Dulcis in fundo (Miami Dolphins – New York Jets 32-26)
A cinquantadue secondi dalla fine del quarto periodo, la stagione dei Miami Dolphins poteva dirsi in buona sostanza finita. E finita male. Una eventuale sconfitta contro i Jets (che a Miami non vincevano dal 2015) lascerebbe i cetacei appesi a quel tipo di matematica secondo cui se Andorra batte l’Inghilterra a Wembley con una goleada e contemporaneamente la Germania ne prende almeno quattro in casa con Cipro sei ancora dentro. Sarebbe peraltro la degna conclusione di una stagione azzoppata molto presto dall’infortunio del giocatore chiave della franchigia e in cui si è visto, una volta in più, che quando si sale di tono questa squadra ancora non ha titolo per fare la voce grossa. Il clichè del finesse team, con i suoi evidenti limiti.
Riprendiamo il filo. Cinquantadue secondi, sotto contro i New York Jets che giocano per onore di firma (e per rovinare il weekend ai rivali di division, che non guasta mai). Aaron Rodgers sarà pure in declino, ma col pallone in mano due o tre cose ancora le sa fare, ha appena portato Carlson a distanza utile per mettere tra i pali il 26-23.
Il primo reparto di Miami a mettere piede in campo, come da copione, è lo special team: non proprio la bolla di conforto della squadra di McDaniel, anzi. Qui inizia uno strano allineamento di pianeti: Malik Washington, ancora con l’aura (chiamiamola così, maledizione) del punt maltrattato a Green Bay che ha aperto le porte alla valanga del Thanksgiving, si inventa un ritorno di quarantacinque yard, le ultime sei o sette dopo aver graziosamente asfaltato il kicker avversario.
Forse a questo punto potrebbe iniziare un’altra storia, perchè un attacco che di solito fa il suo, si ritrova in sostanza con una ventina di yard da coprire per mettere Sanders in condizione di centrare i pali, cosa che in questo periodo gli riesce con discreta continuità (eccezion fatta per l’extra point dopo il primo TD di Achane). Anche in assenza di timeout, Tagovailoa prende le yard necessarie a mettere in campo il suo kicker, che dalle 52 yard non sbaglia e manda le squadre all’overtime.
La monetina arride alla squadra di casa, che da quel momento si ricorda che a roster ha uno dei tight end più produttivi della stagione, trascurato fino a quel momento ad eccezione di un no-look di Tua sparacchiato sulla schiena del tackle Patrick Paul (definizione da catalogo di giocatore “grosso”). Da quel momento in poi è un dialogo in esclusiva fra Tua e Jonnu Smith che raccoglie tre ricezioni per 44 yard e il touchdown che manda comunque la partita nei libri di storia (infatti 32-26 è il 1089esimo Scorigami nella storia della NFL…)
Non si può dire che sia stata una brutta partita, ma sembrava una storia che apparteneva ad un campionato diverso. Jets tignosi e orgogliosi più in difesa che in attacco (nonostante l’assenza di Sauce Gardner), tentano di mettere in campo quello che hanno e ci riescono: il comitato di running back rookie fa il suo e non fa rimpiangere troppo Breece Hall, Tae Adams e Garrett Wilson quando non si scontrano tra loro in campo aperto portano a spasso la difesa di Miami (Wilson ha praticamente bullizzato Jalen Ramsey…), Rodgers ha molto poco da rimproverarsi, ma per l’ennesimo anno l’aria a New York è assai pesante, compreso il licenziamento di Robert Saleh che ha innescato una vera e propria slavina. Ci sono diversi buoni giocatori, ma a volte questa squadra dà sempre l’idea di un puzzle da comporre senza nessuna figura di riferimento
I Dolphins… Same old Dolphins: vanno bene con chi sta oggettivamente peggio, ma non appena si sale di tono bussano, lasciano la scatola di cioccolatini e vanno mestamente via. Si ha l’impressione che il tetto di questa squadra sia quello della classica one-and-done ai playoff, ammesso che. Chi si ostina a vedere il problema in Tagovailoa probabilmente non mette bene a fuoco i cambi di sistema cuciti su un giocatore che “è” il sistema. Al netto dei problemi fisici il QB è passato dal gestire un attacco di fuochi d’artificio come quello dello scorso anno a un attacco che, in nome di una completezza che una squadra con ambizioni non può non avere, deve poter imporre anche le corse. Qui entrano altre variabili nell’equazione: la linea d’attacco non può prescindere dal supporto di Terron Armstead che praticamente non si allena quasi mai e gioca in condizioni fisiche decisamente non ottimali (respect). Patrick Paul potrebbe essere una risposta interessante ma non nel breve termine. Aaron Brewer è un ottimo centro quando va a bloccare al next level, le due guardie Jones e Eichenberg non sono nemmeno l’ombra della coppia titolare dello scorso anno (Wynn e Hunt), e Kendall Lamm non vale Austin Jackson (in IR). Achane è un atleta superbo ma è un runner da cambio di passo, e Raheem Mostert va per i trentadue anni. Il combinato disposto di tutto ciò è che i Dolphins non impongono un ritmo alla partita con le corse, Hill e Waddle sono raddoppiati e gestiti con molto più successo rispetto allo scorso anno: la loro produzione è di 1469 yard e 7 TD in due, con un cap hit cumulativo di circa ventotto milioni e un cash total di più di quarantacinque milioni: per capire che forse qualche priorità va ricalibrata aggiungiamo che la coppia di guardie titolari costa poco più del kicker. Qualcosa vorrà pur dire. Lo scorso anno i Dolphins erano una fabbrica di big play, quest’anno sono l’ultima squadra per giochi da più di venti yard. Lo scorso anno la difesa era prima nei sack, quest’anno è ultima. Unire i puntini non dovrebbe essere difficilissimo.
Una nota sul fair play di Hason Reddick. Quando Tagovailoa ha preso un primo down col solito slide che lascia tutta la tifoseria planetaria col fiato sospeso, si è limitato a mettergli le manone sul paraspalle. Alla prima occasione buona, Tua è andato a dargli il cinque. Questo va accostato a quello spettacolo indegno offerto da Al Shaair, a cui la NFL ha comminato solo quattro turni e che in sostanza rientrerà in campo prima di Trevor Lawrence. Forse c’è qualcosa da riconsiderare sul tema, ci permettiamo di notare.
Concludendo, sono due squadre che devono mettersi seriamente a studiare il modo per emergere in una division in cui in pratica sono venti anni che giocano per la wildcard, prima grazie ai Patriots e ora grazie ai Bills.
E se i Dolphins vogliono dimostrare un minimo di crescita almeno caratteriale, ora arriva la trasferta a Houston e quindi il Natale con i Niners.
Rimboccarsi le maniche e lavorare, avanti!