Sean Payton saluta i New Orleans Saints

“La fine di un’era” è un’espressione che mi ha sempre fatto storcere il naso per via del suo abuso ma se c’è un’occasione in cui ritengo sia appropriato usarla, è proprio l’addio di Sean Payton ai New Orleans Saints. Sì, perché i sedici anni (quindici stagioni, ma ne parliamo più avanti) alla guida dei Saints rappresentano una vera e propria era. La migliore nella storia della franchigia. Facciamo un passo indietro. Dopo una discreta carriera collegiale a Eastern Illinois e una meno brillante parentesi in NFL, Payton decide di passare subito al mondo del coaching nel 1988 ma ci vogliono una decina d’anni prima di approdare tra i pro. Dopo Philadelphia (1997-98, allenatore dei quarterback con John Gruden offensive coordinator) e New York (1999-2002, allenatore dei quarterback e poi offensive coordinator dei Giants, con cui presenzierà al Super Bowl XXXV), è a Dallas che Payton trova il mentore che gli farà fare il salto di qualità: parliamo del leggendario Bill Parcells. Dal 2003 al 2005 guida l’attacco dei Cowboys in qualità di offensive coordinator/passing game coordinator/assistente capo allenatore e si batte fortemente per convincere la dirigenza a mettere sotto contratto un QB undrafted che aveva battuto molti dei suoi record a Eastern Illinois, tale Antonio Ramiro Romo. L’importante vetrina dell’America’s Team è una rampa di lancio che lo porta a ricevere diverse offerte come capo allenatore. La scelta finale verte sui New Orleans Saints, ma solo dopo che la più allettante panchina dei prestigiosi Green Bay Packers fu affidata a Mike McCarthy.

L’uragano Kathrina aveva sconvolto l’America e lasciato New Orleans in ginocchio. La stessa permanenza della franchigia in città era stata messa in discussione e per una squadra che non aveva nulla da perdere (nemmeno lo stadio, riempito in quei mesi non dai tifosi bensì da una parte della popolazione che aveva visto spazzata via la propria abitazione dalla violenza della catastrofe naturale), la scommessa su Payton (e su Brees) era un all-in necessario per risollevare la squadra e, di conseguenza, la città. Possiamo parlare di era poiché nella storia di New Orleans l’arrivo di Sean Payton è a tutti gli effetti una pietra miliare: i Saints dell’epoca pre-Payton avevano vinto una sola partita di playoff, nel 2000, dopo 34 anni di militanza in NFL. Fin dai primi tempi, Payton ha voluto creare un team vincente alla sua maniera, con la sua anima. E i risultati non hanno tardato ad arrivare. Nel 2006 Payton non solo si qualifica ai playoff, ma arriva addirittura a giocarsi il Championship, poi perso, contro i Chicago Bears. Proprio quei Chicago Bears che, nel 1987, lo avevano messo sotto contratto per tre partite durante uno sciopero dei titolari durato circa un mese. Curiosamente, in questi tre match come primo QB dei Bears, il giovane undrafted da Eastern Illinois lancia 23 volte completando solamente 8 passaggi per un magrissimo bottino di zero touchdown e un intercetto che, per uno strano incrocio del destino, arriva proprio nella partita contro i New Orleans Saints del 18 ottobre di quell’anno. La sconfitta al NFCCG brucia ma si intuisce che il cambiamento di rotta è iniziato. Appena tre anni dopo, nel 2009, i Saints al Championship ci tornano e fanno “volare i maiali e raggelare l’inferno” grazie a una difesa tosta che chiude la partita con l’intercetto di Tracy Porter e il calcio di Garrett Hartley. Dopo una stagione quasi perfetta chiusa con il record di 13-3, i Saints si giocano il loro primo Super Bowl al Sun Life Stadium di Miami contro gli Indianapolis Colts guidati da un mostro sacro della NFL, Peyton Manning. Il 7 febbraio 2010 è senza dubbio il punto più alto della carriera di Sean Payton, una vittoria per 31-17 coronata da una chiamata al limite tra genio e follia: “Ambush” è un’opera d’arte che rimarrà negli annali della NFL.

