Come Tony Siragusa, veramente, nessuno mai

Quando tifi una squadra da più di un decennio, l’equivalente di un paio di ere geologiche in NFL, credi di averle viste veramente tutte e, di conseguenza, di essere pronto a ogni evenienza.
Lo sapete, tifo per i Baltimore Ravens, e negli anni ho visto un pass per il Super Bowl smaterializzarsi a causa di un drop in end zone seguito immediatamente da uno dei peggiori field goal nella centenaria storia della lega , ho visto una stagione leggendaria spegnersi al Divisional Round a suon di corse di Derrick Henry, ho letto – fortunatamente non visto – di due giocatori fondamentali rompersi il crociato in allenamento il giovedì prima del kickoff, uno dopo l’altro in due snap consecutivi, così, uno dopo l’altro.
Tuttavia, al ventidue di giugno del duemilaventidue – non lo scrivo in cifre perché non ritengo possibile che dei numeri possano arrecare così tanto dolore a così tanta gente –  non ero pronto: sono abbastanza convinto che nessuno, indipendentemente da esperienze personali e cinismo, possa essere pronto a un giorno del genere.
Il pomeriggio, dal nulla, su Twitter si materializza un mesto e sobrio tweet nel quale la mia franchigia preferita piange la morte di Jaylon Ferguson, ventiseienne come me: qualche ora dopo, in quel periodo indefinito della giornata che per qualcuno è ostinatamente sera mentre per qualcun altro è notte, una notifica di The Athletic mi mette al corrente della dipartita di Tony Siragusa.

Non esistono morti di serie A, ogni morte nella sua inesprimibile mancanza di senso ha il potere di distruggere decine, se non centinaia, di sfortunate vite costrette a rimanere al mondo, obbligate a cercare un modo per riadattare la propria monca esistenza al fine di renderla nuovamente vivibile, tollerabile: questo articolo, come specificato dal titolo, è sì dedicato a Tony Siragusa, ma non vuole in nessun modo dare priorità alla sua morte rispetto a quella di Jaylon Ferguson.
Siragusa è un essere umano che, per ovvi motivi, negli anni ho imparato a conoscere e dal quale sono rimasto profondamente affascinato, mentre ammetto senza vergogna che di Jaylon Ferguson l’uomo, non il giocatore, non so molto: parlare per copia-incolla e statistiche di un ragazzo morto così tragicamente nella speranza di fare views è un qualcosa che lascio volentieri agli altri, il mio silenzio è la più rudimentale e a mio avviso appropriata forma di rispetto nei suoi confronti, di lui sapevo così poco che parlarne sarebbe alquanto irrispettoso e inopportuno – non che di Siragusa ne “sappia” di più, ma ne ho sicuramente “letto” di più.
Suona come pigro cliché dirlo, ma i miei pensieri più empatici sono rivolti a famigliari – il fatto che avesse tre figli rende ancora più straziante il tutto –, amici e compagni di squadra: per metabolizzare qualcosa di questa magnitudine è necessario un insopportabilmente lungo intervallo temporale e la mia speranza è che chiunque riesca, in qualche modo, a trovar quanto prima possibile un barlume di pace interiore.

Dopo annunci del genere, la reazione fisiologica dell’osservatore esterno è quella di rivolgersi a Wikipedia a caccia di informazioni, e dopo una veloce cernita della nostra enciclopedia preferita si noterà che nel suo palmares non figura nessuna convocazione al Pro Bowl – facciamo finta contino qualcosa: com’è possibile, allora, che in queste ore il lessema “leggenda” sia stato scomodato così tante volte per uno che non può vantare nessun riconoscimento individuale?
Tony Siragusa, molto semplicemente, per essere una leggenda non aveva bisogno di adornarsi di elmetto e armatura: per fare il proprio ingresso nel folklore NFL a Goose – suo soprannome – bastava semplicemente aprire la bocca ed emettere qualsivoglia parola.
Se ci fosse una Hall of Fame degli esseri umani, molto probabilmente Siragusa sarebbe entrato al primo tentativo.

