L’ultimo snap – La storia di Iron Mike Webster

Pittsburgh, anni Settanta.

E’ difficile descrivere un periodo più irripetibile di questo nella storia di una squadra e di una città. Si respiravano ferro e football. La città delle acciaierie, la città operaia per definizione. La città dei blue collar workers, di coloro che si spezzavano la schiena e i polmoni nelle fonderie nella speranza che i figli potessero salire nella scala sociale e diventare medici e avvocati. La domenica era il giorno di riposo e di riscossa: si tirava fuori la Terrible Towel e si andava a tifare per la squadra che fino a poco prima era lo zimbello della lega ma che con un nuovo coach e un bel numero di scelte decisamente azzeccate aveva trovato la vera tempesta perfetta.
Bisogna notare che in quel periodo la AFC, da poco affrancatasi dalla definizione di Lega di Topolino, annoverava senza dubbio le squadre più forti della NFL. Gli Steelers di Chuck Noll dovevano confrontarsi con i Dolphins di Don Shula e i Raiders di John Madden, quindi la concorrenza era veramente pesante. La NFC mandava come vittime sacrificali solitamente i Cowboys di Tom Landry e i Vikings di Bud Grant, ma in quel decennio i numeri delle finali furono chiari, impietosi: otto titoli a squadre della AFC, due ai Dallas Cowboys.

Era un football diverso dalla pioggia di palloni di oggi. In due stagioni addirittura il numero totale di yard su corsa superò quello di yard su lancio (oggi sembrerebbe blasfemo). La shotgun formation era una dichiarazione di intenti chiarissima e si vedeva in campo con estrema rarità, mentre oggi fa tanto scalpore quanto il lancio della moneta prima dell’incontro.

E in quell’era di grandissime squadre gli Steelers furono senza ombra di dubbio quella più dominante di sempre, nell’arco di un periodo continuativo e con lo stesso nucleo di giocatori fondamentali. Gli Steelers vinsero quattro titoli in sei anni, impresa mai riuscita a nessuna altra squadra. Avere una squadra così forte in una città che non era una grande metropoli aveva una ovvia conseguenza: Pittsburgh e il football in quel periodo erano una parola sola.
Questa simbiosi, questa età dell’oro era palpabile ad ogni livello: anche i Pittsburgh Panthers erano una buona squadra NCAA. E i genitori che andavano a vedere i ragazzi delle high school potevano assistere, magari, a una partita fra East Brady e Central Catholic. I nomi potranno non dirvi nulla, ma in quel periodo il quarterback della prima era James Edward Kelly, quello della seconda rispondeva al nome di Daniel Constantine Marino.

Pubblicità

Ma torniamo agli Steelers: sotto la guida illuminata di Chuck Noll questa squadra dominò la lega in quel decennio in maniera incontrovertibile. Noll riuscì anche a capire l’evoluzione del gioco, la trasformazione in atto verso un football più aperto e più orientato ai lanci. Vinse i primi due titoli quando ancora si era nel periodo in cui dominavano corse e difesa, gli ultimi due quando si cominciava a mettere palla in aria con frequenza maggiore. Scegliendo bene dalle università, Pittsburgh debordava talento da tutte e due le parti della linea di scrimmage: una front seven composta sostanzialmente da mostri. Un triangolo delle Bermuda al centro: Mean Joe Greene, il miglior defensive tackle della storia del football (prima di Reggie White) e Ernie Holmes, una sorta di serial killer in casco e paraspalle. E un passo dietro di loro Jack Dracula Lambert, una fedelissima riedizione di Dick Butkus con qualche dente in meno. Ma in quella difesa c’era anche una coppia mostruosa di defensive end, a nome Dwight White e LC Greenwood.

The Steel Curtain: Dwight White, Ernie Holmes, Joe Greene, LC Greenwood

Ma in quella difesa c’era anche Jack Ham, forse l’unico che non infieriva sui cadaveri dopo i placcaggi, sicuramente il miglior cover linebacker mai visto in azione. Ma in quella difesa c’era anche Mel Blount, uno dei primi shutdown corner di sempre. E Donnie Torpedo Shell, fior di safety. Affermare che su undici titolari questi avessero otto probowler non sarebbe un azzardo. Per curiosità, andando a vedere la lista dei cento giocatori più forti di sempre troviamo Joe Greene, Jack Lambert, Jack Ham e Mel Blount. Averli in campo nello stesso istante lascia poco spazio all’immaginazione.

Anche l’attacco degli Steelers, trovato il proprio nucleo di talenti, divenne in quegli anni una macchina meravigliosa. Terry Bradshaw era l’epitome perfetta del quarterback che serviva in quegli anni. Non aveva percentuali di completi come Brees o Rodgers, ma quando c’era da andare per il big play sapeva farlo come pochi. Fu il primo quarterback dell’era moderna a vincere quattro finali, venendo nominato due volte MVP. E dietro di lui il grandissimo Franco Harris, runner eccellente anche se consegnato alla gloria da una ricezione fortuita. Una coppia di ricevitori stellari, come John Stallworth e Lynn Swann. Uno strano tight end alto 1.79, Randy Grossman.
E questa macchina meravigliosa si metteva in moto sempre nella stessa maniera, azione dopo azione. Il centro usciva dall’huddle battendo le mani e correva verso la linea di scrimmage pronto a guidare la sua linea per la prossima battaglia nelle trincee. Questo giocatore con un ruolo oscuro, nevralgico e complesso, era un vero e proprio beniamino della tifoseria. Era un simbolo riconosciuto in una città in cui la vita è dura e il lavoro di più. Questo giocatore era quello che metteva in moto quella macchina meravigliosa. Questo giocatore era il numero 52: Iron Mike Webster.

