Gli anni 80 dei Miami Hurricanes
Nel college football, gli anni 80 appartengono ai Miami Hurricanes.
Il contesto
Agli inizi degli anni 80, la città di Miami è nel pieno di una rivoluzione sociale: gli immigrati provenienti da Cuba sono molto coesi e, nonostante siano gli ultimi arrivati, trovano subito un loro posto nella gerarchia sociale creando una sorta di enclave tutt’oggi caratteristica. A pagarne le spese sono, purtroppo, gli afroamericani. La situazione precipita definitivamente con quello che passerà alla storia come il caso di Arthur McDuffie.
Arthur è un afroamericano di 33 anni ed è in sella alla sua Kawasaki nera ed arancione mentre sfreccia nelle strade di Miami durante la mattina del 17 Dicembre 1979. McDuffie ha accumulato numerose infrazioni stradali oltre ad avere la patente scaduta. Ad un posto di blocco della polizia decide di non fermarsi dando inizio ad una folle corsa di poco meno di dieci minuti al termine dei quali si consegna agli inseguitori preoccupato, forse, dalla sospetta facilità con la quale le forze dell’ordine premono il grilletto specialmente nel caso di un afroamericano (cosa che, purtroppo, non sembra essere cambiata). I poliziotti non sparano ma, ritenendo la fuga un affronto imperdonabile, lo picchiano a sangue: McDuffie morirà quattro giorni dopo in ospedale a Miami.
I sei agenti, accusati di omicidio e di aver tentato di simulare un incidente, vengono assolti per mancanza di prove ed è la goccia che fa traboccare il vaso. Dopo il verdetto del processo comincia una protesta che diviene poi una violenta sommossa e dura tre giorni consecutivi; il Governatore della Florida, Bob Graham, dichiara lo stato di guerra e ordina a 500 soldati della Guardia Nazionale di intervenire per sedare la rivolta, cosa che avviene ma non senza conseguenze. Decine di vittime tra uomini e donne, centinaia di feriti e altrettanti arrestati: queste statistiche marcano la più grave sommossa popolare negli Stati Uniti d’America dagli anni 70. La comunità afroamericana è ferita nel proprio orgoglio, cerca un riscatto, un qualcosa che spezzi– anche solo per pochi momenti – l’ordine della scala sociale e il disagio inevitabile del sentirsi sempre gli ultimi. Questo qualcosa, come spesso succede negli Stati Uniti, è legato allo sport, nel nostro caso il football, che ci regala una delle sue storie più assurde ed irresistibili.
Prologo
Durante gli anni 70, la squadra di football della piccola, privata University of Miami, i “gloriosi” Hurricanes, non se la passano tanto bene: in campo le vittorie non arrivano praticamente mai e sono molte le compagini che “scendono” al Sud della Florida per farsi una vacanza rifilando, nel frattempo, una sonora sconfitta ai Canes. La situazione migliora leggermente nella seconda metà degli anni 70 quando viene ingaggiato un head coach proveniente dalla NFL, Lou Saban. Coach Saban (lontano parente dell’odierno Nick), grazie alla sua esperienza tra i professionisti riesce a mettere insieme un discreto ciclo di recruiting. Nel quale spiccano i nomi del futuro Hall of Famer Jim Kelly che, reclutato da Penn State come linebacker, sceglie Miami per giocare quarterback, e il futuro MVP del XXV Super Bowl, Ottis “OJ” Anderson. Purtroppo per gli Hurricanes, l’aumento di talento non porta il tanto sperato aumento di vittorie e questo costringe gli amministratori dell’università a giocare con la fantasia per incrementare il numero di spettatori paganti che, per usare un eufemismo, scarseggia. Tra questi tentativi un po’ disperati, il più famoso è quello con la Burger King: un biglietto per la partita degli Hurricanes per ogni Whopper acquistato.
