L’evoluzione della specie del franchise quarterback

Qualche giorno fa leggevo un tweet che diceva che i quarterback NFL sono stati “rovinati” per vent’anni da Peyton Manning e dalla West Coast Offense. Ci ho pensato su e sono giunto alla conclusione che sia vero ma anche che quel treno sia ormai passato. Per anni l’NFL si è fossilizzata su un unico tipo di quarterback, un esecutore pensato per un certo tipo di gioco basato sulla capacità di processare in brevissimo tempo la difesa ed eseguire sempre in ritmo un certo tipo di concetti di passaggio ben definiti e basati sul timing tra quarterback, sviluppo delle tracce e movimenti della difesa. Certo ci sono sempre stati margini di tolleranza tra sistemi più o meno verticali ma lo skill-set ricercato era abbastanza ristretto. Al draft venivano regolarmente preferiti i giocatori più rifiniti, quelli bravi con le progressioni, con il gioco pro-style, magari anche poco atletici, magari ma non per forza col braccione, coraggiosi nella tasca. Ancora pochi anni fa, ai tempi del draft che coinvolse Marcus Mariota e Jameis Winston nel 2015, c’era chi dismetteva completamente dall’analisi del prospetto migliore l’aspetto atletico, questo per dire quanto fosse considerato residuale rispetto all’arm talent e alla capacità di lettura.

Questo tipo di ossessione è stato giustificato a lungo dai raccolti dei primi anni 2000 quando sono usciti dal college in pochi anni giocatori del calibro di Peyton Manning, Tom Brady, Drew Brees, Eli Manning, Philip Rivers e Ben Roethlisberger (che pure era leggermente diverso soprattutto nei primi anni).

La vena però dopo il 2004 si è prosciugata, i prospetti più pro-stylish, più “ortodossi”, hanno iniziato a scarseggiare o a essere non abbastanza talentuosi per tenere il campo. Pensiamo a un Brady Quinn o un Jimmy Clausen ad esempio, o un Matt Leinart. Eccezioni davvero poche, forzature tante con prospetti che sono stati scelti a volte solo ed esclusivamente per il braccio (JaMarcus Russell) e che non avevano niente da offrire in termini di pulizia tecnica, capacità di lettura e dedizione (si perchè gente come Brady e Brees non è nata forte) ma che venivano anche gettati ai cani con l’idea che “o sai fare le cose così oppure non sei un quarterback”.

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Ora, piano piano ma nemmeno troppo, l’onda è cambiata e i risultati sono ormai evidenti. Negli ultimi anni i prospetti che hanno combinato di più sono quelli definiti da “elite traits” anche a discapito di rifiniture grezze e che hanno trovato un sistema di coaching che non ha forzato i loro tratti verso qualcosa che non sapevano fare ma li ha sfruttati per realizzare qualcosa che altri non potrebbero mai fare.

È forse ironico che proprio in questa stagione 2020 il titolo di MVP sarà con tutta probabilità vinto da quello che più che l’ultimo epigono di una vecchia generazione è il capostipite di questa nuova, Aaron Rodgers. Un giocatore uscito dal college con una serie di cose da sistemare ma dotato di un braccio che forse è il migliore della storia dell’NFL, famoso (e anche criticato) per il suo giocare fuori struttura, per gli Hail Mary, per la testardaggine nel fare le cose come vuole lui a discapito, a volte, di fare la giocata giusta nella struttura dell’azione chiamata e del playbook.

Negli ultimi anni abbiamo visto chiaramente questo cambio di paradigma, che fino poco fa ci aveva offerto solo qualche anticipazione a metà con giocatori meno ortodossi capaci di avere successo ma non in maniera abbastanza sostenuta (Cam Newton, Colin Kaepernick) e pertanto passati come anomalie da una critica miope.

Se guardiamo gli anni più recenti il cambiamento è palese. Le stelline pro-style del 2016, Goff e Wentz, sono sull’orlo del punto di non ritorno. Dal draft 2017 il progettino educato Trubisky è sostanzialmente fallito mentre il grezzissimo Mahomes comanda la lega (ancora senza essere diventato un mago del lanciare in ritmo palletta dopo palletta) e Watson, il National Champion col difetto di essere in grado di correre, è l’unica cosa buona fatta dai Texans negli ultimi cinque anni. Dal draft 2018 i due quarterback migliori sono quelli su cui i “puristi” gettavano più fango, Josh Allen e Lamar Jackson, entrambi accomunati dalla percentuale di completi infame, solo il 57%, inaccettabile mio dio. Addirittura Lamar era considerato dagli analisti prigionieri dei primi anni 2000 come un runningback o un ricevitore, per Josh Allen l’unica cosa a tenerlo lontano dalla stanza dei tight end era il braccione. I due hanno cavalcato, con l’aiuto di coaching staff lungimiranti, i loro tratti di assoluta eccellenza fino a essere tra i migliori del ruolo. Degli altri tre sopravvive solo Mayfield, giocatore discreto, limitato ma benedetto dall’aver incontrato un coach dell’albero Shanahan-Kubiak, per tradizione capace di tenere a galla e far rendere molti giocatori normali. Il raffinatissimo Rosen ha già iniziato a navigare le practice squad mentre Darnold gode ancora di qualche considerazione solo per un riflesso condizionato e potrebbe sperare di salvarsi esclusivamente trovando un coach dell’albero di Mayfield (anche lì dubito). Dal draft 2019 l’unico che si salva al momento è Murray, anche lui un prospetto non ortodosso che è stato infatti scelto primo assoluto da un coach outsider rispetto al mondo dell’NFL. Per il 2020 è presto per trarre conclusioni ma non mi sembra assurdo rilevare che il ragazzo da Oregon era forse troppo criticato per alcune presunte lacune tecniche mentre che i suoi tratti elite bastavano e avanzavano a mandare avanti un attacco NFL.

Il prossimo draft è ancora relativamente lontano e non ho ancora iniziato a guardare i prospetti ma sono sicuro che non mi soffermerò più un secondo a chiedermi se un giocatore è abbastanza Pro-style o se sa giocare under center o se fa delle fantastiche progressioni.

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