Iron Mike Webster

Canton, Ohio, 1997

No, no. Non sedetevi, restate in piedi. Tanto sarò breve, non ho portato nemmeno qualche appunto, non mi servono appunti. Beh, io conosco il sedere di quest’uomo meglio di tutti. Quando Mike mi ha chiesto se volessi presentarlo io oggi, sono rimasto scioccato. Davvero non pensavo di meritare questo onore. Gli ho solo chiesto ‘Perchè?’. Lui mi ha detto ‘Chi mi conosce meglio di te, Blond Bomber?’ Così ho dovuto mettere insieme i miei pensieri su di lui, e ho riflettuto su questo: da ragazzo il mio sogno, come quello di tanti grandi giocatori che sono in questo luogo, era quello di giocare in una squadra di campioni. Il mio sogno era quello di avere un numero 88 a cui lanciare la palla (Lynn Swann). E volevo un tight end alto così, che ogni volta si liberasse in campo e mi dicesse ‘Dai Terry, sono libero, mi sono liberato su una traccia interna da cinque yard!’. Io non lancio per cinque yard! Poi datemi una guardia sinistra che sapesse fare bene i trap block, e ho avuto Sam Davis, un tackle sinistro a cui piacessero i cavalli e io avevo Jon Cowboy Kolb, e alle mie spalle un runner da Penn State soprannominato lo stallone italiano (Franco Harris). Poi datemi una difesa che potesse fermare questo attacco, e trovate un soprannome perchè una difesa NFL deve avere un soprannome. E io ho avuto la Steel Curtain. Jack Lambert, Jack Ham, Donnie Shell, Mel Blount eccetera eccetera… Se poi mi serviva qualcuno che potesse sputare in faccia a un reporter c’era anche Mean Joe. E un grande coach, e io avevo Chuck Noll. Ma una grande macchina deve avere un grande centro. Noi non avevamo solo un buon centro, avevamo il miglior centro della storia del football, e a quel punto la mia preoccupazione era che non fosse più bello di me. Fortunatamente non lo era… E quindi ho chiesto al mio sogno di darmi un vincente, qualcuno di cui potermi fidare sempre, qualcuno che mi aiutasse durante la partita, qualcuno che mi dicesse di cambiare il gioco guardando la difesa avversaria. Ci ha trainato per anni, davvero. Non ci sarà mai nessun altro così fedele ad una causa. Non ci sarà mai un altro Mike Webster. Adesso ho solo un’ultima richiesta. Aspetto questo momento dal 1989. Per l’ultima volta voglio mettere le mie mani sotto il sedere di Mike Webster!

(Terry Bradshaw, discorso di presentazione di Mike Webster per la Hall of Fame)

“One Last Snap”, Canton 1997

Terry Bradshaw probabilmente era il quarterback giusto per la squadra di una città operaia. Non ha mai preteso di essere il nome alfa degli Steelers degli anni Settanta, c’era troppa concorrenza e non solo in difesa. Ma non ha esitato un attimo quando gli è stato chiesto di spendersi per il suo compagno di squadra più vicino. Non è solo la simbiosi fra il quarterback e il suo centro, è proprio che Mike Webster era veramente un giocatore dominante nel suo ruolo. Riprendendo la lista dei cento giocatori più forti, lo troviamo al numero 68. E’ stato incluso nella squadra del decennio sia negli anni Settanta che negli anni Ottanta, anche se  nel second team: curiosamente, tutte e due le volte nel first team si trovò davanti il centro dei Miami Dolphins, ma non lo stesso giocatore: negli anni Settanta Jim Langer, il centro della squadra perfetta, negli anni Ottanta Dwight Stephenson, il centro perfetto.

Glory Days

Webster era un perfezionista, l’incrocio ideale tra lo scienziato del ruolo e il guerriero. Non tralasciava nessun aspetto del gioco, nemmeno quelli che potrebbero sembrare marginali. Nella guerra delle trincee era il leader riconosciuto della sua linea. Anche sotto la neve lui giocava tranquillamente in maniche corte, per far capire al difensore avversario che in quella lotta per la sopravvivenza avrebbe veramente trovato pane per i suoi denti. Giova ricordare che la posizione del centro, specie in quegli anni, era assolutamente nevralgica. Il centro leggeva la front seven avversaria, se necessario cambiava lui stesso lo schema di bloccaggio in linea, se qualcosa non era messo per il verso giusto allertava il quarterback. Non era soddisfatto della sua velocità di base, ma era sempre il primo a raggiungere di corsa la linea di scrimmage dopo l’huddle, perchè era forse l’unico giocatore che riusciva a mettere la stessa intensità dal primo all’ultimo snap.
Iron Mike aveva dei regimi di allenamento decisamente superiori alla media. Racconta suo figlio Colin che riusciva ad avere quel livello di resistenza proprio perchè nel tempo allenava le gambe quasi come un body builder professionista e contemporaneamente correva diverse miglia al giorno. Quando non era in palestra con la squadra, andava in giardino a fare squat con carichi tali da flettere la sbarra metallica e preferibilmente sotto la neve in maglia e calzoncini corti. Maltrattava la slitta spostandola da una parte all’altra del giardino, per perfezionare l’esplosività in uscita dallo snap.

Mike Webster si allena con il figlio Garrett

E paradossalmente allenarsi contro quei mostri sacri in difesa lo aiutava ancora di più. Racconta Mean Joe Greene che da un anno all’altro le cose cambiarono…

Arriva Ernie Holmes e mi dice che non è riuscito a spostarlo indietro di un pollice. Mi dice che forse è arrivato alto, o in ritardo, e che ci riprovava. Torna poco dopo e dice che non riusciva nemmeno a smuoverlo. E stiamo parlando di Ernie Holmes!

