[SB XLVI] Dalla panchina dei Patriots
La sconfitta dei Patriots nel Super Bowl quaranteseiesimo avrebbe molti aggettivi atti a spegarla. Impotente, timida, deludente, agoniosa. Ma è soprattutto inevitabile. La squadra del tre volte campione Bill Belichik poteva vincere questa partita, questo ennesimo Vince Lombardi vendicandosi della sconfitta patita 4 anni or sono in quel modo inverosimile? Semplicemente no.
Dal primo drive tutti i riflettori sono puntati sul running game dei campioni della NFC. Se riusciranno a stabilirlo, saranno guai per New England. Ciò non riesce completamente e Eli Manning è costretto ad accontentarsi di un punt, lasciando comunque intravedere che per vie aeree potrebbe ipotecare la contesa facilmente. Il primo passaggio della serata il suo alter ego con il 12 lo lancia nel vuoto, prende un intentional grounding in zona di meta e regala due punti ai Giants. Pressato dalla Nascar Defence degli avversari, Tom Brady si rende conto che qualcosa dovrà concedere. Inevitabile.
Così come lo è il seguente tochdown, dopo il drive in cui l’attacco avversario acquista quella dimensione in più che gli garantisce il vantaggio tattico. La difesa di Jerod Mayo è in preda dell’avversario, con il linebacker che proprio sull’ultima giocata dimostra quanto il suo allenatore abbia preparato bene la partita, ma non magnificamente come è solito. Manning mira Victor Cuz mentre proprio Mayo si gira verso Hakeem Nicks per fermare un passaggio mai arrivato. Come il leader della difesa in blu da le spalle alla partita, così sembra fare anche il destino dei Patrots. Infatti, gli avversari, con il pallone in mano, succhiano consistenti parti del cronometro, lasciando proprio Brady in panchina per molto tempo, denaro contante per le speranze della Grande Mela.
Quando però al 12 viene ridato il pallone, con 96 yarde da coprire prima del 10 a 9 finale del primo tempo, i patrioti si risvegliano. Con Rob Gronkowski ridicolamente confinato ad un ruolo di specchietto per allodole poco credibile azzoppato com’è, tocca a Wes Welker e Danny Woodhead muovere la palla. Non un lancio da più di 10 yarde, c’è da adottare il solito canovaccio sempre vincente della two minute offense. No-huddle, un paio di corse di BenJarvus
Green-Ellis, tutto il campo mangiato in pochissimo tempo. Il metodo esatto per vincere la partita contro una pass rush del genere, continuamente presa in contropiede.
Furbescamente, i Patriots hanno il primo possesso della ripresa. Stessa storia, questa volta i bloccaggi downfield fanno la parte del leone e permettono buoni guadagni. Addirittura si rivede Chad Ocho Cinco, con una ricezione che mancava da tempo, dopo essere stato addirittura estromesso da un pai odi partita nell’ultimo mese.
Sembra filare tutto liscio, perchè Brady alza il livello del suo gioco, testimone i 16 passaggi consecutivi a bersaglio del QB californiano, nuovo record per il Super Bowl. La segnatura di Aaron Hernandez è facile, ma certo i Giants non si dimenticano di intimidire: placcaggi durissimi, che fiaccano il fisico e la mente dei bostoniani. Brady esce dal campo con uno dei suoi gridi da Hulk, passa in rassegna tutti i protagonisti del drive appena passato, abbraccia Chad e gli dice: “Te l’ho detto che vincevamo il Super Bowl!”. Sembra impossibile che soli quattro minuti dopo, sul 12 a 17, proprio Tom Brady cada sulla
spalla sinistra, quella infortunata, e la aggravi, trascinandosi sulla sideline a testa bassa.
E’ l’inzio della fine, i Giants prendono coraggio, Brandon Jacobs e Ahmad Bradshaw sembrano la buona coppia di runningback che probabilmente non
sono, il piccolo Manning inanella passaggi precisi uno via l’altro. Il tempo corre ancora e New York si avvicina, 15 a 17.
Per quanto la difesa tenga in red zone, per quanto Rob Ninkovich e Sterling Moore, due reietti a dir poco, facciano registrare giocate speciali in momentidifficili, qualcosa si è rotto. La linea offensiva fa un ottimo lavoro, i tackle spingono gli end alle spalle di Brady, le due guardie tengono egregiamente, ma ad alzare il livello è Michael Boley che ferma il primo passaggio del drive successivo. è Chase Blackburn che salta davanti a Gronkowski, cercato in modo quasi nervoso dal suo QB, e che non può opporsi ad un intercetto figlio della ingiustificata fretta proprio del suo capitano. Che tradisce, per una volta, nel momento del bisogno, lanciando lungo al suo claudicante tight end una palla irricevibile. Intercetto inevitabile quindi, con i difensori in bianco e rosso che tornano ad avere la brillantezza fisica per silenziare l’attacco patriota ed i db che non hanno mai smesso di giocare duro.
La differenza nel linguaggio del corpo dei due QB è allarmante. Dal 10 di New York non traspare il minimo sussulto, dal suo collega rivale qualsiasi cenno di insicurezza. Gli occhi sbarrati, come in un incubo, la testa bassa seduta sulla sideline, poca comunicazione con i suoi compagni. Belichik si pettina nervosamente. Non è perso, ma gli da fastidio sapere di poter perdere una partita dopo aver imbavagliato il mioglior ricevitore avversario. Gli da fastidio vedere la squadra avversaria più pronta sui due fumble che potevano cambiare le carte in tavola, gli da fastidio l’incredibile ricezione di Maro Manningham fuori dal corpo, coperto da almeno tre dei suoi. Gli da fastidio non poter fare nulla per sottrarsi al suo destione nella notte di Indianapolis.
Fortunatamente c’è però ancora vita. Jake Ballard si infortuna da solo, la palla torna ai suoi e con 5 minuti sul cronometro della partita si può ancora vincere, con due di vantaggio. Ci pensano Brady e Welker a rovinare tutto. Il passaggio dell’hall of famer è troppo largo, il salto del numero 83 è fuori tempo, la palla cade, in una giocata chiave. Corey Webster da lì a pochi secondi attacca bene la palla, riconsegnandola dopo il punt al suo QB.
Il resto è una storia che chi vi scriverà dalla sideline dei Giants vi racconterà meglio di me, dalla parte dei Patriots c’è da annottare l’immensa lucidità di far segnare Bradshaw nel più cacofonico dei touchdown e ridare la palla al proprio QB. Che domenica notte era solo un buon QB, e che appunto non riesce a regalare la vittoria ai suoi come mille altre volte.
Gli sguardi di Justin Tuck, Osi Umenyiora, Jason Pierre-Paul sono in modalità “lupo”, quello di Brady è su “agnellino”, se lo mangiano un paio di volte, prima dell’hailmary finale, che cade a 20 centimetri dalle mani protese dal lentissimo Gronkowski. Come dicevamo, inevitabile. è sconfitta, una di quelle che lasciano il segno.
Come quella contro i Colts nel 2006, o quella con i Ravens due anni fa. Anche lì i Patriots erano defunti, molli, cocciuti sul loro gameplan, prevedibili. E si sono sempre rialzati. Trovando un’arma in più ogni volta. E mentre la gloria investe i rivali come i coriandoli che cadono dal soffitto, e Eli Manning diventa un candidato per Canton come il suo coach, New England pensa già al 2012, a settembre, quando si tornerà in campo. Altri modi per difendersi non li sanno, se non vincere, per una squadra che ha ancora, inverosimilmente, moltissimo da dimostrare.
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