Gli ex giocatori NFL sono una sorta di veterani reduci dalle zone di operazione in guerra. Hanno ferite, a volte invalidanti, ma non solo nel corpo. Alcune patologie croniche finiscono per ledere anche la loro lucidità e visto che per anni sono abituati a risolvere i conflitti sportivi con la violenza, finiscono per esserne influenzati anche nella vita normale, consapevoli o meno, nei confronti degli altri e verso sé stessi. Conoscono la difficoltà del reinserimento nella vita normale perché il football ha occupato capillarmente la loro vita, e gli sembra impossibile che possa essercene un’altra. Spesso vanno aiutati e non solo con le medicine. Alcune volte sono stati buoni amministratori di sé stessi, altre volte hanno dilapidato i guadagni o semplicemente non hanno guadagnato abbastanza per assicurarsi una vita agiata. E se una volta erano conosciuti e a volte anche idolatrati, come succede sempre ma soprattutto nello sport, il nuovo amore porta via l’antico… e rimangono uomini feriti e spesso soli, con il loro dolore fisico e psicologico.
Kyle Long non ha niente da fare. Gioca ai videogiochi fino a notte fonda e si sveglia quando vuole. Va in fuoristrada nel deserto a sud di Las Vegas, senza meta. Ha perso 23 chili. Ritirarsi dalla NFL a 31 anni, dice Long, è stata un’ottima decisione. Ha tutta la vita davanti a sé.
“Mi sento come una fenice che risorge dalle sue ceneri”, dice. “Non ti rendi conto di quanto sia grave la sindrome di Stoccolma finché non esci dall’edificio e non puoi parlare per te stesso, provare emozioni, esprimere le tue emozioni e avere una voce. Non ho niente contro la NFL, è solo la natura dell’essere un buon soldato. Ora posso scoprire chi diavolo è Kyle Long, ed è una cosa emozionante che non ho mai fatto prima.”
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Long ha annunciato il suo ritiro dopo solo sette anni da quando era stato scelto al primo round dai Chicago Bears. Suo padre, Howie Long, membro della Pro Football Hall of Fame, ha giocato 13 anni nella NFL. Howie una volta disse a suo figlio che gli offensive lineman, con la tecnica giusta, possono giocare per sempre. Ma quel “per sempre” ha un significato diverso oggi nella NFL.
Una superstar come Andrew Luck si è ritirato a 29 anni perché il suo fisico non avrebbe sopportato altre lesioni. Luck si è laureato a Stanford in progettazione architettonica e ha sempre detto che il football è solo una parte della vita. Da ragazzo intelligente, le sue parole sul ritiro sono illuminanti.
“C’è stato un periodo di lutto, ed era un periodo di lutto perché una parte della mia identità era morta, e quella parte di me era un giocatore di football, ed era una parte enorme, ma veramente enorme di me. Certo, ero più di un semplice giocatore di football, proprio come tutti là fuori… Certo, la vita va avanti ci sono le figlie, la famiglia e altre cose iniziano a colmare quel vuoto, ma bisogna colmare quel vuoto con qualcosa di positivo.”
Pochi sanno che il padre di Andrew Luck è stato un giocatore Pro della NFL, un quarterback backup che non ha certo avuto un grande successo. Aveva 26 anni quando si ritirò dalla NFL. Non era una prima scelta al draft come suo figlio, ma Oliver Luck guadagnò 250.000 dollari per essere la riserva di Warren Moon, una bella cifra nel 1986, ma il padre di Luck stava frequentando la facoltà di giurisprudenza mentre giocava per gli Houston Oilers e voleva voltare pagina. Aveva cose più importanti da fare.
Andrew non ha mai conosciuto suo padre come giocatore di football. Lo conosceva come direttore sportivo del West Virginia, GM dei Frankfurt Galaxy e poi come commissario della XFL. Anche se solo per osmosi, Oliver Luck ha insegnato a suo figlio che c’era molta vita dopo il football.
“Penso che per ogni giocatore sia diverso“, dice Oliver Luck. “La maggior parte dei ragazzi gioca finché può, finché non viene in qualche modo cacciato via. Ma penso che ci siano persone che si rendono conto che quando hanno 25 o 30 anni hanno ancora davanti a sé ben 40 anni di vita lavorativa e vogliono iniziare subito.”
