Miami Dolphins 1972: la leggenda di Perfectville

“State spaventando i pesci”

Esterno. Lago in Alaska. Tre signori più vicini ai settanta che non ai sessanta in piedi in acqua. Canne da pesca in mano, stivaloni, pantaloni impermeabili, abbigliamento adeguato al clima.
Quello a sinistra comincia a rappare una rima sul fatto che solo con una simulazione al computer e con i filmati della NFL Films qualcuno potesse batterli.

Quello a destra ride sulla rima e sul pensiero.

Quello al centro dice “State spaventando i pesci”.

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Inizia così il documentario “The Perfect Backfield”, inserito nella collana “A football life”.
Il rapper è Mercury Morris, quell’altro Jim Kiick. Chi chiede il silenzio è Larry Csonka.

Costituivano il  backfield meglio assortito mai visto su un campo da football, forse il punto più forte dell’unica squadra priva di punti deboli in tutta la storia cinquantennale della NFL: i Miami Dolphins del 1972.

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Mercury Morris, Larry Csonka e Jim Kiick in Alaska

Non è facile spiegare il mito che circonda l’impresa della squadra della Florida. Ogni anno si scomodano tutti gli esperti di football per vedere se qualcuno potrà uguagliare un record che non potrà mai essere superato, quando cadrà l’ultima imbattuta, quando partirà la proverbiale bottiglia di champagne da Perfectville. Negli ultimi anni si è scomodata anche l’informatica, con il modello del Circle of Parity, ribattezzato più concretamente “Any Given Sunday Graph”, che rappresenta il fatto che in una stagione per quanto tu possa essere forte trovi sempre qualcuno che ti batte, e se passi il testimone a chi ti ha sconfitto il discorso si ripete: vale per tutte le trentadue squadre e rende bene l’idea sulla distribuzione del talento tra le squadre della NFL.

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Il Circle of Parity del campionato 2015

Il diagramma di questo campionato è stato completato quando i Falcons hanno battuto i Panthers 20-14. Lo stesso diagramma non esiste per l’anno 1972. Avrebbe un posto vacante: quello dei Miami Dolphins.

Ogni anno tutti i giocatori cercano di minimizzare la questione: “l’importante è la postseason”, “cerchiamo di conservare le forze e di evitare infortuni”, “è l’anello quello che conta”. Tutto condivisibile, d’accordo. Ma resta il fatto incontrovertibile che una sola squadra in cinquanta stagioni di NFL è riuscita a completare un campionato di sole vittorie.

Donald Francis Shula (1930 and counting…)

A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta la National Football League era ben diversa dal monolite attuale. Due leghe professionistiche distinte, la AFL e la NFL vera e propria si litigavano i migliori talenti e i migliori contratti televisivi, non paragonabili a quelli odierni nemmeno attualizzando il valore del denaro. La NFL primigenia, sovrapponibile alla attuale NFC, aveva anni di vantaggio in termini di prestigio e di appeal delle squadre. Era la lega di Vince Lombardi e di Tom Landry, era la lega dei Packers e dei Cowboys , dei Bears e dei Colts. La AFL era vista quasi come una lega  di serie B.

Il nome forte della AFL era quello di Lamar Hunt, proprietario dei Kansas City Chiefs. Hunt aveva fondato una franchigia nel Missouri dopo aver constatato, con l’esperimento dei Dallas Texans, che la concorrenza a Dallas con la NFL e con i Cowboys era veramente proibitiva. In estrema sintesi, le due leghe cominciarono ad annusarsi per un po’ fino a che non trovarono un accordo per cominciare a giocare insieme prima le sole finali, poi tutto il campionato secondo una formula che, sebbene adeguata alla crescita delle squadre e alle esigenze dei mercati televisivi, si è evoluta fino a quella odierna.

Inizialmente la NFL era indubbiamente più forte. I due primi Super Bowl (“NFL vs AFL World Championship”) dell’era moderna scrissero, in sostanza, l’epopea dei Green Bay Packers di Vince Lombardi. Il riscatto della AFL, che ovviamente stava seminando bene da tempo, arrivò con la vittoria dei NY Jets nel Super Bowl III. Tutte le voci sulla “Lega di Topolino” cessarono grazie alla performance di Broadway Joe Namath contro gli strafavoriti Baltimore Colts, che schieravano sulla sideline un giovane allenatore deciso e ambizioso: Don Shula.

Nel 1963 Shula divenne, a soli 33 anni, il più giovane Head Coach della NFL. Sulla panchina dei Colts produsse un record eccellente in regular season, meno nei playoff. Stava comunque costruendosi una robusta fama. Shula era un perfezionista, aveva carisma, era competitivo ai limiti della ferocia, sapeva scegliere e gestire i giocatori. Dal 1963 al 1969 costruì un record impressionante: 71-23-4. Una finale NFL e un Super Bowl persi. Ma il giovane allenatore dei Colts aveva destato gli interessi di più di una squadra.

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Miami ha un nuovo allenatore (1970)

Fondati nel 1966, i Miami Dolphins avevano passato i primi anni della loro storia in un semianonimato. Allenati da George Wilson, arrivarono alle soglie della stagione 1970 con un record complessivo di 15-39-2. Non un gran che.

Il proprietario Joe Robbie prese quindi quella che si sarebbe rivelata la decisione più importante della storia della franchigia, la scelta che influenzò i Dolphins e la NFL per i successivi venticinque anni. Robbie portò a Miami il giovane e ambizioso Shula, a costo di affrontare la perdita della prima scelta poichè i Colts li accusarono di tampering, anche se ufficialmente le trattative erano state avviate prima della fusione delle due leghe e probabilmente l’accusa era infondata.

I Dolphins del 1970 sembravano un insieme di giocatori senza manuale di istruzioni. Il nucleo era indiscutibilmente di  livello: insieme a Bob Griese, occhialuto e talentuoso QB da Purdue, l’attacco poteva schierare un backfield almeno interessante con i due runner Jim Kiick e Larry Csonka. Tra i ricevitori spiccava il talento assoluto di Paul Warfield, acquisito dai Browns. Linea d’attacco ancora in evoluzione, ma già benedetta dalla presenza della guardia Larry Little, uno dei più grandi di sempre nel suo ruolo e dall’aggiunta di due matricole: Jim Langer e Bob Kuechenberg.

In difesa già stava maturando il più famoso gruppo di anonimi della storia del football, come sarebbero stati definiti poco tempo dopo. Bill Stanfill e Manny Fernandez in linea, Nick Buoniconti, solido middle linebacker arrivato due anni prima dai Boston Patriots; nella secondaria c’erano due safety notevoli quali Dick Anderson e Jake Scott, numero 13, che riportava anche i punt.

Gli specialisti, sempre trascurati: un improbabile kicker cipriota, Garo Yepremian, portatosi molto avanti con la calvizie ma uno dei pochi che all’epoca centrasse i pali anche dalle cinquanta. Larry Seiple, punter: ricordiamoci di lui, se non altro perchè nella stagione 1969 aveva corso per 577 yard (migliore della squadra) e segnato 5 TD su corsa (migliore della squadra)… Non è un refuso, si trattava proprio del punter. A riportare i kickoff una terza scelta del 1969: Eugene Morris, che grazie alla sua velocità di base veniva ritratto in foto con ali ai piedi e di conseguenza soprannominato Mercury.

Prima stagione con Shula: 10-4, playoff. Subito. La chiave di volta del cambio di attitudine dei Fins di Shula poteva riassumersi in un unico concetto: lavoro duro. Quattro sedute di allenamento al giorno durante le quali (dice Manny Fernandez) non era neppure possibile andare a bere. E poi le sedute di tattica. Shula faceva lavorare la squadra anche dodici ore al giorno.

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Butch Cassidy and the Sundance Kid (Larry Csonka e Jim Kiick)

Parallelamente lo spirito di squadra si andava cementando: la storia più eclatante riguarda il backfield offensivo: Csonka e Kiick erano due superstar, giravano per Miami a cavallo nei panni di “Butch Cassidy and the Sundance Kid”, sfoggiando spettacolari baffoni anni Settanta. Morris però era troppo forte per essere usato solo come kick returner, Shula lo promosse nel backfield, diminuendo sensibilmente i palloni portati da Kiick. Non si scatenarono rivalità, non ci furono risentimenti. I tre fecero letteralmente squadra nella squadra, e questo modo di gestire le necessità del team sarebbe stato decisivo per quello che stava per succedere nei prossimi anni. Qualcosa che nessuna squadra sarebbe mai riuscita a ripetere, qualcosa che nessuno potrà mai superare.

Una sconfitta bruciante (Super Bowl VI, Cowboys 24 Dolphins 3)

I ritmi di lavoro imposti da Shula cominciarono a pagare molto presto. Già nel 1971 i Fins erano a pieno titolo la squadra più temibile della AFC. Conclusero la stagione col record di 10-3-1, vinsero il divisional contro i Chiefs nella partita più lunga della storia (82 minuti e 40 secondi), ma vennero umiliati dai Cowboys che schieravano Roger Staubach al suo meglio nella finale di New Orleans per 24 a 3, stabilendo il record poco confortante del minor numero di punti mai realizzati in un Super Bowl. Jake Scott giocò quell’incontro con la mano sinistra fratturata e durante la partita si ruppe il polso destro. Continuò a giocare comunque. Racconta Dave Hyde, nel suo libro Still Perfect! The Untold Story of the 1972 Miami Dolphins, che Scott portò gessi o tutori vari per tre mesi, durante i quali ebbe ad affermare “E’ quando devo andare in bagno che vedo chi sono i miei veri amici…”. Scott avrebbe avuto presto le mani a posto, pronte per la sua rivincita.

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Bob Griese. Super Bowl VI (Cowboys 24, Dolphins 3)

Durante le varie media session, Tom Landry definì la difesa di Miami “…that bunch of no name guys…“. Fantastico: Fernandez, Buoniconti e soci non dovettero neppure faticare per trovarsi un nickname, dopo un parere tanto illustre. No Name Defense era perfetto.

Ma su tutta l’aneddotica relativa alla finale venne fuori di nuovo la voce di Shula, sempre e immancabilmente l’ultima parola nel suo spogliatoio

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I nostri tifosi ci hanno comunque proposto di andare in parata per le strade di Miami. Non ci sarà nessuna parata, non si festeggiano le sconfitte. In futuro faremo questa cosa da vincitori.

Rage was turning into fury…

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Il controllo di Shula sulla squadra era ormai totale, sia in campo che negli altri settori. I Miami Dolphins erano in tutto e per tutto suoi. La religione del lavoro duro ormai non solo non era più in discussione, ma era accettata e condivisa integralmente da tutta l’organizzazione, perchè era chiaro che quello era il modo più sicuro per vincere più partite degli altri. La sconfitta contro i Cowboys per molti fu davvero “il momento peggiore di tutta la vita” , a sentire Manny Fernandez. Tutto quel lavoro non poteva fermarsi lì.

All’apertura del training camp tutti quanti sapevano quale era la loro missione. Ritornare al Super Bowl per vincere. Racconta Larry Csonka che Shula alzò subito l’asticella:

I believe we will go undefeated

Anche in presenza di qualche dubbio tra i giocatori, ovviamente dopo quella osservazione non volò una mosca. Aggiunse Csonka che forse non ci credeva neppure lo stesso Shula all’inizio, ma lo disse. Il pensiero tra i giocatori era ben riassunto dalla frase “Oh my God, this guy is possessed. He is the devil”.

