se fra primo e secondo down questi guadagnano una misera iarda, troveranno sicuramente modo di convertire il terzo down e completare la rimonta, vincere la partita e tenere vive le flebili ma concrete speranze playoff: Kevin Johnson il pallone lo riceve anche, ma purtroppo mancano un paio di yard per chiudere il down.
Convertire un quarto-e-due, però, non è sicuramente un qualcosa di mai visto: quanto sta per accadere, invece, sì.

Couch riceve lo snap e indirizza immediatamente lo sferoide a Morgan che lo riceve in modo tutt’altro che pulito: a primo acchito la sua sembra essere una ricezione, ma è fuori questione che il solidissimo tackle di James Boyd potrebbe avergli fatto perdere il controllo del pallone.
In casi del genere la soluzione è solo una: allinearsi il più in fretta possibile e dare vita a una nuova azione prima che gli arbitri abbiano modo di decidere se servirsi o meno del replay – non è necessario usare il challenge all’interno degli ultimi due minuti di entrambe le metà di gioco – per fare luce sull’accaduto.
Couch, giovane ma già scafato, svolge un lavoro magistrale ed esegue un furioso spike che, però, potrebbe meritare una penalità per intentional grounding in quanto non puoi fingere lo spike prima di farlo: in ogni caso, missione compiuta.
Alla penalità si può sopravvivere, al turnover of downs no.
Cleveland ora ha a disposizione 49 secondi per guadagnare una decina di yard e portarsi a casa quella che avrebbe dovuto essere una vittoria non così nevrotica ma va bene così, a win is a win: prima, però, gli arbitri dovranno decidere se sanzionare l’intentional grounding o meno.

In quel momento, però, succede qualcosa di strano.
Gli arbitri si dirigono verso gli schermi non per controllare lo spike di Couch ma per valutare la ricezione di Morgan. È lapalissiano che questi arbitri non abbiano ben presente che sia possibile modificare l’esito solamente della giocata precedente, non della penultima: catch o meno, il fatto di aver completato lo snap successivo bastava – e basta tuttora! – a rendere inattaccabile quanto successo due azioni prima.
Fra la confusione generale – e non potrebbe essere altrimenti – succede l’imponderabile: l’arbitro Terry McAulay annuncia che quella di Morgan non può essere considerata una ricezione perché il giocatore non si è mai assicurato il possesso del pallone.

Incompleto.
Turnover of downs.
La partita è finita, hanno vinto i Jaguars, i Browns precipitano sul 6-7: il sogno playoff è quasi sicuramente evaporato.
Il pubblico, comprensibilmente furioso, realizza che dei normali fischi non esprimono con la necessaria enfasi il disappunto e la rabbia che stanno dilaniando la loro interiorità e cominciano a lanciare in campo bottiglie di plastica: il perimetro del rettangolo di gioco è inondato di plastica, l’unica zona apparentemente sicura è la metà del campo dove entrambe le squadre si radunano nell’attesa che il pubblico si tranquillizzi o, eventualmente, esaurisca le munizioni.
Indipendentemente da come andrà a finire, è stato appena consegnato alla storia Bottlegate, uno scandalo diverso dagli altri.
I minuti si accumulano e il flusso di plastica non sembra volersi arrestare, quindi McAulay decide d’impeto di annunciare la conclusione della partita malgrado i 48 secondi rimasti sul cronometro.

La peculiare decisione non fa che aizzare ulteriormente la folla che, vedendo gli arbitri e i giocatori avversari fiondarsi verso gli spogliatoi, lancia bottiglie con rinnovato vigore.
Fortunatamente il campo si è svuotato d’umanità – tanto quanto gli spalti – e i giocatori, dopo uno dei più grandi spaventi della loro esistenza, sono finalmente al sicuro: non così in fretta.
Il commissioner Paul Tagliabue, tramite una chiamata, fa presente a McAulay che un arbitro non ha il potere necessario per proclamare la fine anticipata di una partita: bisogna tornare in campo e bruciare gli ultimi, insignificanti, 48 secondi rimasti sul cronometro. Questa ridicola scelta conferisce a Bottlegate una certa unicità, in quanto a separare Bottlegate da tutti gli altri scandali di cui la NFL si è resa protagonista è l’avvilente assenza di una fonte di ragione e buonsenso.
Dopo aver raffazzonato un manipolo di giocatori non ancora completamente nudi o già in doccia, le squadre si dirigono mestamente verso il gridiron dove verranno consumati due svogliati quarterback kneel.
Vittoria di Jacksonville.

Giusto per rendere l’idea.

I piani alti dei Browns, il presidente Carmen Policy e l’owner Al Lerner, nella successiva conferenza stampa rifiutano categoricamente di criticare la condotta vergognosa dei propri tifosi arrivando addirittura a giustificarne il comportamento grazie a una bislacca reinterpretazione del terzo principio della dinamica, ossia che «a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria»: evidentemente la reazione uguale e contraria all’inettitudine arbitrale è sommergere il campo di plastica nel tentativo di punire alla meglio chi è appena costato la stagione a una città disperata per un po’ di successo sportivo.

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Incidenti del genere, fortunatamente, non si sono più ripetuti ma ciò nonostante ho ritenuto necessario porre alla vostra attenzione questa storia per dimostrarvi che pure l’insostenibilmente immacolata storia – da fuori – della National Football League non sia immune da pagine nere da nascondere con vergogna: Bottlegate è sicuramente una delle più clamorose.

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Mattia Righetti

Mattia, 27 anni. Voglio scrivere per vivere ma non so vivere. Quando mi cresce la barba credo di essere Julian Edelman. Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango malissimo.

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