Piccola storia di un grande uomo: Joe Delaney

Il draft del 1981 ci riporta indietro ad una dimensione temporale del football che oggi rischiamo quasi di ignorare (ingiustamente!), specie in un mondo in cui la tecnologia domina, invade e prevede tutto, in un mondo in cui qualsiasi prospetto ha decine di video dai quali è possibile apprezzarlo in ogni aspetto del gioco. In quegli anni lo scouting dei giovani talenti si faceva molto semplicemente viaggiando per il paese in lungo e in largo, con la copia del mitico Street & Smith’s nella ventiquattrore.

Streeet & Smith, 1997. In copertina Peyton Manning

Per i recruiter di ogni livello, dai college ai professionisti, ancor oggi Street & Smith’s è una sorta di Bibbia, ma in quegli anni era veramente imprescindibile. Nulla di immaginifico, come può essere Sports Illustrated. Ha più l’aspetto del directory, del catalogo di ingranaggi, viti e bulloni. Stampato su carta economica, spesso con le foto e in bianco e nero, ma con un interminabile elenco di nomi, ruoli, altezze, pesi, statistiche d’ogni tipo, tempi sulle 40… Chiaramente c’era l’edizione di S&S per i college e quella per i pro. Quella per il football, quella per il basket, quella per il baseball. Niente fronzoli. Niente foto di festeggiamenti nelle endzone, niente foto di cheerleader.

S&S era il prontuario perfetto in un mondo in cui Pete Rozelle, capo storico della massima espressione planetaria del football, scriveva le chiamate del draft su una lavagna. Prima una lavagna in ardesia vera e propria, col gessetto. Poi sul foglio da lucidi bianco, col pennarello, il lucido proiettato sul telone: la squadra scritta in bella grafia a sinistra e il nome del giocatore selezionato nella colonna libera di questo precursore dei fogli di calcolo…

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Pete Rozelle alla lavagna. Dalla prima scelta capiamo che l’anno è il 1970…

Il draft del 1981, dicevamo.
Rozelle comincia subito a scrivere nomi di un certo livello. Al numero uno assoluto i Saints prendono il vincitore dell’Heisman Trophy George Rogers, che si sarebbe rivelato poco più che un buon runner. Ma al numero due il nome che appare vicino a quello dei New York Giants va ricordato con tutti gli onori, perchè trattasi di Lawrence Taylor, dai North Carolina Tar Heels. I loro tifosi in quel periodo non si trattavano malissimo, visto che dopo l’uscita di Taylor alla ribalta del college sarebbe arrivato a consolarli un altro tizio abbastanza ben messo a talento: Michael Jeffrey Jordan.

Il primo giro continua con nomi che negli anni successivi avrebbero scritto pezzi di storia del football. Due defensive back: Kenny Easley ai Seattle Seahawks e Ronnie Lott ai San Francisco Fortyniners. Offensive lineman eccellenti, quali Mark May (Redskins) e Brian Holloway, che andava a dividersi la gloria con l’immenso John Hannah sul lato sinistro della linea dei Patriots. E tra il primo e il secondo giro cominciamo anche a trovare un buonissimo QB, Neil Lomax (Saint Louis Cardinals), e due buoni running back, come James Brooks (Chargers) e James Wilder (Buccaneers). Altri buoni colpi al secondo giro potevano essere Cris Collinsworth (ai Bengals, oggi commentatore) e soprattutto Mike Singletary ai Chicago Bears: lui e Lawrence Taylor faranno sì che questo draft verrà ricordato soprattutto per i linebacker. Nel secondo giro poi troviamo anche due defensive lineman spettacolari, come Howie Long (Raiders) e Rickey Jackson (Saints, poi convertito linebacker).