Prima di campionato, i Dolphins vanno ad inaugurare l’Arrowhead Stadium di Kansas City e vincono per 20-10. Racconta Coach Shula che per far vedere agli avversari che il caldo infernale per loro non contava, la guardia Larry Little all’inizio del secondo tempo ordinò a tutta la squadra di raggiungere la sideline sprintando. I Dolphins del 1972 erano diversi da qualsiasi altra squadra mai vista prima (e dopo).

Primo test impegnativo alla terza giornata in casa dei Vikings. Per la prima volta nella sua carriera Larry Csonka venne messo in difficoltà da un placcaggio alla schiena durissimo del LB Roy Winston. The Zonk rimase a terra, i compagni temevano l’infortunio grave. Fortunatamente si limitò a quella sola partita. Miami rischiò la sconfitta, ma grazie ad un FG di Yepremian di 51 yard e a un drive capolavoro di Griese, i Dolphins vinsero 16-14 con una ricezione di Jim Mad Dog Mandich allo scadere.

Stava emergendo un dato particolare: oltre a non avere punti deboli, quella squadra aveva un punto forte davvero: il gioco di corsa. Tre runner di valore assoluto e davanti la migliore linea della lega. La fisica secondo Larry Csonka era semplice da spiegare: due corpi possono anche occupare la stessa posizione nello stesso istante di tempo, ma se quello più grosso e veloce sta andando da quella parte, quello più piccolo ha un problema. La spiegazione è un po’ empirica, ma Coach Shula ricorda che Csonka è stato l’unico runner della NFL ad essere penalizzato per violenza non necessaria su un placcatore, per un normale scontro di gioco quando con uno stiff arm spalmò a terra un linebacker dei Colts (Shula dalla sideline urlò “Great hit!”).

Al duo “Butch Cassidy and the Sundance Kid” si era poi aggiunto Mercury Morris, troppo forte per essere usato solo come ritornatore. Inevitabilmente Kiick cominciò a toccare meno palloni, veniva usato specialmente in situazioni di tipo Pass-Run, mentre Morris negli schemi Run-Pass (terminologia di Coach Shula). In sostanza Csonka era il punto fisso, Morris e Kiick due specialisti. Con le dovute proporzioni, per avere nella NFL di oggi un backfield di quel tipo servirebbero Adrian Peterson, LeShaun McCoy e DeMarco Murray. Nella stessa squadra. 

The Perfect Backfield
The Perfect Backfield

Contrariamente alle attese, fra i tre non ci fu mai nessun tipo di attrito: lo stesso Kiick, quello apparentemente più penalizzato dall’ascesa vertiginosa di Morris, mise da parte il suo orgoglio e si mise al servizio del gruppo; erano una vera e propria squadra nella squadra, ognuno esultava per i successi degli altri. Questo incastro sarebbe stato per gli avversari mortale, per i Dolphins perfetto.

Ma alla quinta giornata stavolta la tegola è grossa. Bob Griese si infortuna contro i Chargers, frattura della gamba destra. Lo stato d’animo della squadra viene ben riassunto in uno scambio a bordo campo tra i defensive linemen Stanfill e Fernandez:

Manny, mi sa che siamo nella merda…

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(Bill Stanfill)

Shula manda in campo uno dei suoi soldati più fedeli, quell’Earl Morrall che anche a Baltimore faceva da backup per John Unitas. A trentotto anni, nessuno si aspettava che questo giocatore avesse ancora benzina nel serbatoio. Per capire il clima, nello spogliatoio di Miami davanti all’armadietto di Morrall (più vecchio di tutti con uno scarto di almeno sette anni) i compagni avevano messo una sedia a dondolo con un plaid di lana, e avevano appeso una targhetta appena goliardica…

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L’armadietto di Earl Morrall…

Ma l’esperienza di un giocatore come lui in quel momento era assolutamente necessaria e Morrall si rivelò molto più di un semplice game manager.

