La prima edizione del Playoff a 12 è degli Ohio State Buckeyes

Come 10 anni fa, all’edizione di esordio di un nuovo formato per decretare il campione nazionale, trionfano gli Ohio State Buckeyes, vincendo la finale ad Atlanta per 34-23 contro Notre Dame.

Una partita di football non si riconduce mai ad una sola giocata, però è chiaro che negli occhi dei tifosi Buckeyes resterà impressa la palombella lanciata da Will Howard per Jeremiah Smith a 2 minuti dal termine, su un terzo-down-e-11 cruciale, in un momento nel quale l’attacco dei Buckeyes sembrava essersi inceppato e Notre Dame stava producendo il suo massimo sforzo per una rimonta che, qualche istante prima di quel lob da 56 yard, sembrava tutto meno che impossibile.

È stata una partita nel complesso divertente e la sensazione è che abbia vinto la squadra migliore.

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Notre Dame ha affrontato il match come doveva fare: cercando di tenere l’attacco di Ohio State fuori dal campo e stancando la difesa dei Buckeyes. Il primo drive – durato 9’45” e conclusosi con la TD-run del QB Riley Leonard – faceva presagire una partita sulla strada giusta per gli Irish.

Ma non appena la palla è arrivata in mano a Will Howard, l’attacco dell’OC Chip Kelly – che, aperta e chiusa parentesi, era sulla panchina degli Oregon Ducks il giorno dell’ultimo titolo di Ohio State, conquistato 10 anni fa battendo 42-20 in finale proprio la Oregon di Kelly e Marcus Mariota – ha iniziato ad eseguire le chiamate con una velocità e precisione tale da non ammettere neppure un tentativo di replica da parte della difesa. Will Howard ha iniziato il match lanciando 13/13 e chiuso i primi 3 drive di OSU con un pazzesco 14/15 e 2 TD.

Notre Dame ha provato a mettere in pratica lo stesso schema visto nelle precedenti partite playoff: generare grande pressione sulla linea, anche con ripetuti blitz, e fidarsi della propria secondaria negli uno contro uno. Il problema di affrontare un attacco come quello di Ohio State è che qualunque sia la tua scelta, la coperta è sempre corta: se Howard e i suoi skill player sono tutti in serata di grazia si può solo resistere e sperare che qualcosa si rompa.

Ohio State ha segnato 4 touchdown nei primi quattro drive della partita, con una Notre Dame che ha avuto solo la grande abilità di resistere il più a lungo possibile senza regalare “big plays” che facessero terminare il drive in meno di un minuto. Rispetto al match di quarto di finale con Oregon, Ohio State nel corso dell’intero primo tempo ha avuto la palla in mano solo 3 volte – 3 TD, ovviamente – contro le addirittura 7 (!) del Rose Bowl. Questo ha permesso a Notre Dame di vacillare, soffrire, ma restare in qualche modo “viva” – iniziare una rimonta dal 31-7 o iniziarla dal 34-0 fa tutta la differenza del mondo.

Quando l’attacco dei Bucks’ è entrato in modalità “gestione” e, per contro, Riley Leonard e il suo top target Jaden Greathouse sono stati investiti dalla luce divina che spesso e volentieri individua i caschi dorati degli Irish, la partita si è clamorosamente riaperta.

Prima il TD (con annessa conversione da 2 punti) del 31-15, poi il fumble di Emeka Egbuka seguito da un altro ottimo drive arenatosi in redzone e concluso dal palo del kicker Mitch Jeter, e poi, dopo il punt di Ohio State la pazzesca giocata del suddetto Greathouse (con un’altra conversione da 2 punti splendidamente eseguita) che ha portato il match sul 31-23, ovvero con un solo possesso di distanza tra le squadre e ancora oltre 4 minuti sul cronometro.

Qui, dopo un primo down conquistato e due TFL della difesa, siamo arrivati al fatidico terzo-down-e-11 di cui in apertura. “Ho visto che erano a uomo e mi son detto ‘Hei, lascio partire una palla alta e lascio fare a lui la giocata’” ha detto Will Howard al termine del match. Quel “lui” è ovviamente Jeremiah Smith, l’enfant prodige del college football, un freshman che dopo solo il primo anno di college ha già tutta la nazione ai suoi piedi.

Sulla stagione di Ohio State sono state dette tante cose. È stata per lungo tempo una squadra imperfetta, piena di difetti e di incomprensioni tattiche. Ma i conti si fanno sempre alla fine e, dopo aver sollevato al cielo il 6° titolo nazionale della sua storia, non possiamo che rendere a coach Ryan Day e ai suoi ragazzi i giusti meriti, per aver dominato, anche sapendo soffrire, questi playoff.

Un mese e mezzo fa circa i Buckeyes venivano sconfitti in casa da una delle peggiori versioni di Michigan dell’ultimo ventennio, dopo una partita giocata con paura e senza acuti, con le proprie superstar che sembravano svuotate del proprio talento e il proprio QB che era parso semplicemente inadatto a guidare una squadra di così alto livello.

Si può dire che quella sconfitta sia stata la miglior cosa capitata in stagione ad Ohio State? A posteriori è facile parlare, ma è chiaro che dopo quei 60 minuti orribili di fine novembre, con annessa esclusione dal match valido per il titolo della BigTen, il coaching staff ha deciso di cambiare approccio offensivo alle gare e nelle teste dei giocatori è scattato qualcosa.

Coinvolgere di più il pacchetto ricevitori è stata sicuramente una scelta intelligente: una squadra che ha un giocatore come Brandon Inniss, capace sempre di fare giocate clutch e non perdere mai la propria compostezza, fa bene a provare a cercarlo di più. E ora pensate che Inniss è il quarto violino del pacchetto, perché davanti ci sono Carnell Tate – potenziale primo giro al Draft 2026 – Emeka Egbuka – potenziale primo giro, o inizio secondo al Draft 2025 – e quel mostro di Jeremiah Smith – potenziale top3 pick al Draft 2027, se dovesse non dico migliorare, ma solo mantenere questo livello.

Ma si parla anche di testa e non solo di schemi: cambiare approccio e affidarsi alle mani di Will Howard ha fatto accrescere l’autostima del ragazzo, che è arrivato a questa finale essendo convinto non solo di poter competere a questo livello, ma di poter essere decisivo. E assieme a lui si sono elevate le prestazioni di Jack Sawyer e J.T. Tuimolau, bersagliati spesso dalla stampa locale per le aspettative disattese durante la regular season.

Ma anche Denzel Burks, Caleb Downs, Sonny Styles in difesa, e Quinshon Judkins (partita da 11 portate per 100 yard e 2 TD in finale) e TreVeyon Henderson in attacco hanno compreso il proprio ruolo e aiutato questa squadra ad essere quell’organismo praticamente perfetto che abbiamo osservato in questi Playoff.

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E infine Cody Simon. Non il più talentuoso della compagnia, ma quel perno attorno al quale tutta la difesa ha girato: giocatore al quinto anno di college che ha fatto sentire sempre la propria importanza nei momenti decisivi.

Complimenti a Ryan Day, allenatore spesso discusso e non così amato neppure tra i suoi tifosi, che si è scrollato di dosso parecchie critiche e ha visto il proprio lavoro ripagato dal miglior premio che potesse augurarsi. Ora deve solo riuscire ad interrompere la striscia di sconfitte con Michigan per entrare nei cuori anche degli ultimi, pochissimi, indecisi.

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