È ufficiale i fondi di Private equity sbarcano in NFL, con una quota iniziale di minoranza massima del 10% per ogni squadra.
Cosa sono i fondi di Private equity? Brevemente son dei grandi fondi di investimento internazionali (con sedi sparse nel mondo e, spesso, in paradisi fiscali), in cui confluiscono capitali provenienti dal globo terrestre. E il cui obiettivo finale è massimizzare, al più alto livello possibile, il profitto degli asset (quote in aziende), che fanno parte del fondo stesso.
Martedì 27 agosto scorso, i proprietari delle 32 franchigie NFL si sono riuniti a Minneapolis, per discutere e votare su diverse tematiche, introducendo fra l’altro col loro voto un’apertura che, da molti, è già stata definita epocale. Col voto favorevole di 31 team e un solo contrario (la proprietà dei Cincinnati Bengals), i proprietari controllanti le squadre NFL hanno dato il loro via libera agli investimenti all’interno della lega, da parte dei fondi di investimento di Private equity, che potranno così acquistare delle quote di minoranza (per ora) di uno o più team contemporaneamente.
Volendo elencare brevemente la serie di regole approvate: la forma di investimento sarà la Common equity. Una cordata di fondi potrà acquistare al massimo il 10% delle quote di un singolo Club. Il singolo fondo (non una cordata) potrà acquistare, anche lui, un 10% massimo di quote (limite più basso del 30% previsto in altre leghe professionistiche Usa). Un singolo fondo potrà acquisire una percentuale minima, del 3% (di proprietà), di una franchigia.
Ogni fondo (o cordata di più fondi) potrà investire in un massimo di sei Club (squadre) contemporaneamente e dovrà tenere le quote di minoranza, per un minimo di sei anni, prima di venderle. Il fondo in questione potrà, inoltre, investire al massimo il 20% del suo valore in una franchigia.
Sarà anche permessa una quota massima del 3% di proprietà di un fondo, che potrà essere detenuta anche da un proprietario NFL, o dalla sua famiglia.
Questi sono e restano, per i fondi, investimenti passivi. Non c’è, infatti, nessun potere di voto (in sede di consiglio di amministrazione delle società) per il fondo collegato alla transazione.
Le regole sulla ownership classiche della NFL restano, per altro, invariate. Il proprietario controllante la franchigia deve sempre possedere almeno il 30% del team e ogni team non può avere più di 25 proprietari totali, incluso il controllante, le famiglie, altri soggetti e, da ora appunto, i fondi di Private equity.
A Minneapolis è stato anche approvato l’elenco dei fondi approvati, per l’acquisto delle quote in NFL, che sono: Ares Mangement, Arctos Partners, Sixth Street. Ma anche un consorzio formato dai fondi: Blackstone, Carlyle, CVC Capital Partners, Dynasty Equity e Ludis. Fondo Ludis che, tra l’altro, è guidato (tra gli altri) dal running back, nonché Hall of famer Curtis Martin, ex Patriots e Jets. Non son permessi investimenti in NFL, da parte di fondi salute o pensionistici. La NFL pensava già da cinque anni a questa svolta, ma nell’ultimo anno la convinzione si è rafforzata e ha portato a un’apertura già fatta da tempo, da altri sport professionistici (la NFL è l’ultimo degli sport professionistici statunitensi ad aprirsi a questa possibilità).
L’effetto più immediato di questa novità è che i proprietari che vorranno vendere una piccola parte dei loro team a un fondo potranno accedere, velocemente, a centinaia di milioni di dollari in contanti.
Il ruolo dei fondi, per ora, non è assolutamente operativo, quindi, non cambierà il modo in cui le squadre sono gestite e non vedremo, a breve, un executive di un fondo sedere nella stanza del draft, per scegliere il futuro quarterback della franchigia. Un altro motivo che ha portato all’apertura, sottolineato anche dai comunicati ufficiali della lega stessa, è l’estremo bisogno di liquidità che verrà generata dalla vendita delle quote. E che i proprietari potranno utilizzare come meglio credono, anche per il rinnovo degli stadi o il miglioramento delle facility dedicate agli allenamenti della squadra. In un mercato, tra l’altro, come quello NFL in cui i contratti per certi ruoli (come i QB e i WR), lievitano a vista d’occhio di anno in anno e altri ruoli (come i RB e i TE) vogliono e pretendono la loro parte di attenzione contrattuale, questa potrebbe essere una soluzione per rendere sostenibile il sistema, anche nel medio e lungo periodo. Evitando così i rischi, paventati da molti commentatori, di avere squadre che possono permettersi al massimo due o tre giocatori strapagati, abbassando la soglia dell’intrattenimento e la spettacolarità del gioco stesso.
Inoltre questo potrebbe convincere nuovi proprietari ad affacciarsi al mercato NFL, dato che i proprietari miliardari, che possono permettersi questa scommessa, non sono infiniti nel mondo.
Volendo analizzare la situazione in modo equo, resta però da sottolineare il discorso etico, sulla provenienza dei capitali che fanno parte dei fondi di investimento. Molti di questi fondi hanno sede in paradisi fiscali (isole Cayman, Delaware, Bermuda, Panama, Isole Vergini) dove la tutela garantita alla provenienza e segretezza dei capitali investiti è massima. Anche volendo indagare sulla provenienza dei fondi, l’unica cosa che si troverebbe è un lungo elenco di società capofila e controllate (in una sorta di organizzazione in cui delle scatole contengono altre scatole), con sedi in questi paradisi fiscali e volendo ulteriormente andare a suonare ai campanelli delle loro sedi fisiche, si troverebbero solo uffici vuoti, all’interno di palazzi vuoti o, peggio, uffici che nulla hanno a che fare con la gestