La sigaretta del Super Bowl
Non sono mai stato un fan del football americano. Anzi, non conoscendolo, l’ho anche disprezzato. Da buon europeo, pensavo fosse una sorta di aborto redneck del rugby, uno sport inutile, troppo a stelle e strisce per piacere a un malato di calcio. E ovviamente non ne avevo mai visto una partita. Si può serenamente affermare che l’esperienza più vicina a guardare una partita di football che avessi mai fatto è stata guardare Ace Ventura – Pet Detective, con tanto di delfino rubato e facce di Jim Carrey. Ma del football, proprio, non mi piaceva niente senza che manco sapessi cosa fosse.
Poi, all’improvviso, la folgorazione. Ho sempre amato le belle storie e, ancora di più, le belle storie inerenti allo sport. Beh, circa un paio d’anni fa un mio amico mi ha raccontato – mentre andavamo in macchina a San Siro – di un quarterback leggendario, tale Peyton Manning, di quanto fosse forte e di come avesse letteralmente cambiato il gioco grazie alla sua capacità para-scientifica di entrare nella pelle degli schemi di attacco e di difesa, leggendoli come se fossero libri di testo delle elementari. Un uomo che addirittura aveva il potere di cambiare le decisioni dei suoi coach o che inventava schemi suoi. Un genio, in pratica.
Lì mi è suonato in testa un campanello, molto simile a quello che ha accompagnato altre mie folgorazioni sportive. Da uomo di pallone, ricordo che la mia prima in assoluto è stata Ronaldo il Fenomeno mentre la più forte – che ha finito per condizionare la mia vita e il mio approccio al calcio molto più di quanto potessi mai pensare – è stata Johan Cruijff. Un uomo che ha rivoluzionato lo sport che praticava, che l’ha rivoltato come un guanto e che ha fatto talmente tanti proseliti che ancora oggi è pieno di giocatori e allenatori che si confrontano con i dettami che ha imposto. I nomi dei seguaci del 14 olandese non ve li faccio, ma sono conosciutissimi credetemi.
Ecco, con Manning è successo qualcosa di simile, innescato da una storia intrisa di un epos che aveva tutti gli elementi per un romanzo d’altri tempi o, più realisticamente, un poema eroico: la predestinazione, il talento totale e quasi senza precedenti, una dinastia del football più che una famiglia, il successo a livello di squadra tutto sommato molto sottodimensionato rispetto a quello individuale, la caduta arrivata per mezzo di un infortunio grave, la riabilitazione come Purgatorio personale, il ritorno con un’altra pelle – quella dei Denver Broncos – e le rinnovate ambizioni di gloria per concludere una carriera leggendaria chiedendo finalmente il conto a un destino che non gli ha dato fino in fondo ciò che meritava.
Ne sono rimasto soggiogato. Senza vederlo giocare, senza nemmeno sapere le regole del football. Solo leggendo di lui. E ho iniziato a tifare per lui, per lo Sceriffo. Tiepidamente, all’inizio.
Ho cominciato a leggere di più sul mondo della NFL e a seguire distrattamente i risultati (per le partite non mi sentivo pronto, non si poteva affrontare uno sport così complesso senza una guida), non tanto ma il sufficiente per sapere che quello che nella mia testa doveva essere il giusto finale della sua carriera era stato polverizzato dai Seattle Seahawks prima ancora che i suoi Broncos potessero dire “Super Bowl”.
Mi sembrava tipico, scontato: scegliere di tifare il fenomeno romantico, il leggendario eroe in parabola discendente di cui sogni il riscatto e che molto probabilmente non più di una chance di tornare là dove il suo DNA lo collocherebbe di diritto e vederlo perdere l’occasione della vita.
L’anno scorso sono stato molto poco preso dal mondo NFL. Ho letto di quando in quando cosa facesse Denver, come stesse Peyton, le storie di altri personaggi di spicco del suo mondo. Ho scoperto che esiste uno che si chiama Tom Brady e che è la nemesi del mio diletto. Ma non c’erano i presupposti perché potessi immergermi davvero nel football, non ero ancora abbastanza maturo. E ho avuto ragione, visto che hanno vinto i Patriots.
(Per la cronaca: ho ovviamente guardato la performance di Katy Perry. Va bene non avere troppa simpatia per New England ma ignorare la divina Katy sarebbe stato contrario a tutti i miei principi.)
Poi quest’anno Dario ha avuto la pazienza di guardare non una ma ben due partite di fila con me in una maratona da sei/sette ore, spiegandomi come funzionasse il gioco, la sua logica e le nozioni base per seguirlo senza annoiarsi, rendendo tutto sufficientemente semplice perché anche la mia mente una volta così refrattaria potesse apprenderlo abbastanza da poterne godere.
Quando sono arrivati i playoff, qualche settimana fa, sapevo a malapena che c’era anche Denver. Troppo calcio, troppo Natale, troppe cose nuove da scoprire tra NBA e chissà che altro. Me ne sono accorto da perfetto occasionale quando, quasi per caso, ho trovato in tv l’ultimo quarto della sfida valida per la qualificazione al Super Bowl tra Broncos e Patriots. Ho deciso di guardarla da solo sforzandomi di ricordare tutte le spiegazioni di Dario e provando a ripeterle (male) a mio padre – che non ha capito nulla. Comunque, sapete com’è finita. Peyton è andato in finale.
Mi sono rilassato. Sapevo che mancava parecchio al Super Bowl. La scorsa settimana ho ricominciato a leggere e a informarmi, il cuore batteva e sperava nel Gran Finale che avevo immaginato due anni fa più di quanto non potessi capire. Quando il #SB50 è iniziato ho capito che l’avrei visto tutto.
E adesso sono qui, incredulo. Incredulo perché ho sofferto coi Broncos come non avrei mai immaginato di poter fare. Perché ho esultato come un pazzo quando hanno fatto prima i 22 e poi i 24 e non ci avrei creduto, se me l’avessero raccontato prima. Perché, alla fine, sono diventato tutt’uno con loro.
Mi sono scoperto orgoglioso di Von Miller dopo che l’avevo visto andare a valanga su Brady per un quarto d’ora e – soprattutto – avevo letto mille match preview in cui veniva citato. Mi sono reso conto che quella sfumatura di arancione (a me già cara – ricordate Cruijff) m’è entrata sotto pelle dopo una partita e un quarto. Per Peyton Manning ma non solo.
E sono appunto qui, che fumo una sigaretta che, tra le mie labbra, ha lo stesso sapore del sigaro della vittoria che tanti giocatori si gusteranno nella loro notte di gioia che, per me, sarà un mattino di (pochissimo) sonno. Ma, senza dubbio immeritatamente, anche io mi sento vincitore come loro. Da novizio assoluto.
Perché, come diceva qualcuno, non importa come ti avvicini o che emozioni provi, alla fine quel che resta dopo un Super Bowl in cui hai tifato come se non ci fosse un domani è solo l’amore. E se non è amore restare sveglio fino alle cinque per seguire la quarta partita di football della tua vita cos’altro può esserlo?
Giorgio Crico è fondatore di Echeion.it. Collabora con i siti sportivi MondoPallone.it e passioneinter.com
Dalla sua bio: Laureato in Lettere, classe ’88. Suona il basso, ascolta rock, scrive ed è innamorato dei contropiedi fulminanti, di Johan Cruyff, della Verità e dello humour inglese. Milanese DOC, fuma tantissimo.