Il programma è nettamente in declino e, con risultati scarsi sul campo e sugli spalti, Miami rischia di perdere la propria squadra di football. Infatti alla fine dell’esperienza con Saban e all’alba del nuovo decennio, si tiene una votazione per decidere se eliminare o retrocedere il programma sportivo (la squadra di basket era già stata eliminata in precedenza). Grazie al lavoro di convincimento del Dr. John Green, il vicepresidente esecutivo dell’università, il consiglio di amministrazione decide di dare al football un’altra chance e, nel più classico dei plot twist all’americana, è proprio in quel momento che nasce la leggenda.
The Miracle in Miami: l’era di Howard Schnellenberger
Nella storia sportiva della città di Miami c’è un momento che ancora oggi resta insuperato: la stagione perfetta dei Miami Dolphins del 1972. Ad allenare quella squadra, un’icona del football, Don Shula. Uno dei suoi assistenti, l’offensive coordinator, era Howard Schnellenberger che nel 1979 diventa il nuovo head coach della University of Miami. Schnellenberger non pecca di inesperienza a livello collegiale avendo servito sotto il leggendario Paul “Bear” Bryant come offensive coordinator dal 1961 al 1965 e vincendo ben tre titoli nazionali durante questo lasso di tempo. Alla presentazione ufficiale sua e del suo staff, il coach prende la parola e con la sua caratteristica pipa in mano dichiara: “Noi vinceremo il titolo nazionale nel giro di cinque anni”.
Il piano di Schnellenberger per portare Miami sul tetto del mondo si basa su due cardini principali. Il primo: passare ad una completa pro-style offense, cosa mai vista fino a quel momento nel college football. Il secondo: reclutare in quello che lui definisce “Lo Stato di Miami”, facendo riferimento al fatto che, nella zona urbana della città la quantità di talenti afroamericani è pari a quella presente in un intero stato. Schnellenberger traccia un’ideale linea che va da Daytona Beach fino a Tampa: quello sarà lo Stato di Miami ed è lì che lui e il suo staff dovranno concentrare tutti gli sforzi relativi al recruiting. A partire dai quartieri più malfamati di downtown Miami: Overtown, Liberty City, Little Havana. Luoghi nei quali i precedenti allenatori mai si sarebbero sognati di andarsi a scegliere i propri studenti-atleti, dopotutto l’aspirazione dell’università era di diventare la Harvard del Sud ed eccellere nelle discipline accademiche, non certo una dinastia sportiva che strappa dalla strada i ragazzi provenienti dai project.
Miami conclude la prima stagione sotto Schnellenberger con un record di 5 vittorie e 6 sconfitte e l’upset alla #16 del ranking Penn State con un fenomenale Jim Kelly. All’inizio della stagione 1980, il coach pone l’obbiettivo di arrivare ad un Bowl, cosa che avviene poiché Miami finisce la stagione con 9 vittorie e un invito al Peach Bowl (vittoria contro Virginia Tech per 20-10). Parabola ascendente che prosegue nel 1981 dove gli Hurricanes chiudono con un record di 9-2, spiccano le vittorie contro Penn State (la #1 del ranking) e Notre Dame, e l’ottava posizione nel ranking AP. Il 1982 doveva essere l’anno della definitiva consacrazione ma un infortunio alla spalla di Jim Kelly ridimensiona le aspettative di Miami che finisce con quattro sconfitte. Al termine di quella stagione Kelly si dichiara per il Draft e a Schnellenberger spetta il compito di trovarne il sostituto. La scelta ricade sul freshman Bernie Kosar, una pertica di quasi due metri con un braccio molto preciso e un IQ fatto su misura per questo sport. Dopo la sconfitta nella prima partita della stagione contro i rivali Florida Gators, gli Hurricanes vincono le successive 10 e si guadagnano un invito all’Orange Bowl per giocarsi il titolo contro Nebraska, la # 1 del ranking ed uno dei programmi più vincenti nella storia del college football. Risultato finale Miami 31, Nebraska 30: a distanza di quattro anni esatti dalla dichiarazione di Schnellenberger, Miami vince il suo primo ed inaspettato titolo nazionale.
