Nike e la Rivoluzione Kaepernickiana

Ieri Colin Kaepernick ha, dal suo account twitter, diffuso il seguente messaggio promozionale.

Nike, sponsor tecnico della NFL e che ha sempre avuto il quarterback ex 49ers in scuderia, ha quindi utilizzato la notissima vicenda dell’inginocchiamento per aumentare l’interesse attorno al suo marchio. 800’000 “cuori”, 360’000 risposte al tweet. Sono numeri imponenti, se consideriamo che i clic di approvazione ai tweet di Kaepernick non sempre arrivano a 10’000 e che il 15 luglio, dopo la vittoria del secondo titolo mondiale della Francia del calcio, il tweet della Nike stessa con protagonista il giovane calciatore Kylian Mbappé si fermò a 36’000.

Il perno che la lotta di Kaepernick contro la NFL fornisce è quindi forse il più potente che sia mai stato nelle mani del colosso dell’abbigliamento sportivo. Il payoff, cioè lo slogan che leggete nel cinguettio, è anch’esso di rara intensità. “Believe” e “Sacrifice” sono infatti due classiche parole che Nike ha sempre usato e che appartengono a qualsiasi realtà di spogliatoio. In poche lettere quindi il marchio abbraccia sia chi ama il football – o lo sport in generale – sia chi empatizza con la battaglia che Kap sta conducendo al di fuori del rettangolo di gioco.

Ma siamo sicuri questo successo sia una sorpresa? La vicenda del prodotto di Nevada va avanti da anni, da talmente tanto tempo che qualunque analisi di marketing avrebbe potuto partorire tale payoff e strategia ormai mesi or sono. L’atteggiamento del pubblico verso tutta questa storia è unilaterale: Kap ha ragione, e guardate che fortuna, a opporsi agli inginocchiamenti c’è proprio lui, il Presidente più chiacchierato della storia degli Stati Uniti – uso un’iperbole e me ne prendo la responsabilità.

Proprio a quei tempi, quelli in cui Donald Trump tuonò di “licenzare tutti quei figli di…”, risale l’editoriale che scrissi per MondoSportivo, e che riporto a fine articolo.
Dopo tutto questo, è però ovvio chiedersi quanto Nike abbia pagato Kaepernick per il tweet, in teoria partorito dallo stesso – ormai ex – giocatore; e qui si innesca un’altra baraonda. Che, insomma, il leader si sia messo alla stregua del presidente. Abbia monetizzato dove doveva essere idealista. Che da novello Martin Luther King (seconda iperbole che spero perdonerete) si sia trasformato in una macchinetta mangia e spara-soldi.

La comunicazione si forma nella testa di chi la riceve. Quindi saranno coloro che di Kap fino a oggi non sapevano niente, o meglio poco perché niente è impossibile, a decidere da che parte stare. Crederanno al paladino della giustizia e perdoneranno i tentativi di riprendersi i soldi che a livello campo non vedrà mai oppure lo ridicolizzeranno come amano fare con Mister President?

Intanto Nike vede il suo marchio attraversare il mondo della pubblicità, uscire da quell’atmosfera e raggiungere vette di popolarità trasversale che non vedeva dai tempi di Michael Jordan. Una faccia in bianco e nero dietro una scritta. L’apoteosi ovvia di una strumentalizzazione palese, ai limiti dell’esagerazione.

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Il Leader e il Presidente

La porta di legno impiallacciato si chiude dietro le sue spalle. 7.30 AM, davanti a lui la strada che ogni mattina percorre. Corsa, esercizi, corsa, esercizi. Insomma, nulla rispetto a quando era il miglior giovane quarterback in NFL, ma abbastanza da rimanere in forma qualora quella diavolo di chiamata arrivasse. Un’ora e mezza dopo il sole è alto, la domenica avvolge gli Stati Uniti d’America, lui si lascia sprofondare sul divano di tela e accende il televisore.
Ci sono i Baltimore Ravens, coloro che gli tolsero il Vince Lombardi Trophy in una eccitante notte in Louisiana. Sa bene che non sono stati loro a renderlo un disoccupato negandogli quell’alloro.
Sa che lui non gioca più perché è il più grande leader che gli States abbiano avuto negli ultimi diciotto mesi.
Tale contraddizione lo stravolge, come sempre; la chioma afro sfiora blanda lo schienale e i suoi occhi si posano su Ray Lewis che sulla sideline di Wembley affonda il ginocchio nel terreno, mentre lo Star-Spangled Banner non è mai sembrato così vuoto.

