Buffalo Bills 1990: la macchina (quasi) perfetta

Poniamo che per un attimo, anche solo per combattere la noia, ci passi in testa l’idea di creare una squadra all time con giocatori che per vari incastri di carriera si siano ritirati senza aver vinto nulla.

Si parte dal QB, sempre. Dan Marino, Jim Kelly, Fran Tarkenton e siamo a posto.
I runner: Barry Sanders e Thurman Thomas, peraltro quasi coetanei e compagni di college negli OSU Cowboys: aggiungiamo OJ Simpson e Chuck Foreman: anche qui il verdetto è quasi unanime.

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Il backfield di OSU alla fine degli anni Ottanta non doveva essere male…

Ricevitori: Randy Moss, Terrell Owens, Andre Reed, Steve Largent, James Lofton: non siamo messi malissimo.
Una linea d’attacco avrebbe gente del calibro di Anthony Munoz, Dwight Stephenson, John Hannah, Walter Jones, Kent Hull e altri a pioggia.
In una selezione di questo tipo non immaginiamo facilmente una front seven senza Bruce Smith, Cornelius Bennett, Brian Urlacher, Junior Seau, Darryl Talley, Mark Gastineau quasi per far numero. Henry Jones e Leonard Smith nella secondaria non sfigurerebbero. Ah, per i puristi degli special team c’è anche Steve Tasker.
Ora fermiamoci un attimo e osserviamo un dato. Mettendoci tutto l’impegno possibile, anche se molti nomi arrivano più o meno da vari posti dell’olimpo spaziotemporale del football, una robusta quota è associabile allo stesso periodo (fine anni Ottanta e inizio anni Novanta) ma soprattutto alla stessa squadra: la più bella macchina da football che non sia mai riuscita a vincere un titolo: i Buffalo Bills di Marv Levy.

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American Football Conference, Eastern Division

Un excursus, giusto per introdurre il contesto.
Negli anni Ottanta la AFC Eastern Division non era nemmeno lontanamente paragonabile alla attuale AFC East. Quest’ultima è ormai da lustri proprietà privata dei New England Patriots, mentre in quel periodo la situazione era un po’ più complicata.
Intanto le squadre erano cinque:

  • i Patriots, neppure parenti dell’attuale tritacarne
  • i Baltimore Colts. Controllate pure, non è un refuso
  • i Miami Dolphins, forza egemone della Division con un Dan Marino ormai maturo
  • i New York Jets, che ancora non avevano elaborato la perdita di Broadway Joe Namath. Buona la pass rush
  • i Buffalo Bills, l’anello debole

Buffalo era una squadra che in passato aveva avuto rari momenti di gloria. Si trova traccia dei Bills nei database delle statistiche solamente andando a cercare alla voce Orenthal James Simpson. OJ era il meraviglioso purosangue che nel 1973 riuscì a correre per la prima volta nella storia della NFL per duemilatre yard in una regular season di quattordici partite, alla media di 143 yds/partita, sei yard per ogni corsa. Per capire la portata della sua impresa, su sedici partite quella poteva essere una stagione da 2288 yard corse. Non serve altro.

1983: l’anno dei quarterback

Una prima occasione di rinascita per i Bills parve arrivare nella draft del 1983, forse la miglior nidiata di sempre in quanto a quarterback con tutto il rispetto per l’annata di Russell Wilson, Andrew Luck, RGIII e Ryan Tannehill. John Elway venne scelto da Baltimore ma si rifiutò categoricamente e finì a Denver (che avrebbe ringraziato, e molto, in seguito). Vennero poi chiamati Jim Kelly (Buffalo Bills), Ken O’Brien (NY Jets), Tony Eason (Patriots) e Todd Blackledge ai Chiefs. I Dolphins erano in quel momento vicecampioni e chiamavano con il numero 27. Ragionando sui prospetti dei vari giocatori, Don Shula si fermò sul QB dei Pittsburgh Panthers, Daniel Constantine Marino, Jr. Parlando con uno dei suoi scout chiese “Ci sono possibilità di prenderlo al numero 27?” “Nemmeno una, coach”. E ovviamente Dan Marino finì a Miami. Fu forse uno dei primissimi casi di QB che non fece apprendistato nel suo anno da rookie ma venne messo in campo praticamente da subito. Proprio contro i Buffalo Bills.

