Le SuperLeghe tra sogno e realtà

Avvicinandosi il Super Bowl, evento principe di tutto lo sport americano, ci siamo ricordati di questo interessante articolo pubblicato su Football Nation nel giugno 2018 nel quale si analizzano le (poche) possibilità che una lega stile NFL possa essere di esempio per altri sport europei, ad esempio il calcio.

In questi giorni ho letto diverse reazioni discordanti sulle dichiarazioni del presidente di una nota squadra di calcio italiana che si domandava perché la massima competizione europea per club calcistici, pur attirando per la finale il 170% del pubblico televisivo del Super Bowl, non riuscisse a generare introiti paragonabili alla NFL. A seguito di questo caldeggiava una presa di coscienza verso il modello vincente delle leghe americane di football americano, basket, hockey e baseball. A seguito di queste dichiarazioni, è stato ripetutamente spernacchiato sui social network ed ha acceso gli animi dei tifosi delle squadre rivali, rivangando torti antichi e recenti.

Checchè se ne possa dire di questo presidente, dal suo punto di vista il ragionamento è assolutamente condivisibile ed anzi lodevole, perché in Europa il blasone è focalizzato sui club e non sulle competizioni, le competizioni servono per dare prestigio ai club e non viceversa. Assicurare a questo noto club italiano la partecipazione ad una competizione con maggiori introiti ed alcuni meccanismi di livellamento tecnico ed economico, sarebbe una grande vittoria per la propria dirigenza che deve ogni anno scontrarsi con realtà di club nettamente più facoltose come le squadre spagnole, inglesi e qualche altro caso europeo isolato, gonfiato da capitali asiatici o russi.

uefa logo superleghe

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Ovviamente, in Europa non sorgerà a breve ed a medio periodo, una realtà paragonabile alle leghe americane, per il semplice motivo che il brand-club è nettamente preponderante sul brand-lega.
Gli stessi Stati Uniti rappresentano la dimostrazione di questo quando si osservano le dinamiche legate alla NCAA, l’associazione universitaria. Qui proprio come nelle europee competizioni, l’interesse è focalizzato al massimo sulle singole scuole. Il football universitario viene giocato quasi da 150 anni, ma l’organizzazione è intervenuta in maniera più incisiva solo dopo gli anni ‘10 del secolo scorso, quando gli atenei erano già sufficientemente forti da potersi imporre sulla stessa organizzazione, limitandola di fatto all’applicazione delle regole ed alla ratifica dei calendari. Questo è il motivo per cui la NCAA solo con molta fatica è riuscita negli ultimi anni ad imporre un sistema “quasi” univoco per designare il proprio campione nazionale nel football, anche se tale sistema a monte presenta ancora designazioni in base a gusti “umani” e non a meriti strettamente sportivi, ed ha inglobato in maniera complicata il sistema similfeudale dei Bowl.

Il sistema collegiale muove montagne di soldi, oltre il miliardo di dollari per il solo football, ma questi soldi non vengono suddivisi in maniera equa tra i 125 istituti che partecipano alla Division I FBS, bensì sono generati per lo più dalle singole scuole in base ai ritorni di vendita di merchandising, di contratti televisivi per conference, di singoli contratti di serie di partite che generano sponsorizzazioni ad hoc, partecipazione a più o meno prestigiosi bowl di fine stagione. Gli atenei più prestigiosi si guardano bene dal condividere posizioni di successo (e quindi soldi) con college statali semisperduti nel Wyoming o nel Montana, di fatto perpetuando un sistema dove la “nobiltà” gioca un ruolo molto forte. Un college di prestigio assoluto nel football come Notre Dame ha addirittura scelto storicamente di non aderire a nessuna conference per gestire in maniera più autonoma il proprio calendario, contrattare in maniera migliore i propri diritti TV e quindi, in buona sostanza, massimizzare i profitti.

Se, nella patria delle leghe milionarie, uno sport antico come il college football non è ancora riuscito a generare un’anima unitaria, difficile immaginare che possa succedere qui in Europa dove i club calcistici hanno età anagrafiche di poco inferiori a quelle degli atenei del college football, e incassi che sono in massima parte legati al proprio brand di club, formatosi nei decenni grazie a situazioni peculiari della propria città, del proprio paese, a volte dell’assetto politico del proprio paese (si pensi alle squadre dell’esercito o dei ministeri nei paesi dell’ex-blocco sovietico), e della qualità degli avversari internazionali