Con individui del suo calibro, i risultati sportivi diventano secondari, anche se a onor del vero dinanzi alla morte qualsivoglia record o anello perde immediatamente ogni possibile significato: intendiamoci, Siragusa è stato un grandissimo giocatore, il prototipo del nose tackle, ossia il poveraccio costretto a barattare manate e spinte per tenere quanti più offensive lineman possibile impegnati e permettere ai propri compagni di squadra di arrivare al quarterback o al ball carrier.
La vita del nose tackle, cari lettori e care lettrici, è fra le più difficili e infami possibili perché il carico di lavoro – e l’intrinseca difficoltà d’esso – eclissa prepotentemente i riconoscimenti o, semplicemente, i complimenti: è totalmente comprensibile capire come mai il nose tackle medio – ecco, magari non pensate a Vince Wilfork – sia così imbruttito, scontroso e burbero.
Tony Siragusa, atipico pure in questo, nonostante tutto ha reso il sorriso il tratto caratterizzante della propria persona: lasciatemi dire che fra i protagonisti dietro la sua leggenda troviamo principalmente questo sorriso, accompagnato da un senso dell’umorismo spietato e senza limiti che sarebbe stato considerato eccessivo per chiunque altro.

Vi invito, però, a non commettere l’errore di bollarlo come mite bonaccione, perché probabilmente Tony Siragusa è stato uno dei giocatori più duri e ostinati di sempre e, a tal proposito, permettetemi di raccontarvi una storia così controintuitiva e improbabile che non può che essere vera.
Il giorno è il 22 ottobre del 2000, i Ravens ospitano gli allora coinquilini di division Tennessee Titans (sì, in quegli anni la AFC Central esisteva veramente): lasciatemi dire che malgrado si trattasse di Week 8, quell’incontro era giusto un filo importante in quanto Baltimore stazionava sul 5-2, a mezza partita di distanza dai Titans leader di division.
Siete tutti al corrente dell’importanza di uno scontro al vertice divisionale, perciò credo che non debba sprecare altro tempo a vendervene la gravitas.

Durante una corsa nel primo quarto, Lorenzo Neal blocca – o meglio, tenta di bloccare – Siragusa: l’immenso difensore rimane incastrato in modo perverso fra Neal e un offensive lineman avversario, il collo prende una torsione del tutto innaturale e Goose rimane pietrificato a terra.
Sapete tutti fin troppo bene che quel genere d’incidente è il peggiore che possa occorrere a qualsiasi giocatore e per dieci minuti la partita rimane di fatto sospesa nella più angosciante apprensione: una squadra di trainer e medici circonda Siragusa che con estrema cautela viene caricato prima su una barella e poi su quel maledetto veicolo che ogni volta che lo vediamo siamo portati a pensare al peggio.
Paralisi? Fortunatamente no.
Carriera finita? Troppo presto per dirlo, anche se dopo una decina di stagioni in NFL potrebbe essere.
Fuori tutta la stagione? Probabile.
Partita già conclusa? Senza dubbio…

Pubblicità

…Salvo che poi, dopo essere stato trasportato in spogliatoio, Siragusa si alza, inizia a camminare, sta relativamente bene, l’ansia e l’angoscia sono state eclissate dalla preoccupazione per la partita, dal desiderio di essere là fuori con i propri compagni, amici, se vogliamo fratelli.
Di per sé questa notizia vale tutto, ma per ricordarci quanto lui sia diverso dagli altri, con l’irriverenza che lo contraddistingue, chiede ai dottori cosa deve fare per tornare in campo: sottoporsi a una risonanza magnetica, ovviamente.
In men che non si dica viene catapultato nell’ospedale più vicino dove, non si sa come, la risonanza esce pulita: in una velocità calcolatamente illegale, Siragusa viene riaccompagnato allo stadio dove, con cinquantuno secondi rimasti da giocare nella prima metà di gioco, riemerge dal tunnel.
Il pubblico, probabilmente convinto di essere vittima di un’allucinazione collettiva, inizia a urlare sguaiatamente «GOOSE! GOOSE»: Tony Siragusa quella partita, una sconfitta resa possibile dalla comicamente dolorosa inettitudine dell’attacco, la finisce.
Un’ora dopo essere stato accostato alla parola “paralisi”: credo che questa sia la prima che sentite.