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I ragazzi dell’Ottantatre

Insomma in quella draft tutte le squadre della division scelsero un QB al primo giro, fatto per lo meno inusuale. Detto di John Elway che si rifiutò di andare a Baltimore, anche i Bills non riuscirono ad avere da subito la loro scelta, l’ottimo Jim Kelly degli Hurricanes di Miami. Kelly infatti decise di provare l’esperienza nella lega concorrente, la USFL (creatura di un giovane milionario a nome Donald Trump) e iniziò a giocare nell’uniforme nera degli Houston Gamblers di coach Pardee, dove avrebbe avuto come offensive coordinator Darrell Mouse Davis. I Bills rimasero nel loro anonimato ancora per qualche tempo, fino a che a metà della stagione 1986 ingaggiarono come head coach Marv Levy, una onesta carriera di assistente allenatore e una esperienza breve come HC dei Chiefs.

I nuovi Bills

Marv Levy ereditò una squadra in difficoltà con i risultati, ma non totalmente sprovveduta dal punto di vista della gestione del personale e delle scelte. Negli anni precedenti infatti i Bills avevano cominciato ad aggiungere buoni giocatori nei ruoli chiave con una certa costanza. Nel 1983 avevano scelto Jim Kelly (andato poi in USFL) e il LB Darryl Talley, giocatore forte e solido che sfoggiava una imperdibile tuta di Spiderman sotto l’uniforme.

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Darryl Talley, l’uomo ragno

Nel 1985 i Bills utilizzarono il numero 1 assoluto per portare a Buffalo Bruce Smith, favoloso defensive end da Virginia Tech. La carriera universitaria di Smith aveva fatto di lui una sorta di predestinato. Giocatore completo, pass rusher devastante, ottimo contro le corse, atleta superiore. In quella benedetta draft entrarono anche Frank Reich, QB di Maryland e Andre Reed, WR dall’improbabile Kutztown State.

Levy quindi proseguì sulla strada segnata: nel 1986 scelse altri buoni giocatori quali Ronnie Harmon (RB) e Will Wolford (OT) ma l’acquisto fondamentale fu sicuramente il ritorno di Jim Kelly dalla morente USFL. Kelly utilizzò la lega estiva in maniera estremamente costruttiva. Mouse Davis a Houston aveva messo in piedi una macchina offensiva meravigliosa: quattro o cinque ricevitori contemporaneamente in campo, via il tight end e via il fullback, con Jim Kelly libero di scatenare l’inferno a proprio piacimento. Le contraeree avversarie costantemente in difficoltà, anche perchè tra i ricevitori di Kelly c’era anche Ricky Sanders, veramente intrattabile in campo aperto (e in seguito campione NFL con i Redskins di Joe Gibbs). Insomma Kelly aveva comunque portato a termine il suo apprendistato, era ormai pronto per il salto nella NFL.

La prima stagione completa di Levy portò i Bills ad un promettente record di 7-8 (sciopero) anche perchè nel 1987 riuscirono ad immettere con la draft un buon numero di giocatori che sarebbero rimasti in squadra a lungo e con profitto come Shane Conlan (LB), Nate Odomes (DB), Leon Seals (DE), Howard Ballard (OT), Keith McKeller (TE).

Con l’arrivo di un super runner come Thurman Thomas da OSU nel 1988 la squadra era ormai pronta. Levy aveva capitalizzato al massimo la classe superiore di Jim Kelly costruendogli intorno un attacco no huddle simile a quello che il QB aveva già diretto a Houston. I Bills ormai erano in cima alla division, sfruttando anche l’inizio del declino dei Miami Dolphins, ormai troppo monodimensionali per essere realmente pericolosi. Già nel 1989 erano quasi arrivati alle soglie della finale di conference, caduti a Cleveland per una mancata ricezione di Ronnie Harmon su un lancio di Kelly in end zone a nove secondi dalla fine.