Pubblicità

(Mean Joe Greene)

La carriera di Mike Webster restituisce il ritratto del classico all time great. Arriva a Pittsburgh scelto al quinto giro nel 1974, quando gli Steelers indovinarono la migliore serie di chiamate per ogni squadra e per ogni epoca: nei primi cinque giri arrivano Lynn Swann, Jack Lambert, John Stallworth e Mike Webster: vale a dire quattro Hall of Famers nella stessa annata. Webster comanda la linea degli Steelers fino al 1988 e a fianco a lui passeranno tanti altri bravi lineman: Sam Davis e Jon Kolb negli anni d’oro, fino ai compagni delle battaglie degli ultimi anni, come Terry Long. In una fase della sua carriera gioca sei stagioni consecutive senza interruzioni, uno snap dopo l’altro, una battaglia dopo l’altra. Duecentoventi partite con la maglia degli Steelers, col casco nero con l’adesivo solo a destra. Quattro Superbowl vinti, sei volte All-Pro, nove volte al ProBowl. Questo è quello che si può raccontare, perchè gli intangibili che portava con sè li hanno già spiegati in parte Terry Bradshaw e Joe Greene.Nel 1988 questo monumento vivente degli Steelers diventa free agent e viene ingaggiato dai Kansas City Chiefs. Un po’ piegato da una carriera di quel tipo, Iron Mike per il primo anno sostanzialmente è un giocatore ritirato e porta la sua immensa esperienza come allenatore della OL, ma ci ripensa, e nel 1990 e 1991 effettivamente rientra in campo per le ultime due stagioni. Sembra esserci ancora, ma è stanco e si vede. Nel 1991 chiude una carriera irripetibile, fantastica. Ma innegabilmente una carriera pesantissima. Nel 1997, a sei anni dal suo ritiro, arriva la scontata chiamata per la Hall of Fame, in cui verrà presentato dal suo grande amico Terry Bradshaw con il discorso immaginifico di cui abbiamo riportato qualche passo.

E poi, l’ultimo snap.

Settembre 2002

Per chi ha visto e amato un certo tipo di football, arriva un ricambio generazionale traumatico.

Il primo ad andare via è un simbolo, un giocatore che ha onorato questo sport dall’epoca del fango, della polvere e delle tre yard per corsa fino all’epoca di Vince Lombardi e del Superbowl. E un giocatore così non può andare via in un giorno qualunque. Il destino lo colloca in quella che un anno prima è diventata la data simbolo per tutto il paese. Una data che individua un momento in cui fermarsi a riflettere. E molto probabilmente a versare qualche lacrima, perchè non può essere uno qualunque se è al numero sei della lista dei cento più grandi di sempre.
L’Undici Settembre del 2002 muore John Unitas.

John Unitas (1933-2002)

Una settimana dopo un cancro si porta via Bullet Bob Hayes, leggenda delle piste di atletica (10.04 sui cento metri) e grandissimo ricevitore dei Dallas Cowboys. Non cadiamo nel luogo comune dello sprinter prestato al football usato solo per tracce lunghe. Bob Hayes era un receiver fenomenale con quella velocità. E’ l’unico atleta ad aver vinto un oro olimpico (Tokio, 1964) e un Superbowl (il sesto, nel 1972)

“Bullet” Bob Hayes (1942-2002)

Gestire anche una sola di queste perdite nella storia del football già sarebbe stata una questione impegnativa. Salutare in un intervallo così piccolo due glorie del gioco fu veramente triste. Per la lega, per le squadre, per i tifosi e per gli innamorati del gioco. Magari sarebbe stato bello tornare subito al campo, agli aspetti più leggeri del gioco che ormai a pieno titolo era entrato da qualche tempo nella propria età dell’oro.
Già, sarebbe stato bello.

Il 24 settembre in un ospedale di Pittsburgh muore Mike Webster. Aveva cinquanta anni.

Il paziente zero. Mike Webster e Bennet Omalu

Mike Webster, uomo di linea e Hall of Famer, è morto il 24 settembre all’età di cinquanta anni. Era ricordato come un grande centro la cui forza era il simbolo dei Pittsburgh Steelers dell’epoca dei trionfi e i suoi problemi di droga e di salute fuori dal campo li hanno profondamente colpiti. Il giocatore è morto nel reparto di cardiologia dell’Allegheny General Hospital. Su richiesta della famiglia, l’ospedale non ha reso pubbliche le cause del decesso. La squadra degli Steelers ha detto in un primo momento che Webster è morto per un infarto, rifiutandosi successivamente di commentare. A Mike Webster vennero diagnosticati danni cerebrali nel 1999, come possibile conseguenza di tutti i colpi presi alla testa nel corso degli anni.

(Nota della Associated Press, 3 ottobre 2002)

Pubblicità
L’annuncio sulla stampa locale

Il medico legale di turno quel giorno era un giovane nigeriano: il dottor Bennet Omalu, specialista in neuropatologia. Al suo arrivo notò un assembramento di curiosi vicino all’obitorio. Stampa, televisione, qualche tifoso in lacrime. Omalu chiese cosa fosse accaduto, e gli venne risposto “E’ morto Mike Webster”. Lui era negli States da pochi anni, non aveva mai neppure visto una singola partita in televisione e con ingenuità ed educazione chiese “Chi è Mike Webster?”.
Si erano appena incontrati due destini: quello di un eroe silenzioso e tormentato e quello di un giovane medico dai modi gentili, che ogni giorno con passione e professionalità svolgeva un lavoro difficile, quello di capire che cosa effettivamente ci fosse dietro la morte di un individuo e come la sua vita potesse averla provocata o accelerata. Questo difficile incontro di lì a pochi anni avrebbe cambiato il gioco del football per come era conosciuto prima, portando alla luce un problema che non si poteva definire nascosto, ma che non era mai emerso come un dramma di quelle proporzioni: il football così come era non era più sostenibile per il corpo umano: tutti i giocatori potevano mettere in conto fratture, problemi articolari di ogni tipo, infortuni gravi fino alla paralisi, ma non era mai stato reso evidente il potenziale impatto che potevano avere sul cervello i normali contatti, proprio quelli che che si verificavano centinaia di volte a partita, in ogni normalissima partita.