Uno dei simboli di questa vittoria è il melting pot (e non potrebbe essere diversamente in una città crocevia di mille culture diverse come Miami) della linea offensiva: un canadese (il centro, Ian Sinclair); un cubano (la guardia, Juan Comendeiro); un afroamericano (l’altra guardia, Alvin Ward); un italiano (il tackle, Paul Bertucelli) ed un irlandese (l’altro tackle, Dave Hefferman). Quella squadra vince lanciando più di quanto corresse è già di per sé questo rappresenta una grande novità nel college football, ma la statistica più interessante è un’altra: la squadra campione nazionale, per la prima volta nella storia, non può vantare tra le proprie fila nemmeno un All-American. Schnellenberger, chiamato in causa dice: “We’ve got a lot of overachievers on our team – or else there has been a poor job of selection done by the All-American selectors”.
The U invented “Swagger”: l’era di Jimmy Johnson
Cinque mesi dopo la vittoria del titolo nazionale, Schnellenberger lascia l’università firmando un contratto molto lucrativo per guidare una squadra della neonata United States Football League che, ad onor del vero, avrà poco successo. Per il sostituto la scelta ricade su Jimmy Johnson, head coach di Oklahoma State. Purtroppo sia la squadra (composta nella maggioranza da senior e junior pretoriani di Schnellenberger) sia alcuni membri dello staff (rimasto intatto dal precedente regime) non prendono bene i metodi militareschi del nuovo head coach nativo di Port Arthur, Texas. Queste frizioni interne si manifestano nei risultati “ondivaghi” della squadra che chiude la stagione con il record di 8 vittorie e 5 sconfitte tra le quali alcune rocambolesche come la peggior rimonta subita nella storia del college football (contro Maryland da 31-0 a 40-42), l’ “Hail Flutie game” contro Boston College e, per chiudere, la sconfitta nel Fiesta Bowl contro UCLA grazie ad un field goal a tempo scaduto.
All’inizio del 1985 Jimmy Johnson, che è laureato in psicologia e passerà alla storia come uno dei “player’s coach” più efficaci di tutti i tempi, comincia a fare presa sulla squadra. E’ lui stesso che invita i giocatori ad esprimere in qualsiasi modo la felicità dopo un touchdown anche con il rischio di apparire irrispettosi nei confronti dell’avversario. La sua squadra viene spesso accusata di “running up the score” ovvero di infliggere agli avversari sconfitte pesanti senza mai staccare il piede dall’acceleratore. A tal proposito Johnson dichiara: “Io alleno e sono responsabile di una sola squadra, la mia, a cui chiedo di giocare al massimo delle proprie possibilità dal primo all’ultimo minuto, se questo vuol dire vincere le partite di 50 punti non vedo dove sia il problema”. Questi atteggiamenti, pur riscuotendo un grande successo nello spogliatoio, rendono i suoi Miami Hurricanes la squadra più veemente e odiata di tutto il college football. I giocatori abbracciano definitivamente lo stile di coach Johnson e la fama di “bad boys” facendone, di fatto, un marchio di fabbrica. Dal punto di vista tattico la più grande novità portata da Jimmy Johnson è il passaggio alla difesa 4-3. Tutto ruota intorno ad un concetto base: la velocità. Nello schema di Johnson, che da quel momento in avanti sarà chiamato “Miami 4-3”, per aumentare la velocità difensiva collettiva la safety diventa un linebacker, il linebacker diventa un defensive end, il defensive end diventa un defensive tackle e così via: i giocatori vengono reclutati per la rapidità e l’aggressività più che per stazza e potenza. Requisiti che vanno a nozze con le caratteristiche degli atleti presenti nello Stato di Miami.