Dicono che parlando in pubblico sia meglio immaginarsi gli interlocutori tutti nudi per vincere l’emozione e la timidezza. Lui lo fa da decenni. E insomma, il salto da palazzinaro a Presidente degli Stati Uniti d’America consta di immaginare nude moltissime persone. Per quello ha il tipico atteggiamento istrionico mentre parla alla folla.
La chioma bionda, che sa bene risultare posticcia ai loro occhi, si muove a causa delle sue parole scattanti, forti, addirittura dominanti. Rimpiange che al posto del podio dal quale sta parlando non ci sia un trono, tipo quello di Carlo Magno, di Montezuma, della regina Elisabetta I.
Questi tre avrebbero fatto fuori i loro nemici, in un modo o nell’altro. Lui pensa di poterlo fare, e allora: “Licenziateli quei figli di puttana!”
Tanto, guardatevi, siete tutti nudi, cosa mai vorrete capire di come si regna… ehm, gestisce la più grande potenza del Mondo e di come bisogna parlare del suo sport preferito.

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“Please, raise and remove your hats.”
No, quel giorno, dopo l’ennesimo pestaggio e l’ennesima assenza di presa di posizione del governo americano, Colin Kaepernick non si alzò. Anzi, si inginocchiò. Andava contro i suoi valori andare fiero di uno Stato che fa da schermo alla violenza.
Settembre 2016: il Time, che raramente ne sbaglia una, sbatte quella immagine sulla sua rinomata copertina. Un anno dopo, tutti inginocchiati: presidenti, giocatori, leggende al seguito della squadra, allenatori, proprietari; bianchi, neri, gialli, rossi.

E di certo, se c’è una lezione da imparare, non la impariamo da Donald Trump ma dalla sua nemesi.
Credete nei vostri valori, non abbiate paura di farvi puntare le telecamere addosso, di perdere il vostro lavoro, di amare la vostra intellettualità, di mettere il vostro faccione su tutte le copertine del Mondo.
Qualcuno farà un passo falso, qualcuno che di riflesso vi farà diventare un leader.
>Uno di quelli veri, uno di quelli che non si muove per interesse o perché il vento non va più dalla sua parte. Un baluardo, una bandiera imperturbabile, che risalta in confronto a quelle delle più grandi civiltà della storia. Innoverete, farete la storia della razza umana, avrete migliaia di persone che vi imitano. Girerete per le strade con il sorriso di chi è un punto di riferimento, con il seguito dei vati, con l’ammirazione di miliardi di persone.
Uno di quelli che condisce i discorsi a decenni dalla sua morte, sparisce dalle copertine ma che vive nella mente di chi è in grado di pensare.

Il telefono suona, Colin si alza, prende il cellulare dal tavolino tiki all’ingresso, risponde.
“Salve signor Kaepernick, la metto in linea con xxx, general manager dei yyy, attenda.”
Perché, alla fine, quello che possiamo desiderare più di tutto, da appassionati di sport, è che Kap torni a giocare. Quello che poteva fare fuori dal campo l’ha fatto per insegnarci, in un’era di vuoto culturale, quali sono le cose importanti. Concedetemi, quindi, di mischiare realtà e verosimiglianza, intenti e atti, parole e fatti, appelli e rese incondizionate, nel nome del football e della salvezza della sua reputazione.

Ora Colin deve tornare a insegnarci come si gioca a football. E quegli stessi proprietari che si inginocchiano ora devono alzarsi e andare dal loro front office a dire che hanno bisogno di un quarterback, nel fiore degli anni, che sappia correre e lanciare.
Facciano vedere quale dei due leader hanno scelto.

E che non agiscono unicamente per proteggere i loro interessi ed evitare di licenziare la loro principale fonte di guadagno.

(pubblicato su MondoSportivo.it il 30 settembre 2017)

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Dario Michielini

Segue il football dagli anni 90, da quando era alle elementari. Poi ne ha scritto e parlato su molti mezzi. Non lo direste mai! "La vita è la brutta copia di una bella partita di football"

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28 Commenti

    1. Gli americani forse più di altri Paesi sentono maggiormente l’inno nazionale. C’è chi giustamente è morto per quella “libertà”. Trovo il gesto irrispettoso nei confronti di chi è caduto per quella bandiera, tipo Pat Tillman.

    2. Non sono d’accordo. Se fosse stata inutile la lega non avrebbe cercato di eliminare in ogni modo possibile le proteste in ginocchio dei giocatori di colore. Sono arrivati al punto di obbligare per legge chi vuole inginocchiarsi durante l’inno a restare negli spogliatoi… ti sembra poco? Kaep ha pagato con il lavoro: era già ricco, non diventerà povero di sicuro adesso, però nessuno dei proprietari lo ha più messo sotto contratto… e non mi sembra poco

    3. Xabier Marcelo Polford ecco perché ho messo la parola libertà fra virgolette. Ma è sempre una mancanza di rispetto. Questo è un mio parere ovviamente.

