Nel bene e nel male: Lawrence Taylor (prima parte)

Oggi è il compleanno di Lawrence Taylor. Per capire il giocatore e l’uomo siamo andati in profondità. Ecco la prima parte del suo ritratto. Per la seconda non potremmo trovare una data migliore di domani, il giorno del Super Bowl LI.

Al di fuori della vittoria in un Super Bowl, il ritiro della maglia è forse il traguardo più ambito per un giocatore. E’ un successo individuale, ma le sue fondamenta sono costruite su anni di duro lavoro con la squadra e per la squadra. Vuol dire che quel giocatore ha fatto talmente tanto per la propria divisa da meritare di essere consegnato alla posterità. Di solito il ritiro della maglia va di pari passo con l’ingresso nella Hall of Fame, il museo di Canton che ospita le vestigia di chi ha lasciato il proprio segno nella storia della National Football League.

La cerimonia del ritiro avviene solitamente durante l’intervallo di una partita interna di campionato, meglio se con la diretta TV, meglio se con un bel corollario di ex compagni ed allenatori come ospiti. Il protagonista deve semplicemente rilassarsi e capire che ha avuto il massimo riconoscimento possibile dopo una vita spesa per la causa, dopo le botte, gli infortuni, la fatica, le sconfitte e le vittorie; deve capire che quel momento è suo e solo suo, che tutte quelle persone sul prato e sulle tribune sono lì per ricordarsi di lui e che molti, lui per primo, faticheranno anche a trattenere le lacrime. In quella decina di minuti il mondo ai suoi piedi, la sua città e la sua squadra stanno lì ad applaudirlo e lui è al centro della scena, probabilmente per l’ultima volta. Certo, ringrazierà tutti i suoi compagni, quelli che bloccavano per lui, quelli che dividevano fatica e gloria ogni domenica: ma può permettersi una dose imperiale di egocentrismo, perchè in quel momento la luce è accesa su di lui.

Probabilmente tutti questi pensieri sono passati anche nella testa di Phil Simms, ora noto commentatore, ottimo quarterback dei New York Giants negli anni Ottanta. Il 4 settembre 1995 la sua squadra decise di tributare a lui questo onore, durante l’intervallo della partita contro i Cowboys. La sua maglia numero 11 non sarebbe più stata indossata da un giocatore dei Giants. Una volta in più e per l’ultima volta quello era il suo momento. Cosa può indurre un giocatore a far spostare la luce dei riflettori in una occasione del genere? Le risposte possibili sono due: o nulla al mondo oppure qualcuno che durante la sua carriera ha fatto un percorso parallelo e ha destato in lui una impressione che, amicizia o inimicizia a parte, non poteva essere cancellata: se qualcuno ti chiede di condividere le luci della sua ribalta, il motivo deve essere molto robusto.

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Prima di salutare voi tutti, voglio completare un ultimo passaggio.
Chiedo di farmi da ricevitore al più grande giocatore che abbia mai indossato la maglia dei New York Giants.
Questo passaggio è per Lawrence Taylor.

Phil Simms e Lawrence Taylor

La pass protection alla fine degli anni Settanta

Capire Lawrence Taylor non è una impresa banale. Dobbiamo esaminare sicuramente due aspetti non facili da armonizzare: il giocatore e la persona. Partendo dal giocatore, è necessario fermarsi un po’ ad analizzare il contesto, ovvero quello che accadeva nel suo fazzoletto di campo prima e dopo la sua apparizione sui campi della NFL.

Alla fine degli anni Settanta la lega aveva da poco ritoccato le regole su pass interference e utilizzo delle mani nei blocchi (i più curiosi possono vedere qui). L’obiettivo dichiarato era quello di incentivare gli attacchi a metter palla in aria, in nome dello spettacolo. Il risultato ottenuto fu incoraggiante, anche se eravamo lontanissimi dai sistemi offensivi odierni, in cui spesso non è neppure prevista la figura del fullback, i ricevitori in campo sono solitamente tre ed il tight end sta sempre più diventando un ricevitore grosso. Nulla di tutto ciò.

Le squadre più spregiudicate cominciavano a passare dalla I formation (fullback e tailback allineati dietro al QB) alla Pro Set (i due runner alle spalle del QB, uno a destra e uno a sinistra, cinque o sei yard dietro la linea). Questi allineamenti lasciavano comunque la difesa nel dubbio corsa-passaggio. Il tight end (Kellen Winslow a parte) era prevalentemente un extra blocker, il suo posizionamento di solito tradiva il lato da cui si correva. I ricevitori in campo erano due: il flanker sullo stesso lato del tight end e lo split end sul lato opposto. La shotgun era sinonimo di lancio sicuro, ed era raro vederla usata per più di una decina di giochi a partita, mentre oggi è utilizzata in maniera pressochè sistematica e non fornisce particolari indizi sull’azione in essere. Per quanto riguarda la difesa, quello era il periodo d’oro della 3-4. I linebacker molto spesso erano indotti a leggere l’azione e poi reagire, raramente erano in grado di dettare i loro tempi all’attacco e il blitz andava gestito con parsimonia per evitare che, per dirne uno, il primo Joe Montana di turno riuscisse a prenderli un passo troppo avanti e a servire un runner che avesse una decina di yard libere di fronte a sè.

