[NFL] Week 4: New Orleans Saints vs Miami Dolphins 38-17

La differenza fra i Saints dello scorso anno (0-4) e quelli di quest’anno (4-0) è tutta in una persona. Non è certo Drew Brees, per quanto fantastico sia stato lunedì notte contro Miami, né è nessuno dei nuovi giocatori arrivati quest’anno nella Big Easy o tantomeno uno di quelli infortunati o fuori (e c’erano pezzi importanti in difesa, come Jonathan Vilma e Will Smith) o che hanno lasciato New Orleans in offseason.
No, la vera differenza fra la squadra allo sbando dello scorso anno e quella travolgente che ha schiantato i Dolphins in diretta nazionale sta in piedi sulla sideline, di professione fa il capo allenatore e il suo nome è Sean Payton.

Drew Brees
Drew Brees

Dopo il successo contro Miami molti commentatori lo hanno etichettato come il miglior allenatore NFL nella gestione della partita, ed è probabilmente vero: il suo rientro a tempo pieno dopo l’anno di sospensione dovuto ai contestati fatti del “bounty gate” ha ridato a questa squadra l’anima e la sicurezza che sembrava aver smarrito.
Lo scorso anno New Orleans, con un organico quasi identico a quello di quest’anno, era una squadra normale, capace di una stagione da 7-9, senza alti né bassi, lontana parente di quella che solo due anni prima aveva portato in Louisiana nientemeno che il Lombardi Trophy.
Quest’anno è una squadra sicura di sé, capace di mettere a tacere con autorità sia i pericolosi rivali divisionali di Atlanta sia i nuovi pericoli rappresentati dagli imbattuti e rampanti Dolphins. E di massimizzare l’apporto di un Drew Brees di nuovo in stato di grazia: in quattro partita ha totalizzato già 1.434 yards e 10 touchdown, completato il 67% dei passaggi e messo a statistica un rating di 103.8. Non ci fosse un altro ‘vecchietto terribile’ a Denver che sta facendo pure meglio, sarebbero numeri da record.

Contro i Dolphins Drew Brees è stato chirurgico: 30/39, 413 yards, 4 touchdown e un rating pressoché perfetto di 144.5. Ha completato quello che ha voluto e quando ha voluto, utilizzando 9 ricevitori diversi, dominando il campo in ogni situazione ed apparendo sempre in totale controllo. E questo anche nella ormai classica assenza di un running game incisivo: il gioco di corsa dei Saints, con una media di 2,8 yards per portata, è rimasto ancora al di sotto della sufficienza, anche se va detto che la difesa di Miami era comunque un test impegnativo in questo campo.

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Jimmy Graham, Jamar Taylor
Jimmy Graham

Ma le vere armi che lunedì sera hanno ucciso i Dolphins sono state altre. Una, come nelle previsioni, è stato il tight end Jimmy Graham. L’ex giocatore proprio dell’università di Miami (“The U”) ha ricevuto senza il minimo problema tutti e 4 i palloni che Brees gli ha destinato, totalizzando 100 yards tonde e convertendo due di essi in touchdown: il primo, nel secondo quarto, da 27 yards per segnare il 14-3 e il primo tentativo di allungo dei Saints; il secondo, nel terzo quarto, da 43 yards per segnare il 35-10 e il più classico “mamma, butta la pasta” di petersoniana memoria. Ma l’arma mortale, inattesa e indifendibile per Miami, è stato Darren Sproles.

Già dal primo drive si è capito che la difesa dei Dolphins non aveva una contromisura da opporre al running back numero 43. Anzi, per essere precisi, dal secondo gioco della partita: un passaggio che Brees aveva lanciato per 16 yards e che Sproles ha portato avanti per altre 32 senza che nessuno della difesa ospite riuscisse a fermarlo fino alla linea delle 31 yards avversarie; a queste 48 yards ne seguiranno altre 94, per un totale di 142 (114 su 7 passaggi – media di 16.3 yards – e 28 su 4 corse – media di 7) e due touchdown, uno da 5 yards di corsa a chiudere proprio il primo drive della gara e uno prima dell’intervallo da 13 yards per portare i Saints al riposo sopra 21-10.