In una sola persona, in una massa sconfinata d’umanità eterea e corporea, Tony Siragusa bilanciava l’animo e la personalità di un perverso stand up comedian dal sorriso magnetico alla bestialità di un nose tackle che, pochi minuti dopo aver eluso una terrificante paralisi, ha voluto a ogni costo rientrare in campo coi propri fratelli per portare a termine la missione più importante in assoluto, quella di scolpire nella pietra la leggenda della più grande difesa della storia della National Football League: nonostante la presenza dei vari Ray Lewis, Peter Boulware, Rod Woodson, Chris McAlister, Rob Burnett e Michael McCrary, mi sento di dire che senza di lui quella difesa non sarebbe stata così forte, così iconica.

https://twitter.com/shannonsharpeee/status/1539762353738133504

A momenti più largo che alto, con delle gambe così massicce che gli enormi polpacci sfociavano direttamente nei piedi senza la mediazione di ben definite caviglie, Siragusa era il cuore pulsante di quel reparto, era colui che tenendo occupati più uomini di linea contemporaneamente permetteva a Ray Lewis di mettere sistematicamente le mani addosso al ball carrier, era l’uomo dietro le quinte che permetteva agli altri di brillare senza mai lamentarsi perché, diciamocelo, che un giocatore del genere non possa vantare nemmeno una convocazione al Pro Bowl è uno scandalo.
A lui, però, queste cose non interessavano, il suo storico anello – forse l’unico anello vinto esclusivamente da un reparto – compensava a tutto: non importava quanto poco fosse stato rispettato come giocatore, quell’anello era l’unico suo obiettivo, l’unica cosa in grado di validarne la carriera e, in un certo senso, di compendiare il giocatore che era stato.

La rivincita, se così si può definire, se l’è presa fuori dal campo apparendo nella leggendaria serie The Sopranos, facendo per anni l’analista per Fox, diventando host di serie tivù che malgrado difficilmente possano essere considerate successi ci mettono davanti all’incontrovertibile fatto che la sua personalità fosse così unica e intrigante che ogni scusa era buona per metterlo davanti a un paio di telecamere.

Se n’è andato così, nel modo più siragusiano possibile, nell’innocenza e tranquillità del sonno, se n’è andato nel modo più coerente possibile, quasi per scherzo.
Non credo sia possibile esprimere a parole il vuoto che lascerà nella vita di innumerevoli persone, congedarsi da questo pianeta a 55 anni con tre figli alle spalle è un qualcosa di così tragico che non può far ridere nemmeno se c’è dietro lo zampino di Tony Siragusa.
Ciò nonostante, se proprio devo concludere questo articolo con un minimo di forzata positività, credo che nulla fornisca un’indicazione più precisa sulla persona che era più del fatto che chiunque abbia parlato di lui in questi giorni sia stato costretto a combattere un sorriso terribilmente inappropriato quando si affronta quest’argomento: c’è poco da fare, anche davanti alla morte Tony Siragusa ha trovato modo di farci ridere e sorridere semplicemente ricordandone battute, scherzi ed episodi che potevano capitare esclusivamente a chi ha avuto la fortuna di averci trascorso del tempo assieme.
Anche se l’ultimo, se proprio devo essere sincero, non mi ha fatto particolarmente ridere: questa volta non credi di aver esagerato, Tony?

Merchandising Merchandising

Mattia Righetti

Mattia, 27 anni. Voglio scrivere per vivere ma non so vivere. Quando mi cresce la barba credo di essere Julian Edelman. Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango malissimo.

Articoli collegati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Pulsante per tornare all'inizio
Chiudi

Adblock rilevato

Huddle Magazine si sostiene con gli annunci pubblicitari visualizzati sul sito. Disabilita Ad Block (o suo equivalente) per aiutarci :-)

Ovviamente non sei obbligato a farlo, chiudi pure questo messaggio e continua la lettura.