    4. Non trovo irrispettoso inginocchiarsi come segno di protesta nei confronti di una società così disequilibrata come quella americana, come non trovai irrispettoso il famoso gesto di Tommy Jet Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. Anzi, quello fu addirittura eroico ! Ma anche questo non è che il mio parere, s’intende.

    5. Inutile? no.
      vivendo negli States posso vedere la differenza di trattamento razziale menzionato da Kap con i miei occhi.
      30-40 anni fa quando Cassius Klay/Mohamed Alì si rifiutò di andare in guerra in Vietman perché “I vietnamiti non mi hanno mai chiamano negro” ti sembra che fece molto meno scalpore?

      Credo che gli americani sappiano che lui abbia ragione, ma siccome sono una società classista (se non razzista) avendolo fatto la protesta durante l’inno nazionale questo li abbia fatti puntare al dito e non alla luna. “lo vedi? quel giocatore di colore non rispetta la nostra bandiera e i nostri soldati!!!11!!”
      E ora che la nike ha appoggiato Kap, gli americani hanno iniziato a tagliare il logo dai calzini e dai pantaloncini. immagina dove arriva il loro livello di idiozia…

    1. Ciao Silvano, grazie per aver letto e commentato.
      Ce ne passa sul campo, chiaramente. Ma inizia a non passarcene nel mondo della comunicazione e della pubblicità. Veicolano entrambi un messaggio in modo similmente “ficcante”. Rimane ovvio che avere dati oggettivi di confronto tra un personaggio senza social media e uno con sia e sarà sempre impossibile.

    2. Ti dimentichi di citare Reid, che si è inginocchiato con lui. Una ottima safety che nessuno mette più sotto contratto.

      La protesta non è assolutamente inutile secondo me.
      E anche se fosse un atleta perdente, arrivami pure tu al SB 😉

    3. Emanuele Govoni perché la gente è capra e va dietro a queste cose.
      Oggi in Italia aumentano le accise sulla benzina quando qualcuno ha detto che le avrebbe tolte e nessuno dice niente perché la gente sta esultando perché in cassazione è passata la legge che tenere un cane da solo in giardino ora è dichiarato come reato

    1. cioè che i neri dalla polizia vengono trattati diversamente?
      ti ricordi l’anno scorso? uno è stato ucciso dopo una controllo normale, mentre cercava di prendere il portafoglio.

      un ragazzino nero è stato sparato alle spalle mentre scappava, E potrei citardi decine di altri case. non è che lui ha iniziato perché gli girasse, va.

    2. Io credo ai fatti che hai elencato ma non credo a lui. Quindi per te basta che qualcuno sollevi una polemica sociale per farlo eroe? Perché ha iniziato a parlarne solo nel suo anno di rinnovo? Perché ha detto che si sarebbe rialzato all’inno solo quando avrebbe avuto un contratto? Molti ex- black panther gli hanno detto di smetterla di presentarsi vestito come uno di loro perché loro lottavano veramente per avere pari diritti, lui no.

  1. È una storia che nasconde tutta l’ipocrisia dietro agli USa, a partire da una canzoncina scritta da uno schiavista (dopo la battaglia di Baltimore) e che si vorrebbe far suonare per rappresentare gli ideali di libertà, quando quelli che stavano combattendo per la libertà furono sconfitti dai ricchi di allora, un po’ come Kap oggi viene sconfitto dai ricchi di ora (i proprietari NFL ).
    Purtroppo è anche abbastanza ipocrita il fatto che la Nike, azienda che sfrutta il lavoro nel sud est asiatico, la usi per farci soldi, però questo è il mondo del businees: vale tutto e il contrario di tutto purché ci si guadagni.

    1. Ciao Sandro, grazie per aver letto e commentato.
      Sono d’accordo su tutta la linea, l’importante è non perdere cognizione del fatto che la protesta di Kap è su basi umanitarie. Insomma, distinguere la deriva di una storia dai valori che dovrebbe insegnarci.

  2. Grazie a te Dario per l’ottimo articolo.
    Ovviamente concordo, anche per me è comunque una campagna degna di lode.
    Anzi, io ancora non capisco (o meglio lo capisco ma mi sembra stupido) perché quando si è infortunato Rodgers i Packers non l’abbiano firmato o perché non firmino Reed ora che hanno bisogno di una safety.
    Strano perché di solito gli americani se un pregio ce l’hanno è sicuramente quello di non guardare a parenti, ideologie politiche, colore e persino fedina penale quando c’è da raggiungere un obiettivo.
    Forza Kap 🙂

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