[SB XLIV] Dalla sideline dei Saints

sbSolo tre parole contano nella notte di New Orleans : “CAMPIONI DEL MONDO”.
Alla prima partecipazione al gran ballo i Saints si portano a casa il Lombardi Trophy dopo aver sconfitto i Colts nel Super Bowl 44, o XLIV se amate la numerazione romana, in una partita non bellissima, ma molto tirata ed equilibrata.
Ci si aspettava una serie di fuochi pirotecnici da parte dei due attacchi stellari, ma le difese sono state molto brave a limitare i big plays, anche se alla fine Manning ha passato le 300 yards e Brees non ci è arrivato per poco.
Sono state due settimane intense per New Orleans, due settimane passate da sfavoriti, ma anche da vivere in ogni momento, per assaporare tutto quello che una partecipazione al Super Bowl ti dà: l’assoluta attenzione dei media, il veder ripercorrere all’infinito in televisione tutta la propria stagione, avere una città ai propri piedi e che si appresta a trascorrere 3 ore di football in una domenica che sarà indimenticabile, la consapevolezza di poter entrare nella storia di questo sport, per vedere il proprio nome affiancato a quello di quegli uomini leggendari che hanno contribuito a rendere il football lo sport in assoluto più amato degli Stati Uniti.
saintsOgni giocatore si immagina di essere su quel palco che viene eretto a fine partita a centrocampo, a sollevare il trofeo argentato davanti al mondo e ai propri tifosi, per quella che può essere la consacrazione di una carriera o il culmine della propria esperienza sportiva, perchè alla fine, dall’offseason al training camp, alla preseason e al campionato, l’obiettivo di tutti è di vincere il Super Bowl, l’evento sportivo più seguito d’America.
Per New Orleans poi, la storia è tutta particolare: non c’è solo una squadra che insegue il suo sogno, ma c’è una città che per più di 40 anni ha assistito a quanto di più brutto si possa vedere su un campo da football, a stagioni sempre perdenti, ad essere la barzelletta della lega, a tifosi che andavano allo stadio indossando un sacchetto del pane sulla testa, come a dire “io vengo anche a vedervi, ma sappiate che mi vergogno”.
Cinque anni fa poi la tragedia che tutti conosciamo, l’uragano Katrina che si abbatte sulle coste della Lousiana con una violenza inaudita e che riduce ad un acquitrino New Orleans, centinaia di migliaia di persone perdono tutto nel giro di poche ore e una città totalmente in ginocchio.
Il Superdome diventa la casa provvisoria di molti e tutti avranno l’esistenza segnata da questo terribile evento. Anche i Saints sono colpiti, per diverse settimane lo stadio sarà inagibile e la squadra dovrà disputare lontano alcune partite di campionato, ma nel giorno della riapertura il legame che questa città ha sempre avuto (anche nelle disgrazie sportive) con la squadra, diventa sempre più indissolubile.
C’è l’arrivo di Drew Brees e di coach Sean Payton, i giocatori comunque si mobilitano per dare il proprio contributo a risollevare la città, ma quando i Saints giocano, per qualche ora la gente “dimentica” quello che c’è fuori e vive per la propria squadra, che nel frattempo sta diventando un team di tutto rispetto.
Payton assembla nel tempo un attacco meraviglioso: Brees, McAllister, Bush, Colston, Henderson, Moore e Shockey; la difesa ha come arma principale l’opportunismo e con l’arrivo del defensive coordinator Gregg Williams anche quella dose di ferocia e cattiveria che può far cambiare una stagione e una storia.
Due stagioni fa vedemmo i Saints a Londra e fu uno spettacolo grandioso, quello che è successo in questa stagione è solo il coronamento di un lavoro pazzesco e la riuscita di un progetto che la famiglia Benson, proprietaria della squadra, ha appoggiato incondizionatamente sin dall’inizio.
In una squadra di football ci sono tante storie, c’è Drew Brees che incanta le platee della NFL dopo aver rischiato di chiudere la carriera per un brutto saintsinfortunio e che diventa anche un pilastro per la comunità con una marea di iniziative benefiche; c’è Deuce McAllister che pur non potendo più giocare viene richiamato nel roster nei playoffs per dimostrare che a volte il gruppo e lo spogliatoio conta più di tante altre cose; ci sono giocatori che trovano una seconda carriera come Darren Sharper o Jeremy Shockey; c’è un kicker – Thomas Morstead – a cui viene chiesto di tentare un onside kick (mai eseguito in carriera) nella partita più importante dell’anno e in un momento cruciale e c’è un coach che gioca un quarto down, che lancia il fazzoletto rosso del challenge senza paura e che come pochi sa motivare le sue truppe.
I Saints hanno voluto fortemente questa vittoria e hanno giocato le proprie carte senza timore, con spirito poco conservatore, ma ben calcolato. Payton ha saputo trovare le contromosse nel secondo tempo e la squadra non si è disunita dopo un inizio balbettante che li ha visti finire sotto 10-0. Sono stati pazienti e hanno ritrovato il ritmo offensivo, poi, come tante altre volte è successo in questa stagione, la difesa ha piazzato il big play che ha spezzato la partita, e la stagione, in due; questa volta il merito è tutto di Tracey Porter che anticipando egregiamente una traccia di Wayne, ha intercettato Manning per il TD da 75 yards che ha reso irraggiungibili i Saints anche a un mago delle rimonte come Manning.
I Saints hanno avuto successo dove altre squadre “provinciali” hanno fallito, come Seattle, Arizona, Atlanta o Tennessee, e l’hanno fatto contro una squadra fortissima, quei Colts che a detta di tutti avrebbero dovuto vincere la finale, e questo non fa altro che aumentare i meriti di questa franchigia.
Una vittoria al Super Bowl di certo non risolve i problemi di una città che ancora porta su di sè i segni di un cataclisma, ma forse mai come quest’anno il tifo degli appassionati neutrali che di solito va alle “Cenerentole” era ben giustificato.
La prossima stagione è piena di incognite, ma ci sarà tempo per pensarci, per adesso New Orleans festeggia il martedì grasso più lungo ed anticipato della storia con una vittoria, meritata, che non sarà mai più dimenticata.
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