Il dottor Bennet Omalu

Webster era praticamente consumato. Se non mi avessero detto l’età, avrei pensato a un settantenne
(Bennet Omalu)

Negli ultimi tre anni della sua vita, Mike Webster visse in un furgoncino, una busta di plastica al posto di un vetro rotto. Non era palesemente più in grado di compiere azioni che venissero guidate dalla logica. Non riusciva a capire che se aveva freddo poteva coprirsi con il giubbotto che aveva lì sul sedile, spesso piangeva e si confidava con i pochi amici rimasti. Con il tackle Justin Strzelczyk, che andava a portargli cibo e vestiti, con qualche amico occasionale che affrontava quell’omone che non sapeva più gestire i propri impulsi. Mike si era procurato un taser come quelli in dotazione alla polizia locale, e quando voleva dormire lo usava per infliggersi una scossa. Lo trovavano spesso così, svestito, sporco. Vomito e rifiuti intorno. Qualche anno prima aveva avuto problemi con la giustizia per aver falsificato delle prescrizioni per antidolorifici e sostanze psicotrope. Ogni tanto andava nel quartier generale degli Steelers, dove il dottor Julian Bailes lo assisteva, gli faceva fare esami specialistici e cercava di curare una cosa che non capiva neppure lui. Molto spesso quelle cure erano pagate da Terry Bradshaw.

Gli oltraggi subiti da quel povero corpo in vita erano davvero faticosi da accettare. Innumerevoli fratture alle dita delle mani e dei piedi, vene varicose sulle gambe, strette col nastro telato forse per tenere insieme le ossa. Due ernie sulla colonna, completamente in disordine. Una spalla fuori sede. Denti incollati con il mastice. Il dottor Omalu non si fermò alle apparenze. Volle capire perchè un cinquantenne che aveva avuto una vita così piena di soddisfazioni e così benvoluto dalla comunità avesse abdicato ad ogni forma di decoro fino a quel punto, fino ad una fine così iniqua.
Quando arrivò ad esaminare la fronte, notò una totale mancanza di tono del tessuto epidermico, privo di ogni tipo di elasticità. Il tessuto era completamente solidale con la parte ossea retrostante.

Quando ho aperto la scatola cranica, avevo già la mia idea sulla base dei miei studi, credevo di trovare un cervello che manifestasse già esteriormente i segni di un evidente morbo di Alzheimer. Ma quel cervello a prima vista era assolutamente normale, ed io non capivo. Ho deciso quindi di  studiare il suo cervello all’interno, perchè qualcosa non tornava
(Bennet Omalu)

All’interno del tessuto cerebrale il dottor Omalu avrebbe trovato le prove di una patologia cronica, prove che avrebbero cambiato molte cose nel football. Aveva trovato le prove che il football poteva avere effetti distruttivi sul cervello dei giocatori. La National Football League tenne per anni un atteggiamento di totale rifiuto verso una affermazione così devastante. Cercò di sminuire il lavoro di Bennet Omalu, arrivando a definirlo un voodoo doctor. Ma Omalu si mosse in maniera formalmente e scientificamente inattaccabile, anche perchè negli anni seguenti sul suo tavolo di lavoro avrebbe avuto modo di confrontarsi con altri drammi. Altri offensive lineman degli Steelers. Terry Long aveva tentato varie volte il suicidio, fino a che arrivò ad ingerire una grande quantità di liquido antigelo. Come Webster, Long giocava in linea offensiva. Aveva usato frequentemente steroidi e anabolizzanti per anni, specie quando era ancora diviso fra una carriera da giocatore di football e una da culturista.

Terry Long (1959-2005)

Justin Strzelczyk era il left tackle degli Steelers. In un certo periodo della sua carriera giocava a mezzo metro da Terry Long. Strzelczyk era il classico “compagnone”, quello che faceva gruppo con gli altri e se magari serviva un chitarrista c’era lui. Ed era una persona di animo buono, spesso andava a trovare Iron Mike nell’ultima fase, quella in cui viveva nel furgoncino. Gli portava cibo, abiti, coperte e i farmaci che poteva procurargli. Ci parlava, gli teneva compagnia, spesso lo accompagnava nella sede della squadra per farlo visitare dal dottor Bailes. Dopo qualche anno Strzelczyk si trasforma. Diventa incapace di gestire se stesso, i propri dolori e la propria rabbia. Maltratta la moglie e i figli piccoli senza motivo. Un giorno sale sul suo pickup e inizia una folle fuga in autostrada. Perde il controllo, salta nella corsia opposta e finisce addosso ad una cisterna che trasportava sostanze tossiche e infiammabili. Una fine atroce. Justin aveva trentasei anni.

Justin Strzelckzyk (1968-2004)

Un altro giocatore di una squadra della Pennsylvania si aggiunge a questo tragico elenco e forse è la conferma più importante che la cosa non riguarda solo chi gioca in linea ed è quindi costantemente esposto ai colpi in testa. Stavolta si tratta di un safety, decisamente una star del ruolo. Andre Waters si uccide all’età di quarantaquattro anni. Waters al suo culmine era uno dei migliori safety della lega, uno dei colpitori più temuti, uno dei tanti fuoriclasse della difesa dei Philadelphia Eagles in cui splendevano i talenti di Jerome Brown e Reggie White

Andre “Bad” Waters (1962-2006)

Waters aveva richiesto più volte alla NFL un aiuto economico e una assistenza sanitaria, senza successo.