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I Bills sono pronti (1990)

La stagione dei Bills del 1990 mantenne tutte le promesse. La macchina perfetta era a pieno regime. L’attacco macinava yard e punti con regolarità impressionante e la difesa era solida e opportunista. I Bills sapevano anche vincere partite difficili contro avversari ostici, come provarono al mondo nella partita del 15 dicembre a Meadowlands, contro i NY Giants di coach Parcells. Quella partita innescò un meccanismo di sliding doors da non ignorare. Clima da dicembre newyorkese, freddo e pioggia. Le difese ovviamente trassero vantaggio dalle condizioni meteo e le implicazioni furono pesanti da tutte e due le parti. Infortunio a Jim Kelly, problemi al ginocchio guaribili in un mese, dentro Frank Reich. Infortunio al piede per Phil Simms, campionato finito: dentro Jeff Hostetler, alla sua prima vera esperienza da titolare. Non se la caverà malissimo. La partita finisce 17-13 per Buffalo, che ormai non può più nascondere il suo ruolo di contender principale della AFC: i Bills sono pronti davvero.

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Primo atto: Bills 17 Giants 13

Buffalo vinse la division con un eloquente 12-4.

Primo turno di playoff, in casa contro Miami. Vincono i Bills 44-34 in maniera molto più netta di quanto non dica il punteggio. C’è stato l’atteso shootout fra Kelly e Marino, i due ragazzi di Pittsburgh, ma la partita non è mai stata in discussione. Il championship game contro i Raiders non è nemmeno raccontabile. Una finale di conference che finisce 51-3 è un messaggio chiaro per chi sta per finire in pasto a questo gruppo di assatanati, a questa macchina offensiva che in due incontri di postseason ha segnato novantacinque punti.

Gli avversari dei Bills nella notte di Tampa? Proprio quei New York Giants, già sconfitti in casa a dicembre. Si prepara lo scenario per un Super Bowl già scritto, a detta di tutti. I Giants sono tutto cuore e difesa e sono indubbiamente una squadra forte, come testimonia il 13-3 con cui chiudono la stagione. Sono senza il QB titolare, Phil Simms. Hostetler sta facendo un onesto lavoro da game manager e nulla più. Non hanno neppure il loro miglior runner, Rodney Hampton, che si è infortunato e devono andare con Ottis Anderson, runner punitivo nelle corse all’interno dei tackle ma che ormai ha alle spalle i suoi giorni migliori: non è facile vedere come una minaccia un runner trentaquattrenne. Ma se l’attacco è discutibile, la difesa dei Giants è un mostro di solidità: Lawrence Taylor è sempre l’icona, ma ci sono anche altri che stanno giocando il miglior football della loro carriera: Leonard Marshall, Erik Howard, Carl Banks, Pepper Johnson, Gary Reasons, Myron Guyton, Everson Walls. Non mollano mai, sbagliano pressochè nulla e riescono a compensare le difficoltà del loro attacco. Nel Championship in trasferta contro i 49ers i Giants riescono a vincere segnando solo cinque field goal ma riuscendo a limitare tali Montana, Craig, Rice (peraltro campioni uscenti).

Il gap tra le due squadre era comunque netto. Buffalo Bills favoriti senza discussioni.

Ormai era tutto pronto per quello che sarebbe stato il Super Bowl più bello di quella generazione, uno dei più belli di sempre.

Tampa Bay, 27 gennaio 1991: Super Bowl XXV

Il Super Bowl del Silver Anniversary inizia in un clima del tutto particolare. E’ in corso la guerra del Golfo e i soldati sono collegati in diretta dal Medio Oriente per assistere alla finale.

Il primo capitolo della storia incredibile di quella nottata non viene scritto da nessuna delle due squadre, ma dalla leggendaria esecuzione di Star Spangled Banner di Whitney Houston (1963-2012): tre minuti di una intensità di voce e di cuore mai visti prima e mai eguagliati dopo.

Buffalo deve prendere le misure ad una difesa oggettivamente forte, entra in campo con un three-and-out. I Giants sono calmi, cominciano a macinare il loro tipo di gioco. Più che uno scontro tra due filosofie di gioco, sembra uno scontro tra epoche: ai fuochi artificiali dei Bills i G-men rispondono con calma: come si dice in gergo “run the ball first, ask questions later”. Anderson all’interno, Meggett ai lati, Hostetler lancia quando serve, di solito giochi a basso rischio. Intanto mettono tre punti con Bahr e tolgono 6:15 dal cronometro.