E’ probabile che anche il tipo di educazione familiare abbia la sua influenza nelle decisioni che riguardano la carriera di un giocatore e come non pensare che questo sia successo ad Andrew Luck.
Una stella come il linebacker dei Carolina Panthers Luke Kuechly ha lasciato il football all’età di 28 anni e sul suo ritiro ha detto:
“Mi stavo facendo del male. C’erano delle cose che continuavano a riaffiorare e non ero in grado di giocare come volevo. Nella mia mente pensavo: -cavolo, non ce la faccio più-. Pensavo che se non fossi stato al 100%, non avrei fatto il mio lavoro come la gente si aspettava. E non era giusto. Non era giusto per i ragazzi della squadra. Non era giusto per l’organizzazione. Non era giusto per i tifosi. E non era giusto per me, aspettarmi di giocare a un livello che so di non poter raggiungere. È stata una decisione molto difficile. Ma penso che una volta capito, hai capito. Avrei potuto ancora giocare al 75-80%, ma non ero in grado di giocare come volevo. È stata una decisione facile e difficile, se così si può dire. I primi due anni pensi di poter ancora giocare. Poi sono sceso in campo e ho visto Tristan Wirfs (il tackle offensivo di Tampa Bay, che pesa 140 kg) e ho pensato: -No, probabilmente sto bene così. Sto bene-“.
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Nella carriera Pro della NFL non esiste un giocatore che non è stato infortunato in maniera più o meno grave. Tutti gli atleti vivono in un’epoca in cui esistono più informazioni di sempre sul loro corpo e sulla loro mente. E hanno la possibilità di scegliere. La generazione di oggi conosce la CTE (encefalopatia traumatica cronica) e ha visto eroi dell’infanzia arrancare fino alla mezza età. È un vantaggio che i giocatori abbiano anche decine di milioni di dollari per rafforzare la loro transizione.
Long, tre volte guardia Pro Bowl, si è identificato con Luck quando, nella sua conferenza stampa d’addio ha parlato di interrompere il ciclo straziante di infortuni e riabilitazione. Il corpo di Long ha subito un intervento chirurgico al collo, una ricostruzione della caviglia, una rottura del labbro glenoideo, un infortunio al piede e una lussazione di un dito. Un infortunio all’anca lo ha messo in crisi, e sebbene abbia giocato un’intera partita con quell’infortunio, poi è stato inserito nella lista infortunati a ottobre. Long sapeva che la fine era vicina. Era seduto nella sala della linea d’attacco, uno dei suoi posti preferiti. Per anni, Long era stato un beniamino dei filmati di gioco. Un puntatore laser lampeggiava sui suoi blocchi e tutta la sala sapeva, senza bisogno di parole, che era così che doveva andare. Poi gli infortuni si accumularono e un giorno Long alzò lo sguardo sullo schermo e vide il puntatore su una persona diversa.
Sono quei segnali che dicono ad un giocatore che il ritiro è vicino.
La maggior parte dei giocatori in attività dichiara di non avere piani sul ritiro e afferma che infortuni o problemi di salute sarebbero i motivi principali per cui avrebbero abbandonato il football prima di un insostenibile calo fisico. Alla domanda su quale livello di dolore avrebbero dovuto provare per abbandonare la partita, su una scala da 1 a 10, dove 10 rappresenta il massimo dolore, più del 20% dei giocatori ha risposto 10 o più. Michael Thomas, safety dei Bengals e 35enne, ha detto che per ritirarsi servirebbe “che mi trascinassero fuori dal campo“. Un giocatore anonimo sulla ventina ha risposto: “Quando smetteranno di pagarmi. L’unico modo in cui mi ritirerei è se subissi un grave trauma cranico, cosa che fortunatamente non ho mai avuto“.
In effetti la salute a lungo termine sta sempre più diventando una ragione che può spingere al ritiro. Ma se il nuovo contratto collettivo arriverà come sembra ad aggiungere una diciottesima partita alla stagione, è possibile che più giocatori sceglieranno la salute a lungo termine rispetto al football.
