I Seahawks della Legion of Boom in retrospettiva

Vorrei usare una citazione di qualche mente decisamente più brillante della mia come incipit, ma mi sono appena ricordato di odiare profondamente tutto ciò che deve essere citato alla lettera fra delle virgolette: credo che, tutto sommato, esordire con un «si stava meglio quando si stava peggio» sarebbe stato alquanto fuori luogo in questo periodo storico, poiché stiamo pur sempre provando ad uscire una volta per tutte da una pandemia.
Gli anni delle superiori sono probabilmente il peggior momento della vita per moltissima gente, insicurezze ed incapacità di gestire la pressione sociale soffocano quotidianamente tantissimi ragazzi e ragazze e, in tutta sincerità, quel periodo della mia vita non mi manca per niente: ripensando alle superiori, però, due cose sono in grado di strapparmi sinceri e nostalgici sorrisi così rinfrancanti da farmi rimpiangere quei tempi decisamente bui.
La prima cosa è in realtà una persona, ed è la mia amica Matilde – che palesemente non leggerà mai questo articolo -, l’altra i Seattle Seahawks: ma come Mattia, i Seattle Seahawks?
Come posso parlare di Seattle Seahawks quando, nel febbraio 2013, ho avuto il privilegio di vedere i miei Ravens sorprendere la NFL e mandare in pensione Ray Lewis con un Lombardi?

Sinceramente non lo so, trovare una spiegazione razionale non è affatto facile, ma mentre qualche notte fa dedicavo gli ultimi pensieri lucidi prima del dormiveglia ai Seahawks ho avuto una mezza epifania: senza di loro, quasi sicuramente, la NFL non avrebbe avuto modo di diventare uno dei cardini della mia esistenza.

https://twitter.com/SONTSeattle/status/1381984782163140612

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Questa retrospettiva è ovviamente edulcorata dall’emotività e dalla soggettività e, probabilmente, dal fatto che mettendo insieme e riordinando i pensieri per comporre questo articolo mi sono reso conto che in più occasioni avrete modo di leggere e rapportarvi con il Mattia sedicenne/diciassettenne, non con quello che vi parla di Cousins come GOAT: questa è la magia di quei Seahawks.
No, non mi interessa il successo, poiché malgrado l’incommensurabile impatto della Legion of Boom i Seahawks non erano reduci da un ventennio “a la Browns”, dal 2004 e 2007 hanno dominato la NFC West arrivando anche al Super Bowl nel 2005, nel 2010 ci hanno regalato una delle azioni più iconiche della storia della NFL quando Marshawn Lynch si è trasformato in Beast Mode per la prima volta in carriera, e, in generale, non sono mai stati una pessima squadra.
Il 2011 è stato un anno piuttosto anonimo ma necessario, in quanto per rendere più interessante la loro storia era indispensabile un’annata del genere, un’annata che se paragonata alla seguente ci permette di individuare con estrema precisione lo spartiacque fra il “prima” ed il “dopo”.

Non sono uno di quegli appassionati che sbrodola guardando gli outfit dei giocatori o che perde tempo a partecipare a simposi sugli scarpini indossati da Odell Beckham Jr., ma come in altri aspetti della vita l’occhio vuole la sua parte: nel 2012 i Seattle Seahawks si sono resi protagonisti di uno dei più fortunati redesign mai visti nel mondo sportivo.
Vedete, quell’anno lo sponsor tecnico della NFL è diventato la Nike sostituendo la Reebok e, fra le varie novità da loro lanciate, la nuova maglia dei Seattle Seahawks è stata probabilmente quella che ha riscosso più successo: il Mattia sedicenne rimase folgorato dalla combinazione di colori, dal perfetto matrimonio fra il navy dell’oceano ed il verde neon tributo alle foreste che rendono unica la regione che li ospita.
I ghirigori sui pantaloni, poi… Quelli, molto semplicemente, ai tempi erano la cosa più stilosa che io avessi mai visto e, presa nel suo insieme, la loro divisa blu era insuperabile: nulla potevano lo storico fascino di quella dei Packers, l’elettrizzante entusiasmo emanato da quella azzurra dei Chargers o l’eleganza di quella rossa dei Chiefs, i Seattle Seahawks non avevano alzato la proverbiale asticella, l’avevano spedita in orbita.