Nel ruolo di quarterback, con Kosar che si dichiara al draft NFL, viene promosso Vinny Testaverde a guidare un attacco potenzialmente esplosivo con Michael Irvin e Brian Blades come ricevitori. La squadra del 1985 perde la prima partita contro Florida e poi vince le cinque successive dando inizio ad una striscia di 58 vittorie consecutive in casa (dal 1985 al 1994), record ancora oggi imbattuto. Le due vittorie contro la miglior difesa della nazione e #3 del ranking Oklahoma (27-14) e Notre Dame (58-7) portano Miami nella posizione di poter vincere il suo secondo titolo nazionale, ma la sconfitta nel Sugar Bowl contro Tennessee vanifica tale speranza. Nel 1986 la squadra di Jimmy Johnson si presenta ai nastri di partenza tra le favorite per il titolo nazionale, come dimostra la vittoria contro i campioni uscenti di Oklahoma nello scontro tra #1 e #2 per 28-16. Quella partita vede affrontarsi, a suon di trash talking, Brian Bosworth, linebacker dei Sooners, e i ragazzi di Miami capitanati da Jerome Brown e Melvin Bratton; ma è Vinny Testaverde il vero protagonista: la prestazione contro la fortissima difesa di Barry Switzer lancia la sua candidatura al premio Heisman che vince alla fine del 1986. Miami finisce la regular season 11-0 e da #1 del ranking accetta di giocare, da netti favoriti, il Fiesta Bowl contro la #2 Penn State. L’immagine da “fuorilegge” dei Canes viene sfoggiata tutta nei giorni precedenti alla partita: all’arrivo in aereporto i membri della squadra sono tutti vestiti in uniforme da guerra. Tanta scena per niente perché durante la partita la difesa di Penn State orchestrata da Joe Paterno riesce ad imbavagliare l’attacco di Miami costringendo Testaverde a ben 7 (!!) intercetti che bastano ai Nittany Lions per vincere l’incontro 14-10 e il titolo nazionale.
Il 1987 è l’anno buono per Jimmy Johnson. Miami, guidata da un nuovo quarterback Steve Walsh e da un ormai affermato Irvin, conclude la stagione da imbattuta per la prima volta nella storia della scuola. Memorabili le sfide contro la Florida State di Bobby Bowden e, sempre loro, gli Oklahoma Sooners che vengono battuti dagli Hurricanes per 20-14 in quella che viene poi definita “The game of the century”. E’ il secondo titolo nella storia di Miami ed il primo per Jimmy Johnson che finalmente raggiunge il massimo riconoscimento a livello collegiale.
Pur perdendo ben 12 titolari per la NFL, solo una discussa sconfitta per 31-30 contro Notre Dame, dove un touchdown nel finale di Cleveland Gary viene giudicato poi fumble dagli arbitri, impedisce agli Hurricanes di ripetersi nel 1988. Jimmy Johnson lascia la squadra nel 1989 per diventare l’head coach dei Dallas Cowboys che poi porterà per ben due volte alla vittoria del Super Bowl. L’era Johnson è, senza ombra di dubbio, centrale per la dinastia di Miami negli anni ’80. Se Howard Schnellenberger era stato il primo a intravedere le potenzialità di questo programma di football e gettare le basi per i successi futuri, è con Johnson che, grazie alla sua modernità e al fiuto per il talento, gli Hurricanes diventano definitivamente una squadra in grado di giocare per il titolo ogni anno.
Undefeated (again): l’era di Dennis Erickson
A sostituire Johnson viene chiamato Dennis Erickson da Washington State. Il nuovo allenatore eredita una squadra che ha perso una sola partita in due anni e piena zeppa di talento in entrambi le fasi del gioco: Erickson non fa altro che proseguire sulla strada tracciata da Schnellenberger e Johnson. Considerato un outsider nel mondo del college football anche lui come i suoi predecessori, porta in dote un’importante innovazione: la “one-back spread offense”. Questo moderno stile di gioco trova un solido interprete nel quarterback Craig Erickson (solo un curioso caso di omonimia con il proprio allenatore) e si sposa perfettamente con la velocità stellare dei ricevitori locali come Randall “Thrill” Hill e Lamar Thomas. Ma è in difesa, mantenendo i principi di Jimmy Johnson, che gli Hurricanes sono paurosi con due defensive tackle tra i migliori di sempre come Cortez Kennedy e Russell Maryland (allenati da un giovane Ed Orgeron) ed un trio di linebacker sensazionale: Michael Barrow, Jesse Armstead e Bernard Clark.
