La solitudine del kicker

Secondo l’intellettuale argentino Luis Borges, gli Stati Uniti avrebbero sopperito alla mancanza di una mitologia paragonabile a quella europea -che affonda le sue radici in una tradizione millenaria- “epicizzando” la contemporaneità, ed in particolare le gesta dei loro atleti. Per questo motivo, la narrazione sportiva americana assume spesso toni mitologici. Probabilmente Luis Borges non ha mai visto una partita di football americano, ma non c’è prova più lampante della sua tesi dell’epica che ammanta i playoff della NFL. Il percorso di ogni pretendente al titolo sembra ricalcare quello di una quête Medievale, piena di insidie e nemici frapposti tra il cavaliere e quello che è il vero sacro graal dello sport americano, il Super Bowl. Sollevare il Lombardi Trophy che spetta al vincitore garantisce l’accesso al pantheon dello sport statunitense. È quindi inevitabile che il 17 Gennaio del 1999 i riflettori del mondo sportivo americano siano tutti puntati sul Metrodome di Minneapolis, dove i Minnesota Vikings ospitano gli Atlanta Falcons, perché le due squadre si giocano la possibilità di sfidare i Denver Broncos nel Super Bowl XXXIII in programma a Miami.

Se fuori dallo stadio la temperatura è abbondantemente sotto lo zero, all’interno il termometro emotivo si avvicina a temperature da fusione nucleare. Oltre all’importanza della posta in palio, c’è un altro fattore che contribuisce all’eccitazione dei 64.000 paganti. Il motivo è molto semplice: l’attacco dei padroni di casa sta scrivendo la storia. Guidati da Chris Carter, Randall Cunningham e dal rookie Randy Moss, i Vikings hanno fatto saltare col tritolo le difese di mezza NFL, aggiungendo ogni partita un vagone ad un hype train la cui destinazione sembra scontata: Miami, Florida. Nella stagione 1998 i Vikes hanno sbriciolato numerosi record: di punti in una stagione, di vittorie della franchigia, di touchdown segnati da un rookie.

quattro cavalieri
A proposito di sport e mitologia: i quattro cavalieri dell’apocalisse Violet and Gold

I protagonisti della stagione di Minnesota hanno tutti i tratti degli eroi mitologici. Randy Moss in particolare sembra la reincarnazione di Mercurio, il messaggero degli dei olimpici che gli antichi greci raffiguravano con le ali ai piedi. Nascosto dall’aura abbagliante di questi semidei, un altro personaggio sta scrivendo la storia. Un personaggio a tutti gli effetti minore, che non sembra nemmeno geneticamente degno di condividere il campo con i migliori atleti del mondo. Quel personaggio è il classico esempio di regular Joe, un tizio che se lo vedeste per strada mai andreste a pensare di aver davanti un atleta NFL. Si tratta del kicker Gary Anderson, che in quell’anno di grazia ha completato la prima stagione perfetta nella storia della NFL per un kicker, calciando tra gli uprights – i pali gialli posti a ciascuna estremità del campo – ognuna delle 122 volte in cui è stato chiamato in causa. Nelle rare occasioni in cui le difese avversarie hanno stoppato l’attacco, Anderson ha messo a segno un field goal da 3 punti, oltre ad aver convertito l’extra point successivo a ciascuno dei 75 touchdown segnati dai Vikings. Viste le premesse, ogni singolo tifoso Skol si aspetta di vedere il proprio attacco sbarazzarsi dell’ennesima vittima sacrificale nel cammino verso il Super Bowl. Il match segue però un copione diverso, che vede i Falcons ancora aggrappati alla partita quando, sul risultato di 27-20 per i padroni di casa, la loro difesa riesce a stoppare i Vikings con 2.07 minuti sul cronometro all’altezza delle 25 yards. I Vikes si trovano così a tentare un calcio che porterebbe il risultato sul 30 a 20, vanificando le speranze di rimonta degli ospiti. Come spesso accade al termine delle partite più combattute, un calcio sarà decisivo per l’esito finale.

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Il ruolo del Kicker

Il field goal è chiaramente il discendente diretto del calcio di trasformazione del rugby, sport del quale il football è la rivisitazione a stelle e strisce. Ma a differenza dell’antenato d’oltreoceano, nel football è stato istituito un ruolo deputato esclusivamente al calcio. Questa evoluzione ha fatto sì che si sviluppasse un ruolo, quello del placekicker, completamente antitetico rispetto all’ethos del football. Non partecipando alle fasi di contatto, al kicker non è richiesta la struttura fisica necessaria per le altre posizioni. Di conseguenza, il kicker fa parte del roster pur essendo esentato dal supplizio fisico intorno al quale i suoi compagni cementano lo spirito di squadra. E questo, in una lega di maschi alpha, fondata sull’etica del grind e del confronto fisico spinto ben oltre il parossismo, non può che renderlo un emarginato. Nelle gerarchie di una squadra di football, i kicker occupano i gradini più bassi, al punto che spesso non vengono nemmeno considerati giocatori di football a tutti gli effetti. Durante la stagione 1996 il leggendario coach Bill Parcells vide un suo giovane kicker placcare ferocemente Herschel Walker, il gigantesco running back dei Cowboys. Quando quel giovane kicker tornò in panchina dopo aver atterrato un atleta del calibro di Walker, Parcells gli si fece incontro ed esclamò «you’re not a kicker, you’re a football player!», non sei un kicker, sei un giocatore di football!.

