[W8] Lettera aperta a Tim Tebow

nflCaro Tim Tebow,
 
in questo periodo tutti parlano di lei. Dirà: “E’ da un po’ che mi succede”, ed ha ragione. Ma ammetterà anche che, mai come ora, chiunque parla di lei sembra rientrare per forza in una fra due categorie: Tebow-lover o Tebow-hater. 
Stranamente, una via di mezzo non esiste, una possibilità di analizzare obiettivamente il suo essere giocatore di football (la sua persona, 

tebow

fortunatamente, non è in discussione) pare non poter essere presa in considerazione. E sembra impossibile discutere semplicemente delle sue prestazioni sul campo senza amarla od odiarla, ed esprimere quindi un’opinione che non sia influenzata da uno di questi due sentimenti.
E tutti, dalla stampa ai tifosi, si allineano più o meno consciamente a una delle due categorie. Ad esempio i suoi fans la difendono a spada tratta: si appellano al suo trionfale passato con i Florida Gators, alla sua capacità di improvvisare sul campo ed al suo atletismo, alle sue doti non comuni di leadership, ai suoi “intangibili” che sono cosa che non si può insegnare, o ce l’hai o non ce l’hai, e lei sicuramente li ha. Per loro, quindi, non c’è niente da discutere: Tim Tebow è l’uomo della provvidenza, la maglia numero 15 è quella del salvatore della patria e chi non lo vede è prevenuto o non capisce niente di football.
E d’altro canto chi la odia – e oggi, ahilei, sembrano essere la maggioranza – non ha ugualmente bisogno di molti argomenti: dicono che basta prendere il suo rating al termine della partita di domenica, twittato e retwittato per tutta la rete, e vederne una inoppugnabile prova di incapacità (beh, converrà anche lei che 26.3, in effetti, è bruttino), oppure basta guardare i primi tre quarti della partita a Miami, o come lancia la palla, o di quanti metri manca i ricevitori aperti, o la faccia perplessa del suo allenatore sulla sideline, eccetera eccetera. Per loro, quindi, non c’è niente da discutere: Tim Tebow è un bidone colossale, diciamo nella stessa classe di Ryan Leaf, i Broncos sono spacciati e come hanno fatto a sceglierlo e chi non lo vede è prevenuto o non capisce niente di football.
Devo dirglielo: molte di queste prese di posizione mi sembrano pregiudizi, concetti espressi ‘a prescindere’, limitandosi all’esame della “persona Tim Tebow”. Perché un ragazzo come lei, personaggio comunque, uno degli atleti più gloriosi della storia dello sport universitario, giovane e carino, con una visibilità enorme, un conto in banca presumibilmente consistente e – sì, lo dico – una convinzione religiosa netta, coltivata ed esibita, suscita inevitabilmente prese di posizione e sentimenti nelle persone. E i sentimenti, si sa, influenzano i giudizi.
Allora, proviamo a isolarci dai sentimenti, e guardiamo i fatti.
Molto si è detto, ad esempio, dei suoi ‘fondamentali’: del fatto che le manca la tecnica, che non ha ‘i passi’, eccetera. Io ricordo che, prima del draft, lei aveva lavorato molto sulla sua meccanica di lancio con un coach privato, per cambiare il suo movimento ritenuto non adatto al gioco della NFL. Aveva imparato a tenere il pallone più alto per proteggerlo meglio, a rilasciarlo più alto per alzare la parabola e cose così. E ricordo che, a vedere il confronto visivo fra come lanciava prima e dopo, il mutamento era palpabile. Vero è che per suoi colleghi usciti dal college con dinamiche di lancio molto più rivedibili della sua (adtebow esempio, il vistosissimo ‘sidearm’ di Philip Rivers) non si erano spesi i fiumi di inchiostro versati su di lei, ma questa è un’altra storia. È possibile che tutti gli sforzi che aveva fatto siano stati vani, e che la nuova tecnica sia stata dimenticata?
Una delle cose positive che invece le si riconosce unanimemente è la sua capacità di ‘accendere la scintilla’, di far succedere le cose in campo. La combinazione delle sue capacità di motivatore, delle sue abilità atletiche e della sua capacità di saper stare in prima linea possono generare – e lo hanno fatto – azioni incredibili, in grado di spostare l’inerzia di qualsiasi partita. Come si dice, “you can’t coach this”.
Un altro fatto oggettivo è che contro i Lions lei è stato sackato 7 volte. La protezione che la sua linea d’attacco le ha garantito è stata, a voler essere gentili, rivedibile (penosa, a voler essere realisti); troppe volte si è trovato Suh e compagni addosso senza poter fare nulla che non fosse cercare di correre o liberarsi del pallone. Molti altri suoi colleghi, in condizioni simili, avrebbero avuto dei problemi.
Molti altri colleghi, però, avrebbero forse fatto altre cose. Non necessariamente correre (in quello lei è probabilmente migliore di tre quarti – almeno – degli altri quarterback NFL), ma qualcos’altro: sa, quelle cose che un quarterback fa sotto pressione quando sa di aver esaurito le alternative disponibili e di non potersi permettere altro. Quelle cose che riescono così bene a gente come Brady, Manning, Brees o Rodgers: ai campioni, certo, ma soprattutto alla gente con esperienza.