Avrebbe poi detto Don Shula

Se parliamo di quarterback, nella mia personale Hall of Fame ci sono John Unitas, Bob Griese, Dan Marino ed Earl Morrall.

E’ sufficiente.

L’immagine che passava era quella di una squadra di Shula: all about business. Ma in Florida all’inizio degli anni Settanta non è ipotizzabile che un gruppo di giovani ricchi e famosi conducesse una vita tutta casa e allenamenti… Csonka e Kiick erano praticamente attori cinematografici, sempre circondati dalle groupies, Yepremian si metteva a cantare durante le interviste. Quando non buttava in piscina il cappellano della squadra, Manny Fernandez amava spendere tempo nelle Everglades a giocare con gli alligatori a mani nude: ne nascose uno vivo nell’ufficio di Shula, dotato comunque di senso dell’umorismo anche se non lo mostrava spesso…

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Manny and the Gator…

Per connotare meglio Manny Fernandez, in quel periodo il miglior interior lineman della lega, basti aggiugere che aveva un deficit grave alla visione periferica

Io cerco di battere chi ho davanti, se il QB lancia io vedo sì e no una macchia scura. Mi servirebbe un pallone in braille…

(Manny Fernandez)

Arrivato a Miami nel 1968 come undrafted free agent, rimase calamitato dal clima latino della città, sebbene non sapesse neppure mezza parola di spanglish. Dal punto di vista tecnico, sebbene fosse veramente un giocatore dominante, era misconosciuto e sottovalutato: proprio come il resto della No Name Defense.

The No Name Defense
The No Name Defense

Come l’attacco, il gruppo era eccezionalmente coeso: la cura del dettaglio era maniacale e racconta Fernandez che la loro intelligenza di gioco e la loro applicazione era tale che  in tutto il campionato quella difesa compì in tutto e per tutto nove errori dovuti a cali di concentrazione o errori di valutazione.

La stagione procede al meglio. Il treno è in corsa: alla nona giornata travolgono 52-0 i Patriots di Jim Plunkett. E’ la centesima vittoria in carriera per Shula che liquida la cosa sbrigativamente: “Non conta nulla, fino a che non vinceremo un Super Bowl”.

Con la guida solida di Morrall, con il miglior backfield della lega e con la No Name Defense che dominava gli avversari, Miami concluse la regular season imbattuta.

I Dolphins ormai non possono più nascondersi: nel 1972 è in corso la guerra del Vietnam, Nixon è sopravvissuto al Watergate ed è stato rieletto con una valanga di voti. La somma di quell’anno secondo Time è Don Shula, che finisce sulla copertina di dicembre.

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I Dolphins sono sulla rampa di lancio. Shula è riuscito a lavorare in modo superbo sulle motivazioni del gruppo anche quando tutto quanto stava andando al meglio, per evitare ricadute sulla tenuta di una squadra tutto sommato anche giovane. Ogni vittoria paradossalmente diventava una insidia. Uscire imbattuti dalla regular season e perdere durante i playoff o peggio al Super Bowl sarebbe stato un fallimento difficile da assorbire, per tutti. E Shula non avrebbe tollerato una singola sconfitta, quell’anno.

I playoff ormai erano pronti. Miami era la prima squadra nella storia ad aver vinto tutte le partite della regular season, aveva l’ovvio ruolo di favorita nella propria conference. Il divisional round di quell’anno passò principalmente alla storia per la Immaculate Reception di Franco Harris contro gli Oakland Raiders. In quel turno i Dolphins faticarono davvero tanto per sconfiggere in casa i Cleveland Browns. Partita costantemente sul filo, Miami è sotto nel punteggio nel quarto periodo. Serviva un gioco risolutivo, l’incubo dell’eliminazione in casa al primo turno di playoff si stava materializzando. Risolve la partita Jim Kiick, e l’immagine che resta è quella di Mercury Morris in panchina che lo solleva da terra per festeggiare la vittoria di squadra. Il nocciolo è lì. Oltre ad essere forti, i Dolphins sono una squadra. 