Encefalopatia cronica di origine traumatica (CTE)

Il dottor Omalu volle esaminare nel dettaglio il tessuto cerebrale di questi giocatori, perchè voleva trovare ulteriori conferme alle ipotesi su cui stava lavorando dopo la morte di Mike Webster. I suoi studi cominciavano ad essere approvati dalla comunità dei neurologi e correttamente lui continuava a cercare prove ed evidenze perchè il solo caso di Webster, sebbene eclatante, non faceva giurisprudenza nè statistica. Ma se c’è una religione che a Pittsburgh non può essere messa in discussione, quella è il football. Omalu venne criticato e ostacolato aspramente e arrivò a pagare di tasca propria tutti gli esami che richiedeva, spendendo circa centomila dollari. Tuttavia trovò un alleato inaspettato e fondamentale proprio nel medico dei Pittsburgh Steelers, il dottor Julian Bailes, che sicuramente conosceva quel contesto in profondità ed era conscio di cosa significasse imbarcarsi in una battaglia di questo tipo contro l’entità sportiva più forte del pianeta, quella entità che possiede un giorno della settimana, citando il film Concussion .

Prima di arrivare alle evidenze scientifiche, giova ricordare che tutti questi giocatori arrivarono al loro tragico epilogo seguendo una parabola ben ricostruibile. Qualche anno dopo la fine della carriera agonistica iniziavano ad apparire i primi disturbi nella sfera comportamentale: problemi di gestione dell’aggressività e della rabbia, problemi cognitivi di vario tipo. Mike Webster non riusciva più a completare una frase e interrompeva le interviste scusandosi, perchè si sentiva stanco. La moglie Pam, da cui avrebbe divorziato, racconta che in uno scatto di ira distrusse in un paio di ore tutti i cimeli della sua gloriosa carriera sportiva. Quando usciva con i figli non trovava più la strada di casa, stava diventando rapidamente quello che in gergo si chiama un pugile suonato. Suo figlio Garrett, dopo aver capito che non era normale che suo padre dimenticasse i loro compleanni, cercò di stargli vicino. Nel 1997 Mike Webster ricorse all’aiuto legale dell’avvocato Bob Fitzsimmons per intentare almeno la classica causa di servizio verso la National Football League. Fitzsimmons riconobbe di trovarsi davanti ad una persona ampiamente più intelligente della media, che purtroppo però non era in grado di tenere il filo di un discorso per più di trenta secondi. La diagnosi dei periti medici di parte era chiara: il football aveva provocato danni cerebrali a Webster, fino alla demenza. Il perito della controparte si trovò d’accordo con quelle conclusioni, quindi in quella fase la Lega ammise semplicemente a mezza bocca che sì, probabilmente qualche trauma cranico di troppo c’era stato: potevano andargli incontro con qualche forma di rimborso per cure e farmaci ma in sostanza pochi spiccioli. Comunque c’era stata una prima implicita ammissione da parte della Lega stessa: il football può causare danni cerebrali.
Ma il paragone più semplice per descrivere le parti in causa era solo uno: Davide contro Golia.
Tuttavia non ci fu un gran clamore su questo fatto. Chiaramente ogni volta che la NFL doveva andare in un tribunale poteva schierare una potenza di fuoco inimmaginabile con l’obiettivo di non perdere mai, poichè anche la minima idea di class action poteva portare a risarcimenti di centinaia di milioni di dollari e doveva essere scongiurata ad ogni costo. In quel momento il comandante in capo era Paul Tagliabue, che in precedenza aveva avuto modo di lavorare per le major del tabacco quindi aveva ben chiari i rischi economici a cui poteva portare ogni minima apertura.
E la salute di Iron Mike stava andando via nel modo più drammatico possibile.

Il dottor Omalu dapprima non era culturalmente attrezzato per capire che cosa accadesse su un campo di football a chi giocava in linea. Forse non esiste una spiegazione migliore di quella di qualcuno che per anni ha lottato in quelle trincee: Harry Carson, grandissimo inside linebacker dei Giants del periodo d’oro di Lawrence Taylor, racconta bene un particolare rivelatore

Lui partiva più basso di me, venendo avanti con il casco. Se non ero pronto mi spostava senza problemi, facendomi anche male: ma a quel punto era forza contro forza. Tutta la mia potenza veniva dal basso, dalle mie gambe e dovevo concentrarla fino agli avambracci, con cui lo colpivo sul casco, in faccia, quasi per stordirlo per poi mettergli le mani addosso, pronto a buttarlo via non appena vedevo dove stava andando il corridore con la palla. Quando lo colpivo in faccia, la sua testa andava indietro mentre il suo corpo continuava ad avanzare. Il cervello probabilmente arrivava a sbattere dall’interno verso la scatola cranica
(Harry Carson)

Pubblicità

Quando vennero analizzati tali urti, si arrivò alla conclusione che ognuno di questi arrivava a sviluppare una forza pari a 20 G, cioè pari a quella che si sprigionava colpendo un muro in automobile alla velocità di circa 45 km/h. Una stima abbastanza accurata valutò che per certi ruoli in campo questi urti si verificavano fra le ottanta e le cento volte a partita.
Millecinquecento volte in una stagione.
Mike Webster aveva giocato da professionista in quel ruolo per diciassette anni.

