[SB XLIV] Dalla sideline dei Colts

sbDa cosa è fatta la vita se non da scelte e conseguenze? Scegli di fare una cosa e le conseguenze possono ucciderti tanto quanto darti successo, fama, o semplicemente la vittoria in un SuperBowl.
Ma il football, come retoricamente spesso si dice, è una fedele metafora della vita di tutti i giorni, ed è quindi molto facile spiegare la sconfitta meritatissima degli Indianapolis Colts, partendo dal proprietario dei Saints che alza il Vince Lombardi Trophy nel tripudio del Sun Life Stadium e finendo sul suicidio collettivo che ha tolto quello stesso movimento ai giocatori vestiti di blu.
Dicevamo, 31 a 17, fischio di chiusura, inizio della festa gigliata. Poco prima quel pallone maltrattato da Reggie Wayne in End Zone avversaria, che dà matematicamente la vittoria a New Orleans. Sempre il numero 87 si era reso colpevole, con la partecipazione al 50% del suo quarterback, dell’intercetto di Tracy Porter che aveva reso il divario tra le due compagini incolmabile. Ma ciò non spiegherebbe totalmente una sconfitta da favoriti che brucerà per molto in Indiana.
Sull’ultimo barlume di vantaggio rimasto ai Colts, una scelta scellerata infonde, per almeno la terza volta in partita, fiducia nei cuori di Drew Brees ed i suoi. Su un quarto down si manda in campo Matt Stover per portare a 4 i punti di vantaggio, ed essere “a prova di field goal”. Fino a qui tutto bene, ma poi lo sguardo si abbassa sulle hash mark ed i numeroni intorno ad esse: sarà un calcio da 51 yard. L’ex kicker di Baltimore, a 40 anni suonati, è già tanto se la mette tra i pali dalle 30, e non realizza un field goal da più di 50 da circa due anni. Fa il meglio che può, ma il punteggio rimane stabile, visto che l’ovale scivola via alla sinistra dei pali. I Saints hanno la palla sulla metacampo, Brees non sbaglia un passaggio dal primo quarto, Devery Henderson ha una serie di posizioni facili per ricevere, Reggie Bush è bello fresco per portare la palla o ricevere anch’egli. Ma non è l’inizio della fine per i Colts, quella era arrivata molto prima.
Freeney10 a 3 al 2-minute warning del secondo quarto. Con il concerto degli Who che si avvicina sempre di più, New Orleans è in palese difficoltà ed all’inizio del terzo quarto la palla sarà dei Colts (o almeno avrebbe dovuto esserlo). La difesa, anche con un Dwight Freeney forse al 30 percento, ha appena fermato per ben due volte gli avversari sulla linea della propria area di meta, sventando il pareggio. E’ forse questo l’unico momento in tutto l’incontro in cui l’inerzia è chiaramente dalla parte dei campioni della AFC. Ma ancora scelte sbagliate avranno conseguenze scontate. Peyton Manning si affida per tutto il down seguente alle corse del suo backfield. Prima poco guadagno, poi il secondo tentativo è stoppato, mentre il cronometro viene fermato. Chiamare dalla sideline un drive così desueto per un attacco che, nonostante Joseph Addai sia in forma perfetta, non si è mai affidato alle corse con continuità, è un errore bello e buono. Il primo down non arriva, New Orleans si riprende il pigskin e realizza altri tre punti che la riavvicinano nello score ma ancora di più nella consapevolezza di poter vincere. Forse è proprio in questi istanti che Sean Payton partorisce l’idea di quell’onside kick che deciderà gran parte del SuperBowl numero 44, anche se il coach campione del Mondo probabilmente affermerà imperterrito che era già pianificato.
Due scelte sbagliate, due chiodi imponenti sulla bara dei Colts.
A cucire la matassa abilmente poi sfilacciata da Jim Caldwell, il numero 18, quattro volte MVP della lega, che domenica sera a Miami era ad un solo passo dalla leggenda. Lancia clamorosamente bene nel primo quarto, ma poi non riesce a invertire la rotta di una squadra destinata al fallimento. Quando la palla scotta dimostra di essere migliorato nella freddezza, accollandosi un quarto tentativo cruciale nell’ultimo parziale, chiuso con lo slant del primo down che dava una piccola spinta al suo attacco. Intorno a lui, facce anonime di una squadra completa ma che perso Freeney non ha più fatto paura a nessuno degli avversari, impegnati costantemente nell’operamanning di intimidazione dell’avversario e di costruzione di un clima di festa tanto familiare a chi non ha nulla da perdere. Wayne irriconoscibile sbaglia le tracce, le percorre lentamente, perde qualsiasi vantaggio sul suo marcatore. Minacciati dal grande Darrenn Sharper, i Colts non cercano la profondità, e quindi Addai deve accettare di essere il vero playmaker in molte occasioni. Lo fa benissimo per circa tre quarti, poi, quando c’è il bisogno di variare gli schemi offensivi, attingere a draw o delay, ha il fiato corto ed è facile annullarlo.
In difesa, incredibilmente, Indianapolis non è preparata per il via-vai di uomini di linea dalla panchina. Molti elementi si alternano all’acciaccato numero 93, si spostano da destra a sinistra dello schieramento, non trovano grip sul terreno e fiducia nelle loro azioni. Brees ha sempre mezzora per lanciare, non appena Freeney finisce le batterie.
E se sbagliare le scelte è umano, anche se gravissimo in questo caso, lo è ancor di più perseverare. La difesa in maglia blu si siede sul profondo sin dai primi snap, e non appena l’intelligente attacco della Louisiana inizia a lanciare sul medio raggio e trovare primi down su primi down, diventa inarrestabile, perchè una contromisura non è prevista.
Mentre vi scriviamo sono passate circa 8 ore dal quarantaquattresimo grande ballo, e più passa il tempo più, ragionando sulla partita, sembra incredibile l’atteggiamento del coaching staff nella tiepida notte della Florida del sud. Il trofeo più ambito è letteralmente volato via, nella totale impotenza della panchina, tra i suoi mille “consiglieri” che tanto scalpore fecero in estate e falsi coordinator senza voce in capitolo. Se Manning non fosse stato così grande in Regular Season e i matchup nei Playoff non fossero stati così benevoli, probabilmente il SuperBowl non sarebbe stato accessibile per i Colts. Insomma, è un giorno triste per loro, un giorno che getta ombre screditanti su una squadra che puntava alla dinastia e si ritrova con un solo trofeo in bacheca, come squadre del passato molto meno continue di loro.
L’antifona è sempre quella: “Sarà per il prossimo anno” si ripetono, forse un po’ penosamente, i tifosi. Peyton ripete solamente la parola “Disappointed” nelle interviste a caldo, ma per lui la delusione è doppia, così come per tutti quelli che credono che egli sia il miglior giocatore di tutti i tempi.
Anche questo, da oggi, sarà in forte dubbio. Perchè, così come nella vita, nel football conta il risultato, attenuanti per le scelte scellerate dovute alla paura o all’inesperienze di terzi non sono concesse.
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Dario Michielini

Segue il football dagli anni 90, da quando era alle elementari. Poi ne ha scritto e parlato su molti mezzi. Non lo direste mai! "La vita è la brutta copia di una bella partita di football"

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