La carriera di Payton a New Orleans è costellata di successi: record finale di 161-97 (152-89 in regular season), 7 titoli divisionali, record di 21-9 contro i rivali di Atlanta ma, soprattutto, la conquista del Super Bowl XLIV. Tuttavia, non possiamo non ricordare la sospensione arrivata nel 2012 in seguito alla vicenda “Bountygate” – ed ecco perché quindici stagioni. Dopo mesi di investigazioni non troppo chiare da parte della lega, la sentenza del commisioner Roger Goodell ha avuto ripercussioni pesanti sui Saints e su Sean Payton, sospeso dall’incarico di capo allenatore fino al 22 gennaio 2013. Pur non potendo allenare in NFL, Payton non si perde d’animo e decide di farsi “assumere” come offensive coordinator dei Liberty Christian Warriors, la squadra di football dove giocava il figlio Connor, come raccontato nel film “Home Team” (2022) prodotto da Netflix, il cui trailer in italiano è visionabile qui.

A livello tattico, Payton viene considerato dai suoi pari come una delle menti più brillanti degli ultimi 20 anni e se la NFL è ad oggi una “passing league“, una parte del merito va anche al discepolo di Parcells. Combinando diversi principi della West Coast Offense e della Air Coryell, Payton ha instaurato un sistema di gioco aggressivo fondato sul gioco di passaggio che ha permesso a Drew Brees di dissezionare le difese avversarie con la stessa facilità con cui volano gli shot di tequila in un sabato sera qualunque a Bourbon Street. Una volta poste le fondamenta dello schema, nel corso degli anni Payton ha introdotto alcune innovazioni che ad oggi sono state assimilate e normalizzate nello stile offensivo moderno. Idee come il “big slot“, cioè mettere nella posizione di slot receiver non un ricevitore più piccolo e scattante bensì un vero e proprio X-receiver (Marques Colston o Jimmy Graham), ma anche il continuo cambio di personale offensivo azione dopo azione o, a livello più prettamente schematico, l’attacco “su tre livelli” che ha fabbricato migliaia di yard anche se a metterlo in pratica non ci sono stati quasi mai ricevitori d’élite sono marchi di fabbrica dello stile di gioco di Sean Payton, la cui filosofia offensiva ha influenzato e continua ad influenzare la NFL.

Il suo successo non si limita ai risultati sul campo o alle innovazioni alla lavagna. Payton è riuscito a farsi amare da tifosi e giocatori perché “he gets it: ha compreso e abbracciato New Orleans, finendo per diventarne parte e rappresentandone pienamente lo spirito. Lo esemplificano le tante dimostrazioni d’affetto per i rivali Falcons, ultima squadra che ha affrontato e battuto come capo allenatore dei Saints, i festeggiamenti nel locker room dopo vittorie importanti o le frecciatine ai giornalisti/alla NFL. Nonostante l’ottimo rapporto costruito nel corso degli anni, più di una volta si è vociferato di un suo potenziale addio, anche se nella maggior parte dei casi questi rumor (anzi “Sunday splash”, per utilizzare un’espressione coniata da lui stesso) si sono rivelati infondati. Non proprio tutti, come ha spifferato Mike Florio di Pro Football Talk qui. Il momento della separazione è giunto, ma non è propriamente corretto parlare di addio: Payton, infatti, non ha deciso di abbandonare del tutto il mondo dello sferoide prolato. Come dichiarato nell’ultima conferenza stampa, c’è la concreta possibilità di rivederlo camminare nervosamente su e giù per la sideline di un campo da football in futuro:

“I still have a vision for doing things in football. And I’ll be honest with you, that might be coaching again, at some point. I do not think it is this year, I think maybe in the future, but that’s not where my heart is right now.”
(“Nella mia idea di futuro c’è ancora il football. Voglio essere onesto, prima o poi potrei tornare ad allenare. Non penso che accadrà quest’anno, forse accadrà in futuro, ma in questo momento non sento ardere il fuoco dentro di me.”)

Payton ha lasciato la porta aperta anche al mondo televisivo, manifestando un genuino interesse per una carriera simile a quella che ha intrapreso poco meno di un anno fa il suo pupillo Drew Brees (attualmente commentatore per la rete televisiva NBC). A prescindere da quello che sarà il suo futuro, Sean Payton ha lasciato un segno indelebile nel cuore di una città che lo amerà per sempre. Perché “if you love New Orleans, she’ll love you back.

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