L’accesso alla sideline dei giocatori del passato rende le partite nel vibrante Orange Bowl un evento unico ed è, inoltre, strumentale per insegnare cosa voglia dire essere un Hurricane ai nuovi arrivati: già a metà degli anni 80, Miami vanta un discreto numero di alumni che fanno faville nella NFL e tornano ad aiutare la loro alma mater. La Miami del 1989 sconfigge 27-10 l’imbattuta e #1 del ranking Notre Dame nell’ultima gara di regular season e , riservando poi lo stesso trattatamento ad Alabama nel Sugar Bowl per 33-27, vince il suo terzo titolo nell’arco di sei anni. Nel 1990 Miami comincia la stagione da #1 del ranking ma perde subito contro BYU nel più classico degli upset di inizio stagione. La sconfitta per 29-20 contro Notre Dame a metà stagione segna la fine della rivalità tra i Fighting Irish e gli Hurricanes durata ben 27 partite. La decisione di sospendere questa serie, che ha fortemente caratterizzato tutti gli anni 80 con partite memorabili, viene presa dopo che la rivalità aveva raggiunto un livello di intensità giudicato poco sano dalla NCAA. Miami chiude la stagione con una schiacciante (45-3) ma discussa vittoria contro Texas nel Cotton Bowl del 1991: con 16 penalità per 202 yards (entrambi record per la scuola) tutte per comportamenti antisportivi e falli personali, i Canes, si tirano addosso (ancora una volta) tutte le ire del mondo sportivo collegiale.
Come conseguenza la NCAA regolarizza la penalità di 15 yard per eccessivi festeggiamenti e intimidazione nei confronti dell’avversario: questa regola prenderà il nome di “Miami-rule”. Erickson lascerà l’Università di Miami nel 1995 , dopo aver vinto un altro titolo nazionale da imbattuti nel 1991 ed aver regalato agli Hurricanes un altro vincitore del trofeo Heisman, il quarterback Gino Torretta. Con un record di 63-9, una percentuale di vittorie del 87,5% e 2 titoli nazionali, Dennis Erickson, è statisticamente il migliore allenatore nella storia di Miami.
La dominanza in pieno stile renegade dei Miami Hurricanes rende questa università il villain perfetto degli anni ’80. Un decennio che viene ricordato poco volentieri dai fan più conservativi del college football perché i bad boys controllavano il territorio talvolta umiliando i tanto amati programmi di “sangue blu” a colpi (metaforici) di mitraglia e al suono di rap e funk.
Nell’epoca in cui si pensava che il wide receiver dovesse consegnare la palla nelle mani dell’arbitro e il cornerback non dovesse provocare l’avversario dopo un intercetto, la squadra di football dell’Università di Miami era costruita ad hoc per farsi odiare. Ma è difficile da ignorare quello che veramente ha significato quella “U” sul casco per molti di quelli che lo hanno indossato: un’occasione. Grazie alla stretta politica di rendimento scolastico voluta da Jimmy Johnson e alle eccellenti risorse accademiche dell’Università, moltissimi ragazzi provenienti da situazioni non facili, in una città già di per sé complicata, hanno potuto regalare alle loro famiglie una vita migliore.
Essendo la prima dinastia di outsider rispetto ai programmi tradizionali, Miami ha aperto la strada ad altre università che, a loro modo, hanno disordinato per brevi e lunghi periodi lo status quo tradizionale del college football. Proprio come gli Hurricanes degli anni ’80: dallo Whopper a squadra del decennio.