La NFL, spesso tirata in ballo per fare confronti con la realtà europea, ha subito un processo assai diverso nella sua creazione e sviluppo, ragionando nella stragrande maggioranza delle volte per una stabilità (e quindi crescita finanziaria) di lega, a partire dai problemi di schedule e di uso dei giocatori di college negli anni ‘20 e ‘30, per passare ai merge con le altre leghe (AAFL e AFL) negli anni ‘40 e anni ‘60, fino ai sistemi di livellamento della competitività come il Draft (1936), i diritti televisivi divisi equamente (1960 per la AFL, pioniera di questo tipo di atteggiamento) ed il salary cap (introdotto in NFL nel 1994) che hanno permesso a bacini demografici assolutamente marginali (Green Bay conta 104.000 abitanti, lo stadio ne porta 81.400) di sopravvivere e diventare parte integrante di un movimento che si basa principalmente sullo spettacolo offerto al pubblico e su una esperienza di tifo che non è esclusivamente basato sul risultato finale del match o della stagione. In una Lega che punta a queste caratteristiche, l’idea che ogni anno possa essere “quello buono” per la maggior parte dei tifosi è fondamentale, ed i sistemi sopra descritti consentono che questo grosso modo accada sul serio: negli ultimi dieci Super Bowl hanno giocato ben 13 diverse squadre e solo New England è riuscita nell’impresa di giocarne tre.

Ma tutto questo è stato creato proprio in funzione del prodotto-Lega, e non del prodotto-Squadra, basti pensare al sistema di composizione dei calendari che nella NFL prevede per le vincenti delle Division l’obbligo di affrontare l’anno successivo tutte le altre vincenti della propria Conference; mentre nella attuale Champions League prevede che le teste di serie non si affrontino almeno fin dopo gli ottavi di finale.
Filosofie così diverse difficilmente verranno a patti nel breve, e se ci si aspettano segnali in questo senso, si rimarrà sicuramente male nel sapere che ciò che c’è di più vicino alle leghe professionistiche americane qua in Europa, ovvero la Turkish Airline EuroLeague Basketball, conosciuta qui in Italia come Eurolega, è stata messa in discussione dalla FIBA Europe, espressione europea del massimo organismo mondiale della pallacanestro.

Turkish Airlines Euroleague lega

La massima competizione cestistica per club in Europa, che funziona con un sistema di licenze che potrete visionare qui, di fatto mescola blasone, risultati a medio termine e risultati a breve termine, con risultati che hanno dato ragione all’organizzazione. C’è una sostanziale differenza tra licenze determinate con criteri sportivi oggettivi e franchige distribuite dalle leghe in base a criteri di solidità finanziaria, bacini televisivi eccetera, ma il sistema potrebbe essere preso a modello.

Se riesce a resistere.

Il fatto è che gli interessi sportivi individuali in Europa, da tempo immemorabile, vincono sull’interesse collettivo, come è facile intravedere dalla semplice suddivisione dei diritti TV a livello di campionati nazionali, e la sentenza Bosman ha permesso una maggiore circolazione degli atleti e quindi, giocoforza, un maggiore spostamento di calciatori da realtà meno blasonate e più deboli finanziariamente, a realtà più prestigiose e più remunerative.
L’indice Hirfindahl-Hirschman calcolato sui principali campionati europei dal 1961 al 2012 dimostra che per realtà come Germania e Inghilterra, questa libera circolazione ha di fatto reso meno incerto il torneo, mentre in realtà come in Italia e Spagna, dominate da gruppi ristretti di squadre (Milan-Inter-Juve e Barça-Real) l’indice sia rimasto praticamente immutato. L’indice di turnover delle prime due classificate conferma se non peggiora l’impressione che i tornei nazionali più prestigiosi si stanno fossilizzando.

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Non sto a dilungarmi sul fatto che l’indice Herfindahl-Hirschman delle leghe americane facciano deprimere anche i migliori campionati europei per competitività e livellamento, con la NFL che guida questa classifica come il torneo più imprevedibile del Nord America.

Gli indici europei testimoniano quindi, come se non fosse già ovvio, che poche squadre incassano molto, e pochissime incassano veramente moltissimo. Si sta probabilmente avvicinando un punto di rottura che è difficile da predire per le modalità con cui avverrà e per il tipo di gestione che riceverà. Il fatto che l’Europa ragioni sempre su due piani (europeo e nazionale) non semplifica di certo la ricerca di una soluzione. Sarà sicuramente interessante capire che tipo di spinta daranno gli investitori asiatici nei cambi di gerarchie all’interno dei campionati nazionali, che potrebbero ripercuotersi in cambi di gerarchie anche a livello internazionale, appare ovvio però, dal punto di vista delle squadre medio-piccole dei campionati nazionali, che l’unico modo per tornare a competere per posti di prestigio nazionale sia quello di vedere tolte di mezzo le squadre più blasonate, spedite a fare la multimilionaria SuperLega europea, ma una squadra come il Real Madrid sarà così d’accordo ad avere limiti di spesa ed incassare gli stessi diritti TV dell’FC Copenaghen?

Dubito.

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