Se vi è capitato di assistere ad una partita NFL o NCAA dal vivo, vi sarete probabilmente accorti che in determinate occasioni il gioco si ferma, le squadre vanno sulle rispettive sideline ed entra in campo un omino con un guanto arancione (in NFL) oppure con un cartello con un countdown generalmente di due minuti (in NCAA). Finchè questi due personaggi stanno in campo, il gioco non riprende. Se invece che allo stadio foste a casa, quello sarebbe il momento in cui vengono trasmessi gli spot pubblicitari durante la partita, i cosiddetti TV time out.
In NFL ci sono otto TV time out a partita già predefiniti. Due si verificano alla fine del primo e del terzo quarto. e due in occasione del two-minute warning nel primo e nel secondo tempo. I restanti quattro vengono distribuiti durante il normale flusso di gioco cercando di non interrompere un drive, per cui vengono chiamati generalmente dopo una segnatura, dopo un cambio di possesso, durante una review all’instant replay, in caso di infortunio in campo o durante i time out di squadra. Non sempre, in queste occasioni, viene mandata la pubblicità, il che significa che il numero di otto time out televisivi è già stato raggiunto o verrà raggiunto con quelli “fissi” previsti, ma può anche succedere che, non essendo stato raggiunto il numero dei tome out previsti, venga interrotto il flusso del gioco per inserire gli spot pubblicitari.
La storia del TV timeout è particolarmente interessante ed anche un po’ bizzarra.
A metà degli anni ’50, con la nascita dei primi contratti televisivi, più onerosi finanziariamente di quelli radiofonici, le catene televisive si trovarono a dover far fronte ad un grosso problema: finanziare le trasmissioni attraverso spot pubblicitari. Il problema non era trovare gli inserzionisti, che facevano la fila per apparire durante le partite in TV, ma trovare la maniera di mostrare gli spot. La tecnologia televisiva dell’epoca non consentiva di passare dal feed della partita a quello degli spot in un attimo come avviene oggi, e proposero alle varie leghe professionistiche dei periodi concordati in cui le emittenti avessero la possibilità di fare lo switch di segnale e mostrare gli spot.
La NBA fu la prima ad accordarsi e la NCAA seguì a ruota. In NBA venne concordato che gli spot sarebbero stati trasmessi durante i time out chiamati dai coach, ma allo stesso tempo i coach avrebbero comunque dovuto chiamare un time out prima di arrivare ad un certo minutaggio di partita. In caso contrario sarebbero stati gli arbitri stessi ad interrompere la partita e caricare un time out alla squadra che aveva omesso di chiamarlo per tempo.
La NFL arrivò nel 1958. Le prime linee guida dei TV timeout imponevano agli arbitri di chiamarne uno se nessuna delle due squadre avesse segnato o avesse chiamato un time out nei primi dieci minuti del primo o del terzo quarto. Ovviamente ci furono parecchie proteste, perchè questo andava direttamente ad incidere non solo sul flusso del gioco, ma anche delle dcisioni dei coach, che venivano obbligati a chiamare time out anche quando non ne avevano bisogno per poi trovarsi, magari, con un time out in meno nei momenti topici della partita. Allo stesso tempo allo stadio sembrava inconcepibile che, ad un certo momento, tutto si fermasse e si dovessero aspettare i due minuti, o il tempo necessario, per permettere agli spettatori a casa di vedere gli spot pubblicitari.
Nonostante le proteste, le cose non cambiarono ed anzi, peggiorarono al punto che oggi i tempi delle partite sono strettamente dettati dalle esigenze televisive a tal punto che non è infrequente, soprattutto in NCAA, che il kickoff di una partita che magari deve essere trasmessa sulla TV nazionale venga ritardato perchè la partita precedente è andata lunga.