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I Bills rientrano in campo dalle loro 20. Su un 2nd-and-8 Kelly rompe gli indugi e protetto a dovere va per il big play: il DB Williams devia la palla nel modo peggiore, c’è lì Lofton che riceve. Guadagno di sessantuno yds in un gioco solo, la sensazione che possano disporre della partita a proprio piacimento. Invece nelle ultime dieci yard gli uomini in blu si compattano e i Bills devono accontentarsi di pareggiare con Scott Norwood.

Poi è la difesa Bills a fermare i Giants, Buffalo riparte con un drive ben congegnato che, superato il primo quarto, li porterà a segnare con una corsa di una yard di Don Smith. Bills 10, Giants 3.

L’attacco di New York ora è in stallo. Hostetler prende una brutta botta da Leon Seals, comincia a scaldarsi Matt Cavanaugh, non il miglior QB da vedere in un Super Bowl. La difesa però tiene, i Bills guadagnano terreno ma non punti. Taylor e i suoi sanno che se questi prendono altro vantaggio forse non sono rimontabili. L’attacco dei Giants deve però ripartire vicino alla sua end zone. Buona corsa di Anderson in mezzo ma nel down successivo arriva un holding, proprio in quel territorio dove l’arbitro, dopo la chiamata, pronuncia la temuta postilla “half the distance to the goal”. Sul 2nd-and-10 successivo, mentre sta arretrando per lanciare, Hostetler inciampa su OJ Anderson, ma riesce comunque ad alzarsi. Ma nessun tackle può tenere per tanto tempo Bruce Smith, che arriva a placcare il QB in end zone. Bills 12, Giants 3

Guardando i replay però si vede che Hostetler ha fatto qualcosa che alla fine sarà molto più che limitare il danno: Bruce Smith va per lo strip-sack, che avrebbe probabilmente dato sette punti ai Bills e non due, ma Hostetler riesce a mantenere con forza la presa e il possesso della palla. In una partita dove conta ogni punto, anche questa giocata avrà una importanza non da poco.

27 Jan 1991: Quarterback Jeff Hostetler of the New York Giants gets sacked during Super Bowl XXV against the Buffalo Bills at Tampa Stadium in Tampa, Florida. The Giants won the game, 20-19. Mandatory Credit: Mike Powell /Allsport
Safety First: Smith placca Hostetler in end zone, ma la palla non cade (Mandatory Credit: Mike Powell /Allsport)

La difesa dei Giants però continua a gestire divinamente Kelly e i suoi. La palla torna nuovamente all’attacco, che prende un po’ di confidenza. All’ultimo drive utile del primo tempo Hostetler trova in end zone Stephen Baker e la prima metà di quello che doveva essere un massacro si chiude con uno scarto minimo. Bills 12, Giants 10.

Le statistiche riflettono appunto una parità sostanziale. Bills poco avanti nel punteggio e nelle yard totali, ma i Giants hanno un vantaggio sul tempo di possesso interessante.

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Secondo tempo: “just the way the Giants want it”

I Giants rientrano in campo con una consapevolezza anche maggiore. Sono in partita, ora hanno la palla e possono giocare il loro football. Stanno per mettere in piedi il loro drive capolavoro: il modo migliore per provare a vincere contro una squadra con un attacco così dominante è quello di tenerlo fuori dal campo. Eseguono alla lettera, il loro piano è quello: si corre bene, si lancia quando serve cercando di minimizzare il rischio. “It’s just the way the Giants want it”, dice Al Michaels in cronaca.