In mezzo a questa pioggia di talenti i Kansas City Chiefs di coach Marv Levy al secondo giro pescano un giocatore poco reclamizzato, che arriva da un college di seconda divisione, che si è fatto notare più per i 9.4 sulle 100 yard e i 20.64 sui 200 metri che non come runner, anche se le statistiche all-purpose che si porta dietro sono rispettabilissime. Ma è un runner: e in quel momento essere un runner nella NFL significa confrontarsi con Walter Payton, Earl Campbell, Tony Dorsett, Billy Sims, John Riggins. Un runner che arriva dal sud povero, quello raccontato lungo il fiume da Forrest Gump che pesca i gamberi. Quando viene intervistato, tradurre dal suo slang cajun ad un linguaggio comprensibile non è impresa banale, come non sarà banale per nessuno fare i conti sia con il giocatore che con l’uomo.

Questa storia inizia da quando al secondo giro, con il numero 41, Pete Rozelle a fianco alla casella dei Kansas City Chiefs scrive il nome di Joe Delaney.

Joe Delaney (Kansas City Chiefs)

Not your ordinary Joe…

Joe Alton Delaney nasce il 30 ottobre del 1958 a Henderson, Texas. E’ il terzo di otto figli di Eunice e Woodrow. Il padre guida il camion, la famiglia Delaney, senza giri di parole, non naviga nell’oro. Ma la modesta comunità di Haughton, in Louisiana, è un nido accettabile per crescere il piccolo Joe e i suoi tanti fratelli. Nonostante il parere contrario del padre, che vedeva il football come una perdita di tempo, Joe vuole a tutti i costi entrare nella squadretta della scuola locale, i Buccaneers. Anche i suoi allenatori inizialmente non lo reputano adatto al gioco. Quando questo ragazzo piccolino e gracile bussa alla porta dello staff, gli propongono di aggregarsi alla squadra per diventare un assistente allenatore e provare quel tipo di carriera. Joe con le lacrime agli occhi risponde che lui è lì per giocare a football e per diventare un giocatore professionista. E una dote ce l’ha: è clamorosamente più veloce degli altri, quindi decidono di dargli una chance come ricevitore. Lui non se lo fa ripetere due volte, lavora duro e riesce a farsi notare da un po’ di college della zona: viene visionato dagli scout di Grambling, di LSU, di Texas e Oklahoma. Ma non se ne fa nulla, qualcosa non va. Alla fine, Anno Domini 1977, una scholarship arriva: l’università di Northwestern State (Louisiana) vuole questo giovane ricevitore per giocare nei Demons.

Non appena inserito nel programma della squadra, Joe deve cambiare ruolo per necessità. Un ricevitore in una squadra che usa prevalentemente la wishbone non serve molto. Ha bisogno di un minimo di adattamento, un nuovo ruolo in un contesto nuovo: il suo anno da freshman ha molto dell’apprendistato. Si adatta bene al gioco, perchè sarà anche leggerino (1.78 per 84 kg) ma ha istinto da vendere, riesce a vedere la luce del giorno tra le linee come pochi, e una volta in campo aperto è veramente un brutto cliente per tutti, stante una velocità di base accecante.

Il 28 ottobre 1978 Joe fa girare dalla sua parte un congruo numero di scout quando corre per 299 yard in 28 tentativi contro Nicholls. Le 263 yard guadagnate nel solo secondo tempo sono ancora oggi il record NCAA. Segna 4 TD, uno su una corsa di 90 yard. Nello stesso periodo Joe frequenta assiduamente anche la pista di atletica, come per tenersi pronto un piano di riserva. Corre la strana misura delle 100 yard in 9.4, mette su un 20.64 rispettabilissimo sui 200 metri, fa parte della staffetta di Northwestern, campione NCAA nel 1981.

Il ragazzo, insomma, i numeri ce li ha eccome.
Marv Levy tuttavia non è mai stato un entusiasta verso i suoi rookie (eccezioni più avanti: Thurman Thomas e Bruce Smith), ma non può non essere colpito dalla dedizione di questo ragazzo, dai suoi modi da team first guy, dal suo sorriso contagioso. Joe lega con tutti, ma in modo speciale con il ricevitore JT Smith, suo partner preferito in incomprensibili dialoghi in cajun stretto. Il defensive back dei Chiefs Deron Cherry ricorda divertito:

Parlare con Joe? Se capivi cinque o sei parole eri fortunato, parlava così rapidamente. Era in linea col personaggio: lui era un country guy, una persona assolutamente semplice. E probabilmente in quello spogliatoio era il più felice di tutti noi