Il discorso del ritiro non è più un tabù negli spogliatoi della NFL. Tyrann Mathieu, che ha avuto una sorta di rinascita professionale dopo che si è unito ai Kansas City Chiefs vincendo un Super Bowl e ora gioca per i Saints, ha detto di aver pensato al ritiro dopo il suo secondo intervento chirurgico al ginocchio in Arizona, quando aveva 23 anni. “Sapevo quanto fosse stato difficile per me tornare la prima volta“, dice Mathieu. “Quindi avevo già avuto questi pensieri in passato”.
Si può dire che una buona percentuale di ragazzi pensa a come sarebbe la propria vita senza il football. Il football offre grandi risorse, stabilità finanziaria, fama, tutto questo genere di cose. Ma c’è anche un rovescio della medaglia. Può rendere molte persone infelici, soprattutto quando hanno a che fare con infortuni e problemi fisici. È un’arma a doppio taglio.
Da ritirato a 24 anni dopo la sua stagione da rookie, il linebacker Chris Borland ha detto:
“Ho avuto due traumi cerebrali a 14 e 16 anni, probabilmente avrei smesso di praticare sport di contatto se fossi nato 10 anni dopo, dopo quella seconda commozione cerebrale a quell’età.”
La NFL non ritiene che i ritiri precoci rappresentino in effetti una vera tendenza. La durata media della carriera nella NFL è di circa 3,3 anni e anche se può sembrare breve , è importante ricordare che la NFL è un campionato altamente competitivo, con un calendario impegnativo e un rischio fisico significativo, e tanti giocatori sono impegnati per un breve periodo di carriera. Certo, ci sono stelle come Tom Brady o Drew Brees o Larry Fitzgerald, ma è bene anche ricordare che si sono ruoli in cui l’infortunio grave è un evento, magari devastante, ma non ordinario come succede ai quarterback, mentre altri ruoli sono sottoposti ad un costante martellamento di colpi che minano salute fisica del corpo in maniera cronica.
“Si tratta di una decisione molto personale e individuale, basata sulla carriera di un giocatore, sulla sua famiglia, sulla sua vita“, ha dichiarato la NFL “Siamo sempre rispettosi della capacità dei giocatori di fare scelte su ciò che è meglio per loro, anche per la loro salute fisica e mentale“.
Everson Walls oggi ha 65 anni. Giocava a Dallas da cornerback quando nel 1985 si trovò a competere con Roy Green detto Jet Stream, ricevitore dei St. Louis Cardinals. Non dimenticherà mai quella partita quando un suo intercetto su una palla contesa, portò ad un suo infortunio ad una caviglia. Aveva 26 anni, e il dolore di quell’infortunio non passò mai, arrivando a raggiungere il ginocchio e l’anca e compromettendo la sua andatura. Walls ha giocato altri otto anni dopo quell’infortunio, e oggi sente il collo scricchiolare e la punta delle dita intorpidita. Walls e praticamente tutti i giocatori di football sanno che il dolore è un compromesso doveroso per uno sport che amano. Ma molti di loro non sono riusciti a comprendere gli effetti duraturi di quel dolore.
Il dott. Ilan Danan, neurologo sportivo e specialista nella gestione del dolore presso il Cedars-Sinai Kerlan-Jobe Institute, afferma che il dolore cronico può influire sulla fiducia in se stesso, sull’autostima e sulla capacità di un giocatore in pensione di partecipare alle attività familiari.
“Indubbiamente incontriamo giocatori che a causa del dolore cronico hanno molte difficoltà a capire qual è la loro nuova normalità“, afferma Danan. “In molti di questi casi, si troveranno a sprofondare in una sorta di depressione, per così dire. In generale, i problemi legati all’umore e al comportamento, che si tratti principalmente di depressione, ansia o una combinazione di entrambi, sono certamente qualcosa che, se non viene identificato o affrontato precocemente, può prendere il sopravvento e soffocare la persona. Questo li porta a non essere solo concentrati sul dolore, ma diventano l’ombra di sé stessi.”
Walls, si considera fortunato. Molti dei suoi vecchi amici della NFL hanno vite più difficili.