Cominciano a macinare terreno. Anderson guadagna yard pesanti, punendo anche la difesa, fino ad esplodere su un 3rd-and-1 dalle proprie 47 in cui corre per 24 yard colpendo Mark Kelso con uno stiff arm per l’esaltazione dei compagni sulla sideline. Ma i Giants non sono una squadra da terzo e lungo, strutturalmente. E quindi sono tutti pronti al field goal, perchè devono affrontare un 3rd-and-13 dalle 32 yds avversarie. Hostetler completa in mezzo per Mark Ingram, ma ben corto rispetto al primo down. Ingram produce forse il più grande second effort dopo la ricezione mai visto in una finale. Rompe due placcaggi, danza letteralmente tra una selva di maglie bianche e si trascina con due avversari attaccati fino a conquistare il primo down. I Giants ci credono, i Bills cominciano a preoccuparsi.

https://youtube.com/watch?v=AYl_gSzmbZY

I Giants concludono il drive con un TD su corsa di Anderson: Giants 17, Bills 12.

Il drive appena condotto è in quel momento il più lungo mai eseguito nella storia di un Super Bowl: settantacinque yard in quattordici giochi, 9:29 come tempo di possesso. Sommando all’ultimo drive prima dell’intervallo, significa che l’attacco dei Bills non è in campo da quasi tredici minuti.

E si vede, purtroppo per i Bills. Kelly e i suoi hanno perso un po’ di confidenza, dopo un primo down devono ridare palla ai Giants, perchè stanno giocando contro una difesa relativamente poco stanca, che riesce ancora a dare tanto in termini di intensità. Tuttavia l’attacco dei Giants non può continuare a masticare tempo e territorio in quel modo, i Bills hanno di nuovo la palla quando sta per iniziare il quarto periodo.

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Nel primo gioco dell’ultimo quarto, su un 1st-and-10 dalle 31 yds del territorio favorevole, Thurman Thomas corre una draw: trova un buon blocco e dopo il primo contatto già contro i defensive back riesce ad allargarsi verso la sideline di destra, sfrutta un blocco magistrale di Andre Reed su Walls e finisce la sua corsa nella end zone dei Giants: la partita cambia nuovamente padrone: Bills 19, Giants 17.

I Giants ricominciano a fare quello che sanno far meglio. Anderson left, Anderson right, Anderson up-the-middle. Arrivano nuovamente vicini alla goal line avversaria, ma stavolta la difesa dei Bills li ferma sulla linea delle 4 yard. Entra in campo Matt Bahr per un field goal facile ma tanto basta per rimettere il naso avanti: i newyorkesi hanno tolto altri 7:32 dal cronometro. In sostanza il tempo di possesso dei blu è praticamente il doppio di quello degli avversari. Giants 20, Bills 19.

Dopo un drive per uno, Kelly riprende palla sulle sue dieci con 2:16 da giocare. L’obiettivo è portare il suo kicker ad una distanza accettabile. Non c’è un gran vento, Norwood però non è noto per la sua potenza. Tuttavia entro le 50 yard può farcela (giova ricordare che le yard su un tentativo di field goal si calcolano come punto dello snap più sedici/diciassette yard). Ce la mettono tutta. Thomas infila un’altra corsa magistrale (terminerà la partita con 15 corse per 135 yard e un TD e cinque ricezioni per 55 yard), Kelly completa il giusto.

A otto secondi dalla fine i Bills sono sulle 29 yard, con il kicker in campo. Come tradizione, Parcells chiama il suo ultimo timeout.

Ormai tutte e due le squadre sono distrutte: i Giants perchè hanno costantemente giocato al di sopra delle aspettative, i Bills perchè sono stati troppo in campo con la difesa, per le loro abitudini, ma nonostante tutto sono riusciti a portarsi con il match ball sulla racchetta.

Dipende tutto da Scott Norwood. Come disse Al Michaels “…if you want to talk about a pressure situation…”. Un calcio, quarantasette yard. O entra o è finita comunque perchè il tempo è praticamente a zero. L’atmosfera sulle sideline era l’epitome del dramma sportivo di due squadre. I Bills si tenevano per mano, i Giants in ginocchio a pregare, perchè in quel momento non erano padroni del loro destino.

Snap, calcio, la distanza c’è ma purtroppo per i Bills la precisione no. “Got the distance and… no good! “.