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Joe Delaney e JT Smith

Questo clima positivo permette a Joe di gestire in maniera del tutto naturale anche i primi inevitabili errori di un runner rookie nella NFL: una lettura sbagliata, un fumble, un pallone droppato. Marv Levy ha fiducia nel suo ragazzo, e Joe lo ripaga nel modo migliore possibile. Dopo tre o quattro partite in cui, per dire, familiarizza con il nuovo posto di lavoro, Delaney inizia a macinare yard a centinaia, con una media per corsa favolosa (4.8 ypc). Il top contro Denver (149 yard) e contro Houston (193 yard).

Delaney in azione durante Chiefs-Chargers

Elvin Bethea, defensive end degli Oilers (indotto in seguito nella Hall of Fame) commenta:

Ho giocato contro il meglio: OJ Simpson, Gale Sayers, Walter Payton. Delaney è in questo gruppo qui. E’ un Grande, con la G maiuscola.

Nel suo primo anno ai Chiefs, Joe Delaney chiude con 1121 yard su corsa, 246 su ricezione e 4 TD in totale. Questi numeri avrebbero resistito per più di venti anni nella storia dei Chiefs come miglior stagione di un rookie. Spinti dalle sue corse i Chiefs ritrovano una competitività che sembrava smarrita all’interno della division e chiudono con un 9-7 che non li porta ai playoff, ma è una base promettente su cui costruire per il futuro.
Delaney viene nominato rookie dell’anno nell’American Football Conference ed è titolare al Pro Bowl. Non vince il premio per l’intera NFL a causa dall’impatto devastante sul gioco di Lawrence Taylor.

Un primo anno davvero sensazionale e per Joe, cresciuto povero, la vita prende una strada del tutto nuova. Ma a Haughton resta sempre la sua Ford Cougar azzurra, e quando arriva l’assegno Joe va da sua moglie Carolyn e glielo lascia sul tavolo, con il suo solito sorriso:

Prendilo tu, è per te e per le bambine. Lasciami solo un po’ di soldi per questa settimana.

Joe Delaney con una delle sue bimbe

Joe è così: immenso nella sua semplicità. Non lo fa per spocchia, nè per farsi perdonare colpe non commesse. Ha il suo mondo, sua moglie, le sue bambine, un campo su cui correre, un pallone da portare, una folla che lo adora. Ogni tanto a Haughton si presenta con borse piene di scarpe e vestiti per i bambini bisognosi, lui ha conosciuto da vicino la povertà e anche se ora vive meglio non dimentica le sue radici. Quando da ragazzo andava a pesca era per mangiare, non per passare il tempo. Non vuole una virgola in più dei suoi soldi, non sembra nato per essere l’atleta che si arricchisce, anche con merito, e che apprezza la bella vita, la fama e i dollari. La sua vita è già bella così.

Delaney in azione contro i Raiders

Il secondo anno è più difficile…

Dopo un anno da matricola veramente eccellente, nel 1982 cominciano i problemi. Il campionato di Joe Delaney è del tutto anonimo, sia a causa dello storico sciopero dei giocatori che tagliò a nove le partite di regular season, sia a causa di un intervento necessario per rimediare ad un distacco della retina. Ma Joe è fiducioso nel suo team e nei suoi mezzi, fisicamente è ancora ben integro e dopo il campionato comincia ad affrontare la preparazione con la solita passione, anche perchè nel frattempo la concorrenza nel ruolo è aumentata, vista l’esplosione di Marcus Allen e l’imminente arrivo di due prospetti interessanti quali Eric Dickerson e Curt Warner. Herschel Walker non verrà, i soldi di Trump hanno avuto la meglio e il meraviglioso tailback di Georgia andrà a buttare via il suo tempo ai New Jersey Generals.

Ma sul suo futuro erano tutti d’accordo. Joe era la stella più brillante della sua squadra e potenzialmente uno dei migliori runner della NFL. Di sicuro il più veloce, tempi alla mano. La sua carriera era pronta per decollare davvero.

Monroe, Louisiana, 29 giugno 1983.