Dobbiamo contestualizzare un po’ meglio queste affermazioni.
Non stiamo parlando del classico gran colpo in campo aperto, magari un safety che colpisce un ricevitore quando tutti e due hanno anche una decina di yard di rincorsa. Quel tipo di contatti, fatta la media sui singoli giocatori, può capitare poche volte a partita e anche per quel tipo di contatti il fisico di chi colpisce e di chi viene colpito paga un prezzo importante. Stiamo parlando della normalissima dinamica di ogni azione: gli uomini di linea si fronteggiano e si colpiscono. La testa viene sollecitata in ogni modo possibile: casco contro casco, avambraccio contro casco, paraspalle contro casco. Questi contatti di routine sono in tutto e per tutto traumi subcommotivi. Il sistema composto da cervello e scatola cranica non ha nessun meccanismo che permetta di ammortizzare gli urti nel caso di questi bruschi cambi di direzione in cui l’encefalo si muove per inerzia nella scatola cranica. La colonna vertebrale ha i dischi che in parte assolvono a questa funzione, ma la testa no. Fra il cervello e la scatola cranica ci sono solo le meningi (che hanno uno spessore complessivo inferiore al centimetro e che comunque non servono per attutire gli urti) e liquor cefalorachidiano. Il casco indossato dai giocatori protegge la scatola cranica, ma non quello che c’è dentro, questo probabilmente è il dato fondamentale. Il dottor Omalu non notò nulla di anomalo all’esterno, nè segni di contusioni evidenti (come accade per i pugili), nè il deterioramento dei tessuti proprio della malattia di Alzheimer. Come evidenziato prima, il cervello di Mike Webster esternamente appariva normale. Autorizzato ad approfondire le analisi, il dottor Bennet rilevò la presenza anomala di importanti accumuli proteine tau all’interno dei tessuti cerebrali che congestionavano le varie regioni ed arrivavano ad impedire il regolare funzionamento delle rispettive aree (controllo dell’umore, controllo delle emozioni…).

Gli stadi di avanzamento della CTE (Ann McKee, Boston University)

Il dottor Omalu spiegò le sue conclusioni ai colleghi neurologi dell’ospedale e dell’università di Pittsburgh, mostrando le evidenze trovate. Nessuno aveva mai visto nulla di simile fino ad allora. Per identificare quanto scoperto venne coniato l’acronimo CTE (Chronic Traumatic Encephalopathy). Il suo articolo “Chronic Traumatic Encephalopathy in a National Football League Player” venne scrutinato e pubblicato nel luglio 2005 dalla prestigiosa rivista Neurosurgery
Qualcosa di grosso si stava mettendo in moto.

Le guerre legali

“Per quanto di sua conoscenza, ci sono evidenze che collegano traumi cranici multipli nei giocatori a problemi di depressione?”
“No”
“A problemi di demenza?”
“No”
“A manifestazioni precoci di Alzheimer?”
“No”

(da una intervista al dottor Ira Casson)

La National Football League reagì. Male.
Un gruppo consulenti di parte scrisse alla rivista Neurosurgery denigrando pesantemente l’articolo e l’operato del dottor Omalu, ma in quella fase lo staff medico che seguiva i problemi correlati ai traumi cranici era guidato da uno dei medici dei New York Jets, il dottor Elliot Pellman. Un reumatologo.
La National Football League stava passando dalla sottovalutazione del fenomeno alla guerra aperta. I motivi erano chiari e concreti, sebbene poco nobili: se fosse stata accertata la correlazione tra la pratica sportiva e un danno cerebrale permanente, i risarcimenti verso le parti lese sarebbero stati economicamente ingenti. La NFL ne sarebbe comunque uscita bene: stiamo parlando della organizzazione sportiva più potente del pianeta, un leviatano che attualmente genera un fatturato valutabile intorno agli otto miliardi di dollari annui. Il punto era un altro, potenzialmente ben peggiore: una notizia di questo tipo probabilmente avrebbe indotto molti genitori ad impedire ai figli praticare uno sport che poteva portare a problemi di quella gravità. Il bacino di atleti si sarebbe assottigliato nel tempo, le cose potevano entrare in una spirale che poteva portare, extrema ratio, ad un declino inesorabile dello sport più amato del paese. Il dottor Omalu aveva dalla sua parte tutta la comunità scientifica, ma il mondo del football era contro di lui ad eccezione del dottor Bailes, il neurologo dei Pittsburgh Steelers che cercò di sensibilizzare l’ambiente sui risultati di una ricerca che ormai era divenuta scientificamente inattaccabile e che la sola NFL continuava pertinacemente a negare.
Tutti i vari comitati incaricati dalla Lega di studiare la questione erano composti da medici provenienti dalle squadre e avevano il mandato implicito di minimizzare, di insabbiare il problema. I giocatori potevano rientrare in campo subito dopo una commozione cerebrale, aspettando solo l’interruzione di una azione prevista dal regolamento. Non c’era una relazione fra gli scontri di gioco e i danni cerebrali successivi alla fine della carriera. Questa era la percezione della National Football League fino al 2003.
Nel settembre 2006 Paul Tagliabue lascia il ruolo di Commissioner al suo vice, Roger Goodell.

Roger Goodell succede a Paul Tagliabue (settembre 2006)

Goodell lavorava nella NFL già da ventiquattro anni e aveva ben chiaro quanto fosse grave quello che stava emergendo. Ma almeno nella prima fase la strategia rimase la stessa: denial, rifiuto. Il reumatologo Pellman venne sostituito dal dottor Ira Casson, un neurologo di fama con una personalità decisamente dura, sprezzante. Rimase famosa la sua sequenza di “no” in risposta alle domande di un giornalista sulle correlazioni fra i traumi e i problemi riscontrati negli studi del dottor Omalu. Condusse uno studio su centinaia di giocatori, con un esito scontato: il dottor Omalu aveva esagerato, le sue conclusioni non avevano alcun fondamento. Quella non era scienza.
Pochi mesi dopo la NFL convocò un incontro a Chicago con gli staff medici di tutte le squadre; vennero invitati anche medici e neurologi esterni all’organizzazione. Ma non il dottor Bennet Omalu, proprio colui che per primo aveva individuato la CTE e il suo legame con il gioco. Ma il dottor Julian Bailes ebbe comunque modo di presentare le sue osservazioni a tutti, recando le evidenze che Omalu aveva trovato dagli esami sui tessuti cerebrali analizzati. E il messaggio del dottor Omalu arrivò forte e chiaro: giocare a football poteva causare danni cerebrali permanenti.
In sostanza la Lega aveva ascoltato e ringraziato, ma rimaneva un profondo scetticismo. Si era arrivati al paradosso in cui una organizzazione sportiva pretendeva di pilotare un risultato scientificamente accettato perchè non gradito. Ma per la prima volta Roger Goodell aveva avuto modo di sentire personalmente alcuni scienziati spiegare l’esistenza di un legame tra il gioco e una patologia neurodegenerativa grave. Ira Casson manteneva il suo approccio negazionista, ma qualcosa iniziava a scricchiolare anche a Park Avenue.
Ai giocatori che stavano per iniziare il nuovo campionato venne fornito un pamphlet divulgativo sull’argomento, dove la materia veniva trattata con estrema prudenza, dicendo che la ricerca ancora non si era pronunciata chiaramente sulla possibilità di danni neurocerebrali nel lungo termine.