La sideline dei Giants esplode: sono campioni NFL per la seconda volta. Gli occhi dei Bills verso terra, come erano quelli di Norwood prima di calciare.

https://youtube.com/watch?v=BCHZFwDCNyA

The Wide Right Curse

La partita venne decisa dall’unico errore commesso da una delle due contendenti. All’ultimo gioco.

Nei tre anni successivi i Bills dominarono la AFC, ma per altre tre volte vennero sconfitti al Super Bowl e sempre da squadre della NFC East (Redskins e due volte i Cowboys). Nessun altro nella NFL è mai arrivato al Super Bowl per quattro volte consecutive, peraltro uscendo sempre sconfitto. La maledizione del calcio sbagliato all’ultimo istante non mollò più questa squadra, che va comunque ammirata e rispettata per la qualità del gioco che riuscì a produrre, e per i grandi interpreti che ha donato.

Coach Marv Levy oggi ha 95 anni. Durante il suo regno i Bills sono stati la squadra col record migliore di tutta la AFC, secondi solo ai 49ers in tutta la NFL. Levy si ritirerà come allenatore più vincente nella storia della franchigia, con un record di 112-70 in regular season e di 11-8 nei playoff, inclusi purtroppo quattro Super Bowl persi. Allenatore dell’anno nel 1988. Se al posto di Wide Right Norwood avesse avuto per quel calcio non un Adam Vinatieri, ma anche solo uno Steve Christie, che arrivò l’anno dopo, la sua storia e la bacheca dei Bills avrebbero avuto qualcosa in più.

Marv Levy, head coach for the Buffalo Bills

La vittoria più importante di Jim Kelly è arrivata lontano dal campo da football. Introdotto nella Hall Of Fame dal 2007, insieme a Thurman Thomas, tra il 2013 e il 2014 Kelly è riuscito a sconfiggere un carcinoma alla mandibola. La sua numero 12 è l’unica maglia mai ritirata dai Buffalo Bills.

Bruce Smith ha concluso la sua carriera con i Washington Redskins. Ritiratosi con il record di tutti i tempi per i sack messi a segno, duecento in carriera. Ovviamente introdotto nella Hall Of Fame nel 2009, primo anno utile.

Thurman Thomas ha finito la sua augusta carriera nel 2000 con i Dolphins, ma firmò il classico contratto di un giorno per ritirarsi con la maglia dei Bills nel 2001. Detiene ancora il record di TD segnati nei playoff (21).  Avrebbe affermato che in assenza di un Lombardi Trophy, il risultato più grande della sua carriera è stato quello di aver fatto fare panchina per due anni a Barry Sanders. Chapeau. Per rendergli giustizia, quella sera a Tampa avrebbe meritato lui il premio di MVP in virtù di una prestazione sensazionale: 190 yard guadagnate tra corse e ricezioni e di un TD, spettacolare.

Andre Reed ha continuato a far impazzire le secondarie della NFL per quindici anni con i Bills e uno con i Redskins. Si è ritirato nel 2000 dopo aver totalizzato novecentocinquantuno ricezioni. Di casa a Canton dal 2014, nella classe di giocatori come Jerry Rice, Tim Brown, Steve Largent, Cris Carter. Forse uno dei flanker più grandi di sempre.

La testimonianza più bella dell’amore dei tifosi per quella squadra è la storia di Darryl Talley, il linebacker con la tuta di Spiderman. Dopo vari rovesci lavorativi, specie durante la crisi del 2008, nel 2014 si trovava in serie difficoltà economiche per le cure che aveva dovuto sostenere a seguito dei traumi da gioco: aveva perdite di memoria, dolori costanti e purtroppo pensava ricorrentemente al suicidio. In una bella gara di solidarietà i tifosi dei Bills raccolsero più di 150mila dollari per Talley, e quel che è più importante dimostrarono affetto e vicinanza per il loro vecchio campione. Alla raccolta di fondi parteciparono anche Bruce Smith e Thurman Thomas: once Bills, forever Bills.

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Mauro Clementi

Curioso esempio di tifoso a polarità invertita: praticamente un lord inglese durante le partite della Roma, diventa un soggetto da Daspo non appena si trova ad assistere ad una partita di football. Ha da poco smesso lo stato di vedovanza da Marino. Viste le due squadre tifate, ha molta pazienza.

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