Prima dell’inizio dei training camp, i giocatori di solito passano un po’ di tempo lontano dalle strutture delle squadre, a meno di necessità particolari quali riabilitazione o richieste di coach e trainer. Joe va con un po’ di amici a Monroe, dove è stato invitato all’inaugurazione di un nuovo parco divertimenti, in cui stanno costruendo anche qualcosa di simile a una piscina. Appena novanta miglia da Haughton, ci va con qualche amico e con l’idea di firmare un po’ di autografi e divertirsi.
Fa caldo, a fine giugno. E in Louisiana c’è quel caldo umido che si attacca addosso, che fa sudare anche i pensieri dentro la testa. Joe è lì, a ridere e scherzare con gli amici. Poco lontano c’è un pond, uno stagno, che non è destinato alla balneazione ma non è neppure stato recintato o interdetto all’accesso dagli organizzatori dell’evento.

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Qualcuno sta lì semplicemente a bagnarsi i piedi, qualcuno si avventura anche oltre i limiti consigliati dalla prudenza e dal buon senso. Quando ci sono in mezzo bambini e ragazzi, il buon senso dovrebbe essere una prerogativa degli adulti. Fatto sta che tre ragazzini fra gli otto e gli undici anni si avventurano nel laghetto, non sanno come sia fatto il fondale, soprattutto non nuotano bene e l’acqua dolce, l’acqua piovana raccolta da quello stagno, non tiene a galla come l’acqua di mare. Una buca, un avvallamento e manca la terra sotto i piedi dei tre. Urla di aiuto strozzato, panico tra le persone, qualcuno va a chiamare la polizia, qualcuno cerca di procurarsi bastoni e corde per riprenderli.

Monroe, lo stagno maledetto

Qualcun altro però non si pone domande in un momento del genere. Fa quello che gli dice il suo cuore, quei ragazzi se la stanno vedendo brutta davvero e anche se non sa nuotare è un uomo, e forse in quel momento è più di un normale uomo, perchè sta mettendo la vita di altri davanti alla sua, la vita di un marito e un padre. Si toglie rapidamente gli abiti, alla prima persona che incontra dice “Signora, mi tenga il portafoglio. Se non arrivo tra un paio di minuti mandi a chiamare aiuto”. Non ha mai nuotato davvero, si è sempre e solo rinfrescato con l’acqua all’altezza della cinta. Raggiunge il punto dove si trova il primo dei tre ragazzi, che sente una mano forte che lo tira su e annaspa con lui in quello specchio d’acqua sporca e maledetta. Non si sa come, riesce a riportare il ragazzino in un punto dove ormai possono prenderlo gli altri, vicino alla riva, dove si sente il fondo con i piedi. Il ragazzino è salvo, ma ci sono gli altri due. Si getta di nuovo, lotta, si dimena, ma ha chiesto troppo a se stesso, specie per qualcosa che nella vita non ha mai avuto la possibilità di fare, perchè magari una famiglia poteva anche non avere i soldi per mandarlo in piscina, ammesso che avesse voluto. Uno dei due ragazzi viene ritirato su, ancora grazie ai suoi sforzi, ma morirà in ospedale. Il terzo ragazzo e lo sfortunato, generoso soccorritore restano lì sul fondo, i loro corpi senza vita vengono tirati su dalla polizia, che nel frattempo era arrivata con un minimo di equipaggiamento.

La signora passa allo sceriffo il portafoglio con i documenti, che permetteranno di identificare e di riconoscere Joe Alton Delaney, stella dei Kansas City Chiefs, che ha appena dato la sua vita a ventiquattro anni per tentare di salvare tre sconosciuti che stavano annegando.