Per le regole vigenti nel 1972, l’home field advantage veniva deciso sulla base della division, quindi i Miami Dolphins andarono a giocarsi il Championship in casa dei Pittsburgh Steelers. Fino al momento del kickoff, Fernandez cercava di contattare la moglie in Florida, perchè era caduto un aereo e lei faceva la hostess. Si era salvata per caso, per un cambio di turno.

Con la partita sul filo, i Dolphins mandano in campo Larry Seiple per il punt. Racconta Manny Fernandez che di solito Shula dava a Seiple molta libertà di scelta. Seiple nel 1969 era riuscito a correre 577 yds da situazioni di punt, quindi sapeva come comportarsi. Shula gli aveva detto “Tutte le volte che credi di poter chiudere il down, per noi va bene. Al tuo primo errore… You better make it…“. Allo snap Seiple inizia il movimento del punt e nota che tutta la defensive line degli Steelers (in procinto di diventare la famosa Steel Curtain) gli sta voltando le spalle. Vede anche un bel corridoio libero e si butta come ha fatto tante volte. Non avesse chiuso il down, gli Steelers, già in vantaggio, avrebbero avuto palla in una situazione di campo disastrosa per Miami. Seiple guadagnò trentacinque yard su corsa e tenne vivo il drive, chiuso in TD da Csonka su passaggio di Morrall. Ma all’intervallo, sebbene sul 7-7, le cose non andavano come al solito, l’attacco era involuto. Shula prese la decisione di rimettere in campo Griese e di togliere Morrall, l’uomo delle undici vittorie di fila.

He told me: Coach I don’t agree with you. I wanna go back in, but I respect your decision. That’s the kind of guy that he was…

(Don Shula)

Griese ritrovò subito il suo go-to guy preferito, l’immenso Paul Warfield (uno che ha tenuto una media di venti yard per ricezione in carriera…). Miami riprese decisamente la situazione in mano e per la seconda partita di fila fu Jim Kiick a mettere la partita in frigo.

Nella finale del Los Angeles Coliseum i Dolphins avrebbero incontrato in finale i Washington Redskins di George Allen. Con tutto che i Fins erano imbattuti, i Redskins erano favoriti di tredici punti

Dal football alla Storia: Los Angeles, 14 gennaio 1973, Super Bowl VII.

Il motivo per cui i Redskins erano favoriti in maniera così larga era paradossalmente lo stesso motivo della forza di Miami. Don Shula aveva costruito una macchina da guerra inarrestabile, ma aveva perso due degli ultimi quattro Super Bowl. Per blasfemo che possa sembrare, quindi,  il motivo del disrespect era proprio Shula. La preparazione della partita rasentò la paranoia. Poichè George Allen aveva una fama conclamata di maestro nel football espionage, Shula aveva praticamente militarizzato la facility di allenamento della squadra. La convinzione di tutti i giocatori era che quello era il loro giorno.

Bob Kuechenberg told me “Run behind me! You better stick your helmet in my ass because we will go straight into the end zone”.If I could go back with a time machine, I would go back to that moment.

(Larry Csonka)

Nei primi due quarti i Dolphins fanno subito capire le loro intenzioni e si portano sul 14-0, prima con un TD di Howard Twilley, pescato alla perfezione da Bob Griese con un lancio di 28 yard, e quasi all’intervallo Jim Kiick realizza il secondo touchdown con una corsa di una yard. In tutto il primo tempo i Redskins, favoriti di tredici punti, non sono mai arrivati oltre le 48 yard avversarie e quando ci sono arrivati Kilmer è stato intercettato da Buoniconti.