L’opuscolo dato ai giocatori nel 2007

Il messaggio della Lega era ancora lo stesso: il football non è responsabile per quel tipo di danni. Ma a quel punto la distribuzione di un opuscolo divulgativo cominciò a sembrare la classica excusatio non petita.
Ma nel frattempo, il dottor Omalu lasciò la città di Pittsburgh e si stabilì in California. In quella fase lo scontro fra un giovane medico e una lega professionistica di quella statura poteva avere solo un esito. Il prezzo pagato professionalmente e umanamente da quel medico dalle buone maniere fu pesante.

Ma il dottor Omalu non aveva combattuto invano e forse la guerra ancora non era finita.

Boston University. La banca dei cervelli

Nel 2008 un gruppo di ricerca della Boston University guidato dalla neurologa Ann McKee iniziò uno studio massivo sul maggior numero possibile di cervelli di giocatori di football. La dottoressa Ann McKee, al contrario di Omalu, era una grande appassionata di football. Ed era una studiosa di fama e un membro rispettato del National Health Institute, non semplicemente un onesto coroner specializzato come il dottor Omalu.
Un giovane ex giocatore di football ed ex wrestler professionista, Chris Nowinski, si adoperò senza tregua per ottenere le autorizzazioni per le analisi dalle famiglie. Nowinski cominciava ad accusare i primi sintomi della CTE già dall’età di 24 anni, quindi era il segno vivente che quella patologia non aveva bisogno di carriere lunghe e massacranti come quella di Webster, ma poteva svilupparsi anche dopo una pratica agonistica molto più breve. E anche nel wrestling.
Assunse il delicato incarico di convincere le famiglie a donare alla scienza il cervello di una persona cara. Cominciò dalla moglie di  Tom McHale, offensive tackle dei Buccaneers. La solita drammatica sequenza: un giocatore di buon successo, poi una buona carriera da imprenditore e infine la maledetta spirale di autoannientamento che si metteva in moto.

Tom McHale (1963-2008)

McHale morì nel novembre del 2008, ufficialmente per una overdose. La dottoressa McKee arrivò esattamente alle stesse conclusioni del dottor Omalu: un anomalo accumulo di proteine tau che arrivavano a compromettere vaste aree del cervello, in ognuna delle sue regioni.
Chris Nowinski volle portare la questione fuori dal circolo delle sole riviste scientifiche. Organizzò una conferenza stampa con la dottoressa McKee e con la moglie di Tom McHale, nella stessa settimana e nella stessa città del Superbowl XLIII, a Tampa Bay. Ma inevitabilmente la stampa era distratta dall’evento globale e la conferenza indetta da Nowinski ebbe poco seguito. Per mettere le cose in prospettiva, la NFL per quel Superbowl poteva permettersi un Halftime Show con Bruce Springsteen.

La dottoressa Ann McKee (Boston University)

Mi telefona Ira Casson e francamente non capivo il motivo. Mi invita a presentare i dati presso gli uffici della Lega. Mi trovo di fronte allo scetticismo generale. Nessuno crede che questi dati possano essere scientificamente corretti. Mentre fornivo le mie spiegazioni mi interrompevano spesso. Erano convinti che io avessi torto quasi su tutto e ho iniziato a capire come il loro rifiuto fosse a prescindere. E non voglio sconfinare nel terreno del sessismo, ma c’è stato chiaramente anche quel tipo di atteggiamento. Sembrava che dicessero ‘Ora che la ragazza ha finito la sua tirata, torniamo a cose più serie’.
(Ann McKee)

Ma nello stesso periodo un documento riservato sfuggì al controllo della NFL. Uno studio da loro commissionato rivelò che gli ex giocatori intervistati accusavano perdite di memoria, demenza precoce e depressione con una incidenza molto maggiore rispetto alle persone comuni. Nonostante la solita ostinata difesa della Lega, la questione ormai era stabilmente sulle prime pagine. Roger Goodell venne chiamato dal Congresso a riferire la situazione e ammise effettivamente che le risposte alle domande che gli venivano poste erano di competenza dei medici e della scienza. I membri della commissione governativa non ci andarono leggeri, paragonando il comportamento della NFL a quello delle major del tabacco degli anni Ottanta che negavano e nascondevano i rischi per la salute.
Il fantasma dei risarcimenti multimilionari era stato evocato in maniera inequivocabile e nella sede più alta.
La NFL, nella figura del suo comandante in capo, cominciava a trovarsi seriamente in difficoltà.