In situazione di lancio conclamato, di solito un blitz per linee interne veniva gestito da centro e guardie, uno per linee esterne dal tight end, se non usciva a ricevere, oppure anche da un halfback o un fullback, che potevano confrontarsi alla pari con linebacker e defensive back.

Questo fino a quando al primo giro del draft del 1981 i New York Giants chiamano con il n.2 assoluto Lawrence Taylor, outside linebacker proveniente dai North Carolina Tar Heels.

Lawrence Taylor con la maglia dei Tar Heels

Le cose in chiaro, da subito

La reputazione di Taylor durante il suo periodo universitario era già molto ingombrante, tanto che la maggioranza degli addetti ai lavori aveva la ragionevole certezza che il fenomenale linebacker sarebbe stato chiamato con il n.1 assoluto. Tuttavia i New Orleans Saints, forse ancora per retaggio culturale, decisero di chiamare il runner vincitore dell’Heisman Trophy, George Rogers da South Carolina. Avrebbero avuto modo di capire che quella scelta probabilmente non fu la migliore.

In quel periodo l’allenatore della difesa a New York era Bill Parcells, una delle migliori football mind di quel periodo. Il rapporto con il giovane linebacker non era semplice, ma Parcells ben comprese il potenziale immane del suo numero 56 e da subito lavorò sulle motivazioni, sugli spigoli e sul carattere del giocatore. Capì che l’idea vincente con uno così era quella di metterlo in condizione di essere se stesso.

Quello che dovevo fare era permettergli di sbocciare
(Bill Parcells)

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L’esordio contro i Philadelphia Eagles fu abbastanza anonimo, ma qualche partita dopo, contro i Cardinals, Taylor piazzò un sack devastante in uno schema in cui avrebbe avuto compiti di copertura. Gli fecero notare che quello che aveva fatto non era neppure nel playbook e lui rispose subito

Allora mettiamocelo, perchè è veramente dandy

In sostanza era successo che un linebacker matricola aveva appena deciso quello che sarebbe stata la rivoluzione nella pass rush negli anni a venire: mentre il tackle sinistro era impegnato con il defensive end, Taylor entrò nel backfield, trattò il blocking back come una parete di cartongesso e arrivò dritto e a piena velocità sul quarterback che non lo aveva nemmeno visto partire e per soprammercato era destrorso, quindi gli stava voltando le spalle.

Fermiamoci un attimo, bisogna mettere qualche punto fermo perchè dire che un linebacker matricola stava cambiando la percezione della pass rush potrebbe sembrare una affermazione almeno avventata. Cerchiamo di capire cosa stava accadendo: si era appena affacciato nei professionisti un outside linebacker costruito come un defensive end (1.91 per 114 kg) e veloce quanto un safety. E il suo allenatore stava per dirgli semplicemente che se lo riteneva opportuno poteva occuparsi esclusivamente di andare per la palla, corsa o lancio che fosse, perchè aveva capito che quel giocatore, fisicamente e atleticamente privilegiato, aveva per la palla lo stesso istinto che uno squalo poteva avere per il sangue.

Da quel momento in poi le cose non sarebbero state più le stesse per nessuno, nemmeno per gli stessi Giants, che arrivavano da anni di mediocrità assoluta.

Ovviamente LT non era nè un egocentrico nè uno sprovveduto. Quando doveva stare in pass coverage lo faceva e anche molto bene, aveva una velocità di base che gli permetteva di tenere il confronto con ogni tight end dell’epoca. Quando doveva restare a casa per aspettare lo sviluppo dell’azione sapeva farlo con tenacia e disciplina. Ma quella sua improvvisata praticamente aveva fatto giurisprudenza presso Bill Parcells. Il suo defensive coordinator, che di lì a poco avrebbe preso il posto di Ray Perkins come head coach, aveva capito che usare un giocatore così in quel modo rischiava di cambiare davvero la prospettiva del gioco per gli attacchi avversari. Nel vocabolario degli offensive coordinator di quel periodo, insomma, fece la sua comparsa l’espressione idiomatica to gameplan for LTasciugabile in non dovete perderlo di vista mai, per nessun motivo.

Timbrare il cartellino, un modo come tanti

Molto presto tutti i suoi rivali, dentro e fuori la NFC Eastern Division del tempo, familiarizzarono con il concetto che questo ragazzo non era bloccabile uno contro uno nel modo in cui convenzionalmente si era sempre fatto fino a quel momento. Troppo più veloce degli offensive tackle dell’epoca, troppo più potente di tight end e runner.