La tragedia di Monroe, 29 giugno 1983

Il dono di Joe

In quell’assurdo incidente perdono la vita Joe Delaney e due dei tre ragazzini, Harry Holland e Lancer Perkins, entrambi undicenni, inghiottiti da una buca enorme in quel maledetto stagno pieno di acqua piovana. LeMarkits Holland, di otto anni, deve la vita al sacrificio di Joe, che non ha esitato un istante, nonostante a casa avesse la moglie e tre bambine piccole che non lo avrebbero più rivisto. Sua moglie Carolyn viene avvertita, le dicono che Joe ha avuto un incidente. Quando arriva in ospedale, le dicono che Joe è morto annegato alle due di quel pomeriggio. Lei non capisce cosa ci facesse suo marito in acqua, poichè non era quello il suo elemento. Le dicono che ha salvato una vita e ha provato invano a salvarne altre due, perdendo la sua.
Joe in quel momento non ci ha pensato un attimo.
Ha donato la sua vita per quella degli altri, ha dato una seconda possibilità a LeMarkits Holland, che purtroppo è finito in carcere per spaccio nel 2001. 
Questo Joe non poteva saperlo, ma ci viene da pensare che non si sarebbe fermato comunque, in quel maledetto torrido pomeriggio.

Tremila persone presenziarono il 4 luglio ai suoi funerali, nella piccola e depressa Haughton. Molti giocatori dei Chiefs con una rappresentanza della famiglia Hunt (la proprietà della squadra), increduli e devastati nel morale. La moglie, conosciuta e sposata ai tempi dell’università, le tre bimbe. La folla non poteva entrare nella piccola chiesa di Haughton, dove Joe aiutava il prete da ragazzo e la cerimonia si tenne nel caldo opprimente della palestra dei Buccaneers.

Pochi giorni dopo, il 15 luglio, il vicepresidente George H. Bush lesse alla comunità le parole con cui il presidente Ronald Reagan conferì a Joe Delaney l’onorificenza della Presidential Citizens Medal

Ha compiuto il sacrificio estremo, anteponendo la vita di tre ragazzi alla sua incolumità personale. Un esempio supremo di coraggio e compassione. Questo giovane brillante e talentuoso ha lasciato un esempio e una eredità spirituale per tutti gli Americani

Parole di sua moglie Carolyn

Ora Joe ha un nipotino che gioca in quella high school. Corre come lui, riceve come lui, sorride come lui. Lo chiamano Little Joe. Quando lo vedo giocare ho le lacrime agli occhi.

Little Joe

Carolyn non ha pensato troppo a rifarsi una vita, anche dopo aver perso il marito in età così giovane. Ha raccontato di essere uscita un paio di volte con altri, ma il confronto con lo spessore umano del suo Joe era improponibile:

I just keep comparing them to Joe, and they can’t stand up. Nobody in the world is like my Joe.

A Kansas City nessuno si è dimenticato di Joe, della sua classe, del suo spirito di squadra. Nel 1983 i Chiefs misero una patch con un’aquila con il numero 37 sulla spalla della divisa.

Alcuni tifosi dei Chiefs, in collaborazione con la Croce Rossa, istituirono la 37ForeverFoundation, che sovvenzionava dei corsi di nuoto per bambini senza possibilità economiche, ma purtroppo nel 2006 questa meritoria attività è cessata per mancanza di fondi.

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La sua maglia numero 37, sebbene non ritirata ufficialmente a causa della brevissima carriera, non è stata più indossata da nessun giocatore dei Chiefs e nel Ring of Honour dell’Arrowhead Stadium c’è il nome di Joe, a ricordare a tutti la breve storia di questo giovane eroe.

Raccogliendo spunti per questa storia, la conclusione migliore che si può trovare è quella di Rick Reilly in un breve articolo del 2003 su Sports Illustrated:

Quando nella pagina dello sport vi siete stufati di leggere notizie di guida in stato di ebbrezza, di mogli maltrattate e prodezze simili, fermatevi un attimo per ricordarvi di Joe Delaney, che nel lampo di un istante in cui serviva un eroe, non si è fermato a chiedersi il perchè

Not your ordinary Joe.

In memoria di Joe Alton Delaney (1958-1983)

 

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Mauro Clementi

Curioso esempio di tifoso a polarità invertita: praticamente un lord inglese durante le partite della Roma, diventa un soggetto da Daspo non appena si trova ad assistere ad una partita di football. Ha da poco smesso lo stato di vedovanza da Marino. Viste le due squadre tifate, ha molta pazienza.

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