Non bastano solo delle belle maglie per erigersi ad icone, serve qualcuno che le riempia e che le trasformi nell’incubo delle altre trentuno franchigie e Seattle, in tempo record, è riuscita ad assemblare un roster ricolmo di talento, rabbia e carisma: hanno trovato un franchise quarterback nel sottodimensionato Russell Wilson, uno dei running back più fisici e duri ad aver mai calcato il gridiron in Marshawn Lynch ed un paio di ricevitori sottovalutati – e perciò di una cattiveria raramente vista nella posizione – principalmente a causa di qualche centimetro mancante in Doug Baldwin, Golden Tate e Jermaine Kearse, aiutati dall’incredibilmente dimenticato veterano Sidney Rice.
Quei Seahawks, però, sono passati alla storia principalmente grazie al reparto difensivo, un reparto che viene spesso accostato a quello dei Ravens del 2000 o dei Bears dell’85, la Legion of Boom.

La storia dei vari Sherman, Chancellor e Thomas è cosa nota e raccontarvi di come Sherman sia riuscito a trasformare in carburante il fatto di essere stato selezionato al quinto round non è lo scopo del mio articolo, in quanto vorrei provare a raccontarvi la loro importanza nel mio rapporto con la National Football League.
Ora sono molto più cinico e, normalmente, quando un giocatore alza un po’ troppo la cresta mancando di rispetto agli avversari – leggasi “Juju Smith-Schuster” – prego che il karma presenti il conto quanto prima al fine di impartirgli un’importante lezione su rispetto ed umiltà, ma il momento in cui mi sono reso conto che quei Seahawks fossero qualcosa di diverso è stato dopo la sorprendente vittoria sui Patriots di Tom Brady, quando Sherman ruppe il Twitter postando una foto che ribaltò dalla sedia il Mattia sedicenne e che vi posterò qui sotto.

Non serve aggiungere altro.

Ora, “scrivendo di football” a venticinque anni d’età probabilmente avrei denunciato il tutto bollando Sherman come esaltato, anti-sportivo o, peggio, bulletto che aveva disperatamente bisogno di attenzioni rischiando però di attirare quelle sbagliate e, quindi, di diventare il nemico pubblico numero uno ma a quei tempi una scelta del genere mi sembrò più che adeguata, un modo innovativo ed epico di annunciarsi al mondo, un modo intelligente per sfruttare le potenzialità offerte dai social network ed accrescere l’offerta del football americano che, a quel punto, non era più un qualcosa circoscritto alla domenica, al lunedì sera ed al giovedì sera ma un vulcano pronto ad eruttare interessanti cinguettii ad ogni ora della settimana.
Da quel punto, per loro e per la NFL, nulla fu più come prima.

Seattle, per il seguente lustro – circa – diventò probabilmente la squadra più forte e consistente della NFC, una squadra contro la quale chiunque avrebbe avuto modo di misurare le proprie ambizioni in quanto dare battaglia ai Seahawks o sconfiggerli era un qualcosa che certificava lo status di contender dell’avversaria di turno.
La Legion of Boom, nel frattempo, continuava a scrivere pagine di storie annullando i giochi aerei avversari in un’epoca nella quale muovere le catene via aria sta diventando sempre più facile – ed incentivato -: Sherman eliminava dall’equazione un lato del campo, Thomas, il miglior center fielder del ventunesimo secolo dopo Ed Reed, copriva acri essendo ovunque mentre Chancellor portava il “boom”.
Chancellor era il collante dell’intero reparto difensivo, un leader sensazionale la cui intelligenza tattica andava spesso a mettere una pezza agli eventuali errori di Thomas quando i suoi istinti lo tradivano: oltre che questo, Chancellor era uno dei placcatori più violenti e temuti della lega, un de facto linebacker in grado di cappottare chiunque, indipendentemente dal ruolo.
Una delle cose che ricordo più nitidamente del loro trionfo al Super Bowl è una mazzata tremenda di Chancellor a Demaryius Thomas che, poveretto, stava correndo lateralmente nel tentativo di bruciare un paio di difensori e guadagnare il primo down: Chancellor, con quel tackle, ci anticipò cosa avremmo visto per i successivi 55 minuti.