L’unico allenatore che in quell’anno riuscì a risolvere il rebus fu l’immenso Bill Walsh, che arrivò a capire che in un modo o nell’altro Taylor poteva essere gestito fisicamente solo da un lineman grosso e veloce. Nel divisional vinto in casa, infatti, Taylor venne contenuto dalla guardia John Ayers, snaturando in parte il playbook offensivo.
Giova ricordare che in quegli anni una guardia pesava in media tre o quattro chili in più di Taylor e non era facile trovare un runner che non si chiamasse John Riggins sopra i cento chili.
Gestire Lawrence Taylor era veramente un problema.
Alla fine della sua stagione da matricola, grazie a 9.5 sack, LT venne eletto Rookie dell’anno all’unanimità, davanti a Joe Delaney dei Chiefs.
Al solito le statistiche non potevano tracciare i raddoppi, le azioni distrutte nel backfield, il terrore vero e proprio che Taylor cominciava a instillare negli avversari, non solo nel senso del risultato sportivo…

Interludio

Dopo la prima trionfale annata, LT risentì del periodo difficile della propria squadra, trovatasi nel mezzo di alcune transizioni importanti: Bill Parcells venne promosso Head Coach dopo che Ray Perkins decise di andare ad allenare gli Alabama Crimson Tide della NCAA. La stagione 1982 venne ridotta a nove partite di regular season a causa del primo storico sciopero dell’Associazione Giocatori. I Giants terminano con un record anonimo di quattro vittorie e cinque sconfitte. Peggio ancora l’anno successivo, terminato con il record devastante di tre vinte, dodici perse e un pari.

Alla fine di quel campionato il signor Donald Trump (non è una omonimia, è l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America) entrò a gamba tesa sui Giants e su Taylor, che avevano già un contratto quinquennale in essere.
Trump tentò il giocatore con un raddoppio di stipendio e con un prestito di un milione senza interessi restituibile in 25 anni se LT avesse deciso, a partire dal 1988 (mister Trump pensava in grande e aveva sempre prospettive realistiche…) di andare a buttare via il suo tempo con i New Jersey Generals della USFL, cosa che avrebbe cominciato a fare di lì a poco Herschel Walker.
I Giants indussero Taylor a restituire i soldi al tipo a cui corrisposero un congruo indennizzo di settecentocinquantamila dollari l’anno per cinque anni, in virtù del pactus sceleris firmato dal loro giovane linebacker e adeguarono in maniera robusta il suo ingaggio per tenerlo al riparo dalle tentazioni.

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Breve nota di cronaca: in quegli anni il signor Trump indusse i proprietari della USFL a intentare una causa multimilionaria alla NFL per violazione delle norme antitrust sui diritti televisivi, oggi si direbbe per abuso di posizione dominante. I vari tribunali gli diedero ragione. La USFL, che da quella lungimirante campagna di Trump incassò l’astronomica cifra di UN DOLLARO, poi arrotondata a tre per magnanimità della corte, fallì fragorosamente nel 1986, lasciando in giro molti giocatori, i migliori dei quali si ricollocarono nella NFL.

Lawrence Taylor fece bene a restare ai Giants, perchè la squadra si stava ricostruendo su buone basi e il roster non era malvagio. La difesa tutto sommato teneva. Taylor era la punta di diamante di un buonissimo gruppo di linebacker che poggiava anche sulla solidità di Harry Carson e di Gary Reasons e sull’esperienza di Brad Van Pelt. I problemi erano in attacco, perchè Phil Simms non riusciva a imporsi come clear starter e le alternative, a nome Scott Brunner e Jeff Rutledge, non erano null’altro che onesti backup.  Era arrivato Joe Morris, un piccolo runner potente e ostico da placcare a causa di un baricentro molto più che basso.
Ma a New York si fa presto a passare inosservati, in assenza di vittorie. Un processo serio di ricostruzione interessa fino a un certo punto ad un pubblico come quello. I Giants riemergono dall’anonimato con nove vittorie e sette sconfitte nella stagione 1984, quando eliminano al Wild Card Game i Rams del meraviglioso Eric Dickerson, reduce da un campionato da 2105 yard, ma devono fermarsi al successivo Divisional contro i San Francisco Fortyniners di Bill Walsh e Joe Montana, che di lì a poco avrebbero annientato il sogno dei Dolphins di Dan Marino nel Super Bowl di Palo Alto.

Bill Parcells stava mettendo i Giants sulla strada giusta e la NFL stava per capire nel modo più inconfutabile di cosa fosse capace Lawrence Taylor.

La seconda parte.

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Mauro Clementi

Curioso esempio di tifoso a polarità invertita: praticamente un lord inglese durante le partite della Roma, diventa un soggetto da Daspo non appena si trova ad assistere ad una partita di football. Ha da poco smesso lo stato di vedovanza da Marino. Viste le due squadre tifate, ha molta pazienza.

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