E i Dolphins? C’erano anche loro? Sì, c’erano, anche se non è stato piacevole. I giovani delfini hanno aspettato proprio di essere davanti agli occhi di tutti sul palcoscenico del Monday Night per esibirsi nella loro peggiore prestazione dell’anno, non riuscendo a fare nulla di tutto quello che avevano messo in mostra fin lì. L’unica eccezione è stato il loro primo drive (dopo che Sproles aveva segnato il touchdown nel drive iniziale) in cui i Dolphins non hanno sbagliato nulla fino alla red zone per poi incartarsi con giochi eseguiti male ma chiamati anche peggio ed accontentarsi di un calcio per il momentaneo 7-3.
Poi quasi nulla è più andato per il verso giusto, la convinzione è andata progressivamente calando e la forza dei Saints ha fatto il resto. Il doppio touchdown di Ben Watson e Jimmy Graham a metà del terzo quarto, con il punteggio che in un paio di minuti è passato da 21-10 a 35-10, è stato il punto di non ritorno: da lì in poi Miami ha segnato il touchdown del 35-17 ma i Saints avevano già il match saldamente in pugno.

Lamar Miller, Curtis Lofton
Lamar Miller

Come nelle prime tre partite gran parte dei meriti erano stati di Ryan Tannehill ora al giovane quarterback va gran parte della colpa. Tannehill (22/35, 249 yards, 1 touchdown, 3 intercetti, 1 fumble ed un penoso rating di 57.9) ha giocato male, commettendo errori che quest’anno non gli si erano mai visti fare. Ha perso un fumble proteggendo male il pallone in uno scramble, ha lanciato intercetti evitabili che hanno consentito agli avversari di segnare, ha sbagliato lanci facili: insomma, un po’ di tutto. Ma è ingiusto dare a lui tutte le colpe, perché è anche vero che poche volte ha avuto una protezione adeguata e anche stavolta si è preso i canonici 4 sack: in 4 partite è stato schiacciato a terra 18 volte (oltre a 29 hits), il che è un problema serio e rende la linea offensiva di Miami la peggiore della NFL in questa categoria. Anche la difesa ha fatto la sua parte di guai, incassando 465 yards e subendo i mismatch dettati dagli avversari, e lo stesso coaching staff ci ha messo del suo, alternando chiamate discutibili in attacco a confusione ed impotenza in difesa.
Insomma, un mezzo disastro. Solo il running game ha funzionato meglio del solito, arrivando a una media di 6.1 yards per portata (5.6 per il solo Lamar Miller, parzialmente ritrovato dopo le delusione delle prime tre gare). Ma è un po’ poco per una squadra che si era presentava al Superbowl imbattuta e come una delle sorprese positive di inizio stagione.

La gara ha invece fatto emergere impietosamente la differenza fra una squadra di alto livello e una che lo vuole diventare. Tutto sommato, si tratta di un salutare bagno di umiltà e di una necessaria lezione nel percorso di crescita di Miami: come ammesso dagli stessi giocatori nel dopo gara, “non conta una sconfitta, conta come reagisci a quella sconfitta”. E vedremo come reagiranno i giovani Dolphins già da domenica quando ospiteranno a Miami i temibili Baltimore Ravens.
Per i vecchi Saints, invece, c’è la trasferta a Chicago: un altro scontro con un avversario di rango come i Bears di quest’anno per confermarsi in alto. Ma per New Orleans, con Sean Payton sulla sideline, tutto è possibile.

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Mauro Rizzotto

Più vecchio di quello che sembra, continua a sentirsi più giovane di quello che è. Fra una partita della sua Juve e una dei suoi Miami Dolphins sceglie la seconda. Fra una partita dei Dolphins e la famiglia... sceglie sempre la seconda. Vabbè, quasi sempre. Sennò il tempo per scrivere su Huddle dove lo trova?

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