La resa della NFL

A quel punto Goodell prese una decisione drastica, l’unica che ormai appariva sensata: vennero immediatamente modificate le regole di gioco, per evitare nei limiti del possibile gli scontri testa contro testa. Una sospetta commozione cerebrale doveva essere accertata sul posto e il giocatore poteva rientrare solo dopo esplicita autorizzazione dello staff medico della squadra. Ira Casson venne estromesso. La NFL finanziò la Boston University inizialmente per un milione di dollari, per continuare ed approfondire gli studi e gli esami sulla CTE e designò lo stesso istituto quale propria “Brain Bank” di riferimento, prendendo su di sè l’onere di convincere le famiglie a donare alla scienza il cervello dei giocatori defunti in circostanze sospette.

La NFL nomina la Boston University quale propria “Brain Bank” (21 gennaio 2010)

Fino al 2010 d’altronde le evidenze scientifiche erano chiare: su venti cervelli esaminati dalla dottoressa McKee, diciannove avevano segni chiari di CTE. Poi arrivò la tragica storia di Owen Thomas, un defensive end di un college minore, morto suicida a soli ventuno anni. Anche il suo cervello aveva gli stessi segni e questo amplificava ancora di più la portata del problema e la facilità con cui poteva manifestarsi. Non si era mai vista una CTE in fase così avanzata in un giocatore così giovane. Praticamente tutte le regioni erano interessate dal problema e in aree anche molto vaste. E non aveva mai avuto commozioni cerebrali evidenti in anamnesi. Era emerso l’impatto devastante del totale dei traumi subcommotivi nel tempo: just playing the game, every single play, every single down.
E il caso di Erik Pelle, morto a diciotto anni dopo la quarta commozione cerebrale.

Nel corso degli anni la lista dei giocatori su cui è stata verificata post mortem l’insorgenza della CTE è diventata purtroppo sempre più lunga, arrivando a superare di molto il centinaio. Mike Webster è stato il paziente zero, seguito dagli altri giocatori menzionati. A questo tragico elenco si sarebbero aggiunti nel tempo nomi della fama di Dave Duerson, Frank Gifford, Chris Henry, Aaron Hernandez, John Mackey, Ollie Matson, Earl Morrall, Joe Perry, Junior Seau, Bubba Smith, Ken Stabler.
Altri nomi illustri vivono con la spada di Damocle della diagnosi della patologia già presente: Lance Briggs, Mark Duper, Tony Dorsett, Brett Favre, Larry Johnson, Bernie Kosar, Dorsey Levens, Jamal Lewis, Jim McMahon, Antwaan Randle El, George Rogers, Daryl Talley, Frank Wycheck solo per citare i nomi più noti.

La battaglia legale susseguente alla class action fu comunque drammatica. La posizione iniziale della NFL era quella di non concedere nulla, ma in quel caso si sarebbe andati incontro ad uno scontro frontale in cui Goodell e molti alti funzionari e specialisti avrebbero dovuto testimoniare sotto giuramento su posizioni oggettivamente indifendibili. Alla fine di agosto 2013 la National Football League raggiunse un accordo con quattromilacinquecento ex giocatori. La cifra riconosciuta a titolo di rimborso fu di 765 milioni di dollari, molto inferiore ai due miliardi richiesti ma comunque significativa. La NFL accettò la conclusione che il football poteva causare una patologia neurodegenerativa prima mai rivelata.

Molti giocatori nel pieno della loro attività hanno da allora scelto di donare il proprio cervello per supportare questi studi. La NFL ha cominciato a finanziare seriamente ricerche scientifiche e a sensibilizzare anche i ragazzi (campagna “Heads Up”, 2013). Dal punto di vista della percezione del problema da parte dell’opinione pubblica, Goodell ha decisamente limitato i danni e la stessa NFL ne è uscita in maniera decorosa anche se ancora è lontana dall’accettare in maniera chiara e netta il nesso causale fra i traumi e la patologia. Ma almeno ha smesso di negarlo e si è messa nelle mani della scienza, accettando di gestire al meglio una crisi che durerà ancora per molti anni e forse neppure finirà, proprio per la natura intrinseca di questo sport.

L’ultimo snap

Mike Webster avrebbe voluto solo essere ricordato come uno dei più grandi giocatori nel suo ruolo, perchè lo era. Non avrebbe voluto una gloria postuma per motivi diversi dal gioco, perchè alla fine era semplicemente una leggenda in campo e un buon padre di famiglia, cresciuto nella campagna del Wisconsin e formatosi con anni di lavoro durissimo e di studio del gioco.
Ma tutti, giocatori e tifosi,  dovrebbero ringraziarlo per quello che riuscì a mettere in moto negli ultimi anni della sua travagliata esistenza, quando uscendo coi propri ragazzi non sapeva più come tornare a casa e quando ad un piccolo tifoso che gli chiese “Ehi, ma tu sei Mike Webster?” lui ebbe la forza di rispondere “Una volta”.

In memoria di Mike Webster (1952-2002)

Riferimenti

  1. “League of denial”, Frontline PBS (Documentario)
  2. La storia del dottor Bennet Omalu è raccontata nel film Concussion (2015)
  3. Reflections in Iron: Mike Webster’s Training Methods
  4. Bennet Omalu, Concussions, and the NFL: How One Doctor Changed Football Forever
  5. Terry Bradshaw presenta Mike Webster alla Hall of Fame
T.Shirt e tazze di Huddle Magazine Merchandising

Mauro Clementi

Curioso esempio di tifoso a polarità invertita: praticamente un lord inglese durante le partite della Roma, diventa un soggetto da Daspo non appena si trova ad assistere ad una partita di football. Ha da poco smesso lo stato di vedovanza da Marino. Viste le due squadre tifate, ha molta pazienza.

Articoli collegati

2 Commenti

Pulsante per tornare all'inizio
Chiudi

Adblock rilevato

Huddle Magazine si sostiene con gli annunci pubblicitari visualizzati sul sito. Disabilita Ad Block (o suo equivalente) per aiutarci :-)

Ovviamente non sei obbligato a farlo, chiudi pure questo messaggio e continua la lettura.