Quando giocava per i New York Giants, condivideva la stanza con la safety Pro Bowl Dave Duerson. Diventarono buoni amici. Intorno al 2011, Walls lo vide a un Super Bowl con la fidanzata di Duerson, Antoinette Sykes. “Caspita, erano così felici“, dice oggi Walls. Poco dopo, Duerson morì per una ferita da arma da fuoco autoinflitta al petto. Quando Walls seppe della morte di Duerson, rimase così sbalordito che pensò che il suo amico fosse stato assassinato. Invece Duerson aveva lasciato un biglietto in cui chiedeva che il suo cervello venisse inviato alla Banca del Cervello della NFL. Il Centro per lo Studio dell’Encefalopatia Traumatica Cronica della Facoltà di Medicina della Boston University ha confermato che Duerson era affetto da CTE, conseguenza delle commozioni cerebrali subite durante la sua carriera da giocatore. Nonostante tutto questo, Walls afferma che se avesse saputo allora quello che sanno i giocatori oggi, avrebbe giocato lo stesso a football.
“Giocherei comunque“, dice. “Vorrei solo avere avuto la piena consapevolezza per prendere quella decisione da solo. Giocavo in un certo modo. Non ero quel ragazzo incredibilmente fisico. Sapevo come entrare in campo senza prendermi colpi in testa il più delle volte. Tutto quello che so è che quando giochi potresti farti male. È un gioco fisico. Quando inizi a parlare di effetti duraturi, è allora che la cosa diventa spaventosa.”
Wes Horton, Defensive End, classe rookie 2013 si è ritirato poco dopo aver compiuto 30 anni. Non fu scelto al draft, ma finì per giocare dieci partite nella sua prima stagione con i Panthers e mise a segno due sacks. Tre anni dopo, era al Super Bowl. Un undrafted è sempre in bilico, quindi Horton non aveva la possibilità di rimanere fuori quando era dolorante. Avrebbe potuto essere escluso. A 28 anni, notò che il suo corpo impiegava più tempo a riprendersi dagli infortuni. Andando avanti gli infortuni iniziarono ad accumularsi, racconta Horton, e iniziò a sentirli tutti: la spalla, l’inguine e il bicipite femorale, ed era certo avesse una leggera lesione. Poco dopo la stagione 2019, Horton stava giocando a basket quando si è sentito strappare il tendine del ginocchio. Non era interessato a riabilitare un altro infortunio e ha deciso che era ora di lasciare il football. Una delle prime chiamate che fece fu alla sua alma mater, la Notre Dame High School di Sherman Oaks, in California. A Horton fu offerto un posto da assistente allenatore nella squadra di football. “Non sono il tipo di persona che si prende molto tempo libero“, afferma Horton.
La vita di un giocatore di football è incentrata sulla routine e una delle prime cose che il presidente della NFLPA Eric Winston dice ai giocatori in pensione è di trovare qualcosa da fare, qualcosa che dia loro una ragione per svegliarsi ogni mattina.
Una risorsa è l’NFL Trust, istituito in base al contratto collettivo del 2011 tra il sindacato dei giocatori e la NFL. Bahati Van Pelt, direttore esecutivo del trust, afferma che uno degli obiettivi del programma è vedere gli ex giocatori “fare ciò di cui hanno bisogno per vivere una vita lunga e produttiva“. Il trust offre benefit come borse di studio, screening per il benessere e abbonamenti in palestra. Con l’aiuto del Trust, Winston è tornato a studiare per conseguire un MBA. “Per me esprimere un’opinione su come avviene la transizione sarebbe ridicolo“, dice Winston, “perché devo ancora capirlo“.
Winston afferma di non avere dati per monitorare l’andamento dei pensionamenti. Nemmeno l’NFL Trust li possiede, ma Winston ha notato che i giocatori di oggi sembrano più interessati ai benefici a lungo termine che alle ricompense a breve termine.
“Se è una tendenza, non è un male” dice Winston. “Non credo che sia un male se un ragazzo decide tra varie opzioni e ha delle idee su cosa vuole fare. Non è forse quello che abbiamo sempre detto dei ragazzi della NFL? Che devono pensare a cosa succederà dopo e che si può giocare solo per un certo periodo? Ora, finalmente, i ragazzi lo fanno”.