Quel kicker si chiamava Adam Vinatieri e sarebbe diventato il migliore della storia. La leggenda narra che senza quella dimostrazione di virilità contro i Cowboys, Parcells avrebbe potuto tagliare Vinatieri. È ironico che il miglior kicker di sempre abbia dovuto dimostrare di non essere un kicker per salvare il posto di lavoro. Da allora, le cose non sono cambiate, nel senso che la reputazione dei kicker è sempre rimasta piuttosto bassa. Eppure le fortune della squadra poggiano spesso sul loro sangue freddo nei momenti decisivi, quando un’intera stagione dipende dalla precisione del loro calcio.

Il fatto che a decidere l’esito di uno sport così massacrante sia l’atleta meno prestante e carismatico, in una lega dominata da atleti prestanti e carismatici, fa parte di quelle contraddizioni tipicamente americane incomprensibili al resto del mondo, come rifiutare il sistema metrico-decimale e vendere fucili d’assalto nei supermercati. I finali di partita seguono spesso questo copione: il quarterback inizia l’ultimo drive della partita, sotto di un punto e con meno di due minuti da giocare. Con decine di yard da guadagnare e pochissimo tempo per farlo, l’esecuzione delle giocate dev’essere impeccabile. Questa situazione è nota come two-minute drill, e i migliori quarterback (Tom Brady su tutti) l’hanno elevata a forma d’arte. Un lancio dopo l’altro si mangiano il campo alle loro spalle, ad ogni yard concessa la difesa si scopre sempre più inerme davanti alla marcia inarrestabile dell’attacco. Arrivati all’ultimo quarto di campo, nel momento di massimo climax, dove ci si aspetterebbe la conclusione più alta del capolavoro… “Timeout!”, esce il quarterback ed entra il kicker per provare il calcio. Come se Pavarotti un attimo prima del “Vinceròòòò” alla fine di “Nessun Dorma” lasciasse il palco all’addetto al trucco. È una dinamica difficilmente immaginabile in altri sport: per fare un paragone con il mondo del calcio, immaginatevi Cristiano Ronaldo che si guadagna un rigore al 90’ e Pirlo che lo sostituisce per far calciare il terzo portiere Pinsoglio. Il paradosso del kicker consiste quindi nell’essere allo stesso tempo il giocatore meno rappresentativo e quello più decisivo, la comparsa chiamata a decidere il finale della storia. Il detto secondo cui gli sport di squadra si giocano prima con la testa che con i piedi (o con le mani) è applicabile anche al kicker, ma l’accezione di “giocare con la testa” è radicalmente diversa nel suo caso. Se ad esempio per un cestista “giocare con la testa” significa mostrare capacità di lettura e reazione ai movimenti di compagni e avversari, nel caso del kicker l’espressione si riferisce alla capacità di controllo sulla propria sfera emotiva. La capacità, insomma, di mantenere la calma per impedire che pensieri ed emozioni interferiscano con la meccanica di calcio. Sotto questo aspetto, la figura del kicker è assimilabile a quella del tiratore al piattello o con l’arco. Questi ultimi, tuttavia, praticano sport individuali nei quali l’atleta è responsabile del suo fallimento o del suo successo solo di fronte a sé stesso. Dal successo del kicker, invece, dipendono le sorti di un’intera squadra, e questo aspetto aggiunge un’altra fonte di pressione da padroneggiare.

Back to Minnesota

Mentre l’attacco dei Vikings si fa strada verso la endzone dei Falcons, il resto della squadra è a bordo campo ad incitare e soffrire con i compagni. Anderson è qualche metro indietro, completamente isolato, mentre con il supporto di un’asticella che fissa il pallone calcia in una rete posta a pochi metri di distanza, aspettando il suo momento. La pressione dev’essere snervante, ma Gary Anderson entra in campo con la consapevolezza di chi non sbaglia da più di un anno. Prima del calcio più importante della storia della franchigia il suo volto da impiegato di banca, parzialmente coperto dal casco cornuto dei Vikings, non sembra tradire emozioni. Per lui e per l’holder Mitch Berger (il giocatore che ferma la palla per permettere al kicker di calciare) è un calcio relativamente semplice: in quindici anni di carriera Anderson ne ha segnati di molto più difficili, calciando da più lontano, in trasferta, lottando contro il vento che sporca le traiettorie disegnate dal suo piede destro. Lo stesso Berger ha descritto la sensazione di routine provata durante quel calcio: “Gary di solito curvava la traiettoria verso l’esterno, poi la palla rientrava. Quella volta la palla ha curvato, ha cominciato a rientrare e poi, a metà strada, l’effetto è finito e la palla è andata dritta. Non era mai successo”.

gary anderson calcio

Il momento esatto in cui Anderson si rende conto che qualcosa è andato storto

Dopo 398 giorni di perfezione assoluta, qualcosa va storto e il calcio di Anderson si spegne dalla parte sbagliata dei pali. Eppure per un’istante il Metrodome erompe in un boato di gioia: perfino gli spettatori con la visuale migliore sono convinti che la palla sia entrata, come fossero in preda ad un’allucinazione di massa. La palla invece è uscita e così, in un istante, l’inerzia passa dalla parte di Atlanta, che grazie alla prestazione eroica di uno zoppicante Chris Chandler segna il touchdown che porta l’incontro ai supplementari. A quel punto si consuma lo psicodramma collettivo innescato dall’errore di Anderson, con l’attacco di Minnesota che si scopre improvvisamente sterile e Atlanta che vince la partita grazie ad un calcio del suo kicker Mortensen. La stagione dei record si è conclusa con il record meno invidiabile di sempre: i Vikings sono la prima squadra a finire la stagione regolare col record di 15-1 e non vincere il Super Bowl. Al commento per Fox Sports, Pat Summerall cattura perfettamente la disperazione che aleggia nel Metrodome, esclamando “It’s like getting punched in the guts for Vikings fans”: È come prendere un pugno nello stomaco per i tifosi dei Vikings. Negli spogliatoi, i pochi compagni che riescono a trattenere le lacrime e la delusione si avvicinano a Gary per cercare di consolarlo, di ricordargli che se loro avessero giocato meglio il suo errore non sarebbe stato decisivo. Le loro parole sono sincere, ma Anderson sa che il suo errore è quello che resterà marchiato a fuoco nella storia della franchigia. Sa che quel pallone mezza yard troppo a sinistra ha cancellato i record, ha cancellato il ricordo della stagione perfetta, ha cancellato il suo nome dalla Hall of fame, consegnandolo all’immaginario collettivo americano come sinonimo di tragedia sportiva.

Dopo quel calcio sciagurato, Anderson è rimasto nella NFL per altri sei anni, di cui quattro a Minneapolis, sfiorando una seconda stagione perfetta. Si è ritirato nel 2004 da recordman per punti segnati e nella top 3 in tutte le categorie rilevanti per un kicker. Il fatto che sia resistito ad un errore del genere racconta meglio di ogni statistica la sua grandezza. Sua moglie Kay ha provato a rendere giustizia ad una carriera strepitosa aprendo il blog garyandersonperfectseason.com, dove ripercorre la storia di Gary e ne racconta la vita dopo il ritiro dal football, tra la pesca nei laghi canadesi e i progetti di beneficenza. Ma non c’è niente da fare: nonostante gli sforzi della signora Anderson, a tenere vivo il ricordo di Ryan saranno le classifiche degli shock più grandi della storia del football e, ancora di più, gli incubi peggiori dei tifosi dei Vikings.

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American (anti)hero

Il topos più ricorrente nella “mitologia” statunitense è quello dell’eroe che fallisce, si rialza e faticosamente giunge alla gloria. Come recita un detto: “To fail is not american, it is human. But it is american to overcome that failure”: Fallire non è americano, è umano. Ma è americano superare quel fallimento. L’american hero deve quindi fallire e usare l’umiliazione subita come motivazione per trionfare. Il kicker sembra emarginato anche da questo punto di vista: per questo antieroe il fallimento non è  un trampolino di lancio, ma spesso e volentieri una pietra tombale. Ogni anno diversi kicker sperimentano quanto è amaro il loro destino: un errore decisivo è sufficiente per essere marchiati come broken ed essere accompagnati alla porta, fagocitati dal darwinismo spietato della NFL. Il kicker è l’eroe anti-americano per eccellenza, la possibilità redentrice della seconda chance per lui è poco più che un’illusione. Se è vero che i miti di ogni epoca cristallizzano i valori della cultura che li ha generati, allora la narrazione pseudo-mitologica delle imprese sportive riflette l’immagine che gli americani vogliono avere di sé stessi. È un’immagine fortemente stereotipata, secondo la quale il successo è alla portata di chiunque lavori abbastanza per meritarselo. Le sventure dei kicker, la precarietà della loro condizione sono invece l’altra faccia di una cultura che riesce ad affrontare la paura del fallimento solo rendendola condizione essenziale per raggiungere il successo, il vero valore fondante della società americana e di uno sport che come nessun altro è capace di rappresentarla, nel bene e nel male.

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Alberto Cantù

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Un Commento

  1. Bellissimo articolo
    E complimenti per the playbook, me l hanno regalato e ha davvero una marcia in più, quello che serviva

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