Ora che mi reputo un vero appassionato NFL tendo a storcere il naso dinanzi al tentativo della lega di espandere il proprio bacino d’utenza e diventare sempre più “pop” in quanto tradimento a noi sedicenti puristi, ma nel 2012 fu proprio la dimensione pop dei Seahawks a permettermi di giurare fedeltà eterna a questa disciplina; la Legion of Boom non poteva nascere in un momento migliore, in quanto l’esplosione dei sempre più pervasivi social media permise loro di essere costantemente in “prima pagina” grazie a dichiarazioni, tackle violenti e statistiche: ricordo molto nitidamente che su Twitter, in quegli anni, non passava giorno senza che si parlasse dei Seahawks poiché Sherman aveva detto qualcosa su qualcuno o perché la domenica precedente erano riusciti ad annullare il passing game di una determinata squadra ed a far vivere al quarterback avversario la peggior giornata della propria stagione o, in alcuni casi, carriera.
Ciò che li rendeva unici non era il semplice fatto che riuscissero a dar manforte alla – percepita – arroganza dominando domenica dopo domenica, ma che in qualche modo fossero diventati qualcosa più che un semplice reparto di una squadra di football, ma una sorta di gruppo di supereroi uscito da un fumetto o da un film.

Erano tempi completamente diversi sia per me come individuo che per la società, non saprei dirvi come potrebbe essere recepita la Legion of Boom nel 2021, ma quei Seahawks sono stati una manna dal cielo per la NFL e per tutti noi, sono saliti alla ribalta nel miglior momento possibile: tra l’altro, aspetto marginale fino ad un certo punto, in quegli anni il ciclone Macklemore – nato e cresciuto a Seattle – stava sconquassando il mondo della musica ed il ben sviluppato rapporto fra il rapper ed i Seahawks – soprattutto con Pete Carroll – può aiutare un neofita a capire l’unicità di Seattle come città e dei Seahawks come franchigia. 

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Forse in questo momento sono alterato dall’emotività, perciò prendete ciò che sto dicendo con le pinze – sorrette a loro volta da ulteriori pinze – ma in un certo senso quei Seahawks sono come i Packers di Lombardi, una squadra che ogni appassionato NFL mediamente saggio – indipendentemente dalla propria fede – apprezza e di cui riconosce con lucidità l’importanza storica, poiché malgrado in tanti momenti sia stato veramente facile odiarli – soprattutto se si tifa per i ‘Niners – non possiamo essere creduti se affermiamo che non ci manchino almeno un po’.

L’incredibile mix fra divise innovative e spettacolari, il travolgente calore emanato dal CenturyLink Field – ora rinominato Lumen Field -, l’ascesa di Russell Wilson nell’Olimpo dei quarterback NFL, l’inspiegabile swag di Pete Carroll che malgrado l’età – è l’allenatore attualmente più anziano della NFL! – trasuda californietà da ogni poro e la brillantezza, la violenza, la sfrontatezza e la rumorosità della Legion of Boom ha dato origine ad un qualcosa senza precedenti che probabilmente non avrà eguali nel futuro di questa lega e disciplina: quei Seahawks sono stati un patrimonio per tutti noi tifosi, un motivo d’orgoglio che ci permette di affermare “io li ho visti” con la consapevolezza di aver assistito ad un vero e proprio unicum.

Non saprei spiegarvi il motivo di questo attacco di nostalgia, forse è colpa dell’offseason e dell’odiosa astinenza da football, ma ho avuto modo di realizzare come questa compagine abbia segnato una generazione permettendo a migliaia – forse milioni – di giovinetti o neofiti come lo ero io ai tempi di avvicinarsi, infatuarsi e successivamente innamorarsi di questo sport e probabilmente è proprio per questo che ne sento così tanto la mancanza, anche se nel mio armadio è presente un singolo indumento che mi permette di rivivere la loro epopea ogni giorno con un semplice sguardo.
Sto ovviamente parlando del leggendario beanie dei Seahawks del 2013 che praticamente tutti noi – chi con vergogna, chi no – abbiamo acquistato ed a cui, intuitivamente, sono molto affezionato.

Il mio primo beanie NFL in assoluto, un pezzo immancabile nell’armadio di ogni appassionato.

Il fatto che un semplice cappello sia in grado di trasmettere vere emozioni la dice lunga sulla loro peculiarità, anche se sono consapevole che nostalgia ed ovvia idealizzazione possano aver contribuito a qualche iperbole di troppo: ciò nonostante, lunga vita ai Seattle Seahawks della Legion of Boom, la squadra che definito una decade di storia NFL.

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Mattia Righetti

Mattia, 27 anni. Voglio scrivere per vivere ma non so vivere. Quando mi cresce la barba credo di essere Julian Edelman. Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango malissimo.

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