Non so se posso permettermi ma, sa, signor Tebow ,  l’anno scorso prima del draft in cui sarebbe stato scelto io avevo un’idea sulla sua situazione. Ho sempre pensato che lei avesse tutte le carte in regola per farcela a diventare qualcuno nella NFL, e farlo nel ruolo più difficile, quello del quarterback. Solo che avrebbe dovuto finire nella giusta situazione: un posto in cui le venisse concesso più tempo per crescere rispetto a quello normalmente concesso ad un quarterback rookie ed in cui non ci fossero stati problemi ad inserire negli schemi della squadra un quarterback atipico come evidentemente lei era (ed è tuttora).
Tutto questo piano, ottimo sulla carta, è stato rovinato nel momento in cui lei è stato scelto al primo giro, 25° assoluto: un po’ troppo presto rispetto alla situazione che per lei sarebbe stata ideale ed anche – me lo conceda – rispetto al suo reale valore in quel momento in un campo da gioco (i ricavi delle maglie col numero 15 sono un’altra cosa). A quel punto era chiaro che non sarebbe stato possibile concederle i tre anni di apprendistato che ad esempio ha avuto Aaron Rodgers: a lui magari non sarebbero neanche serviti, ma a lei sì, eccome, e fino all’ultima settimana; solo che lui aveva davanti Brett Favre ed era un buon prospetto ma ‘passato’ da mezza NFL, lei invece aveva – con tutto il rispetto – Kyle Orton ed era, beh, Tim Tebow!
E nemmeno i Broncos del 2010 erano comparabili ai Packers del 2005. Magari non erano una squadraccia, ma erano in piena ricostruzione, e con un tebowallenatore nuovo, giovane e votato all’attacco. Poteva anche essere una buona situazione, in cui le sue capacità peculiari avrebbero forse potuto essere sfruttate a dovere. Invece, come sappiamo, tutto è precipitato in poco tempo, fino al cambio di allenatore e staff societario. L’unica cosa che non è cambiata è stata l’eccitazione che il suo nome ha continuato a suscitare nei tifosi, e questo, in fondo, è stato il suo grande problema. Perché ad un salvatore non si dà tempo: si attende il miracolo e basta.
Lei, lo sappiamo, i miracoli non li fa, ed invece di tempo ne avrebbe avuto bisogno, eccome. Tempo, soprattutto, per abituarsi alla velocità del gioco nella NFL, così enormemente diversa da quella del college. Qui non c’è tempo per ragionare prima di passare, perché i difensori ti sono addosso con una velocità che nella NCAA avevano in tre o quattro e qui ce l’hanno tutti. E lei, che era magari abituato ad avere 8-10 secondi per leggere l’azione ed agire ora ne hai al massimo 5-6; e se la linea d’attacco non regge (ahia) magari nemmeno quelli. Però te li devi far bastare, leggendo velocemente le alternative (e bisogna aver imparato a farlo, e questa , oggi, è la sua mancanza più grave) oppure reagendo d’istinto. Lei, per fortuna, l’istinto ce l’ha, ma non sempre funziona. A volte va, e allora corri e chiudi anche il down; a volte non va, e allora con il difensore in faccia improvvisi qualcosa, perché è questo quello che si aspettano da te, che risolvi la situazione perché sei il quarterback e sei Tim Tebow. 
Se va bene – e magari anche il ricevitore ti aiuta – completi un passaggio; se va meno bene la spari fuori, oppure lanci tre metri a destra o sopra il tuo ricevitore libero, e negli highlights non si vedrà che hai un treno che sta per investirti, perché negli highlights si vede la palla, quindi si vedrà solo un passaggio completamente sbagliato; e se va male… beh, c’è sempre un difensore nel posto sbagliato pronto a ricevere il pallone.
Ora, signor Tebow, tutti hanno la certezza che lei non è un quarterback, ma un runningback che (non) sa passare, e magari sono gli stessi che anni fa parlavano così anche di Michael Vick. Oppure che non è un giocatore da NFL e che, soprattutto, non lo sarà mai. Io, che certezze non ne ho, non mi spingo ad affermare tanto. Rimango però sulla mia idea che le doti le abbia e che ce la possa fare: ma ci vorrà ancora tempo. Non so se succederà a Denver o altrove, non so se sarà quest’anno, il prossimo o l’altro ancora, ma credo che alla fine succederà. Sono sicuro però che nel frattempo lei non mollerà, e continuerà ad impegnarsi e ad essere se stesso perché – come spesso ricorda lei stesso – nella vita ne ha passate di peggiori. Così io, quando arriverà quel momento, potrò tornare a salutare sereno l’amico al quale, dopo averla vista giocare, avevo consigliato il suo nome al draft del fantasy football, dicendo: “Questo c’è, ed è un quarterback”. Non si arrenda, signor Tebow.
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Mauro Rizzotto

Più vecchio di quello che sembra, continua a sentirsi più giovane di quello che è. Fra una partita della sua Juve e una dei suoi Miami Dolphins sceglie la seconda. Fra una partita dei Dolphins e la famiglia... sceglie sempre la seconda. Vabbè, quasi sempre. Sennò il tempo per scrivere su Huddle dove lo trova?

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