Howard Twilley: Miami 7, Washington 0
Howard Twilley: Miami 7, Washington 0

Miami va al riposo sul 14-0 e in totale controllo. I Redskins inesistenti, Kilmer sempre sotto pressione, Larry Brown (miglior corridore della NFC) reso praticamente inoffensivo dal dominio assoluto di Stanfill, Fernandez e Den Herder sulla linea di scrimmage. Griese ha lanciato poco, completando quasi tutto. Csonka corre in mezzo, Morris ai lati. Terreno, tempo e punti.

Washington produce il primo drive decente subito dopo l’intervallo, ma Knight manda largo il tentativo di FG di 32 yard. E riprende lo stesso copione. I Redskins letteralmente impotenti in attacco, Miami amministra con le corse e mangia tempo. Griese può permettersi il lusso di farsi intercettare e di regalare un touchback alla fine del terzo quarto.

Con quindici minuti sul cronometro, sopra di due TD nel punteggio, ma molto di più nella sostanza, probabilmente a bordo campo i giocatori dei Dolphins qualche brivido dovevano pur cominciare a sentirlo…

Ma i Redskins vogliono giocare la loro partita. Kilmer e Brown arrivano fino alla linea delle 6 yard avversarie, ma Jake Scott intercetta il lancio indirizzato a Charlie Taylor in end zone e riporta la palla per 55 yard. A cinque minuti dalla fine i Dolphins hanno palla a metà campo. Qualche corsa, per portare il kicker a distanza buona per un calcio che chiuderebbe davvero la storia: vincere 17-0 per arrivare a un record di 17-0, quasi scenografico come destino.

A 2:07 dalla fine quindi Yepremian entra in campo per un tentativo di 42 yard, che di fatto chiuderebbe la partita. Le cose non vanno così.

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“I kicked for a touchdown” (Garo Yepremian, 1944-2015)

Il calcio di Yepremian viene bloccato sulla linea, il kicker recupera la palla e tenta, non si saprà mai perchè, di lanciare in roll-out. La palla gli scappa maldestramente dalla mano, gli rimbalza addosso e viene raccolta in aria dal safety dei Redskins Mike Bass, che la riporta in end zone per il 14-7 che riapre inaspettatamente la partita a due minuti dal termine. Yepremian fece quasi tre passi per tentare di placcare Bass. L’intensità del tentativo fu in seguito descritta bene da Manny Fernandez, in una crisi di riso:

Garo, you are a bigger coward than I thought you were…

(Manny Fernandez)

Washington ebbe un ultimo possesso. Ma contro quella difesa non ci fu alcuna possibilità e l’attacco dei Redskins venne fermato sulle proprie 26

I Miami Dolphins erano passati di diritto nella leggenda del football. La prima, e finora unica squadra a completare la perfect season: diciassette partite, diciassette vittorie. La profezia di Shula, che aveva lasciato perplesso più di un giocatore, si era materializzata sotto il sole della California. Oltre le vittorie mistiche dei Packers di Lombardi, oltre la performance di Broadway Joe, oltre la forza dei Cowboys di Landry. I Miami Dolphins vinsero tutte le partite. La loro candidatura al ruolo di squadra più forte di sempre era lì, splendente, non attaccabile nei secoli. Don Shula uscì portato meritatamente in trionfo dai suoi: avevano appena completato una impresa di cui si sarebbe parlato tutte le volte che si parlava di football.

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Il trionfo di Coach Shula

The Perfect Legacy

Assegnare il premio di MVP per quella partita fu impresa ardua. Csonka aveva corso 112 yard con la più lunga di 49, Griese non aveva praticamente sbagliato nulla, Fernandez aveva distrutto la linea offensiva e il gioco di corsa dei Redskins, registrando diciassette placcaggi, spesso per una perdita di terreno. Alla fine il premio fu assegnato al safety Jake Scott, autore di due intercetti riportati per 63 yard

Jake Scott intercetta in end zone
Jake Scott intercetta Kilmer in end zone

I Miami Dolphins erano così padroni della propria forza da vincere anche il Super Bowl successivo, sconfiggendo i Vikings per 24-7 in una partita dominata integralmente dalle corse di Larry Csonka. Nelle stagioni successive in sostanza un posto nei playoff nel tabellone della AFC era praticamente assegnato a loro per diritto.

Per capire che quella squadra era davvero completa, ricordiamo che il ricevitore Warfield è stato messo al n.71 della lista dei cento giocatori più grandi di sempre. L’altro giocatore dei Dolphins presente in quella lista è ovviamente Dan Marino (n.25).

Don Shula si è ritirato nel 1996, detenendo il record per il maggior numero di vittorie in carriera con 347. In trentasei anni ha avuto in tutto e per tutto due stagioni con record perdente. Sarebbe arrivato al Super Bowl altre due volte, perdendo in finale prima contro i Washington Redskins di Joe Gibbs, poi contro i San Francisco 49ers di Bill Walsh. Quando si ritirò, su ventotto capi allenatori della NFL dodici erano stati suoi assistenti e uno era suo figlio Dave. In Florida c’è un tratto di autostrada intitolato al grande coach. E’ forse il nome più rappresentativo nella storia dei Dolphins, al di sopra anche di Marino. Serve altro per definire una leggenda vivente?

Per spiegarvi l’intelligenza di gioco del quarterback Bob Griese, ci rifacciamo alle parole dette da Jimmy Cefalo a Londra, durante la NFL experience 2014 prima di Raiders-Dolphins. Cefalo è il giocatore che ha ricevuto l’ultimo TD lanciato in carriera da Griese e il TD del record di Marino nel 1984. In quel periodo era incaricato del play-by-play per la radio ufficiale dei Dolphins, con Griese che faceva da color commentator.

Per capire la football mind di Bob, vi dico questo. In quei dieci o quindici secondi io devo raccontarvi cosa è successo. Nei dieci secondi successivi lui riesce a spiegarvi perchè è successo

Larry Csonka ha realizzato il suo sogno. Alla fine della sua carriera si è ritirato in Alaska, dove vive in mezzo alla natura. Ha fatto anche trasmissioni televisive di caccia e pesca.

Più dei singoli, quello che resterà indelebile di quella fantastica annata è proprio il concetto di squadra. Sono in vendita per beneficenza alcune maglie con il numero 72, la scritta “UNDEFEATED” e gli autografi dei protagonisti. Ho avuto personalmente il privilegio di vederne una esposta nello store Field of Dreams di Dallas: non è facile spiegare l’emozione, la sensazione di sentirsi davanti ad un pezzo di storia della NFL.

Bob Griese e Don Shula regalano la maglia ad un tifoso dei Bears
Bob Griese e Don Shula regalano la maglia ad un tifoso dei Bears

L’alone mistico di quell’impresa rischiava di essere oscurato nel 2008 dai New England Patriots, che sono arrivati a meno di un minuto dalla vittoria, ma i New York Giants riuscirono a completare uno dei più grandi upset nella storia del Super Bowl.

 

 

In quella occasione, una delle maggiori firme dell’abbigliamento sportivo americano riunì i reduci del 1972 in uno spot memorabile, uno dei tanti tributi ad una delle squadre più forti di tutti i tempi.

La squadra perfetta.

 

Fonti:

  • Dave Hyde, “Still Perfect! The Untold Story of the 1972 Miami Dolphins”
  • NFL Films, “A football life – The perfect backfield”
  • NFL Films, “America’s Game – 1972 Miami Dolphins”

 

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Mauro Clementi

Curioso esempio di tifoso a polarità invertita: praticamente un lord inglese durante le partite della Roma, diventa un soggetto da Daspo non appena si trova ad assistere ad una partita di football. Ha da poco smesso lo stato di vedovanza da Marino. Viste le due squadre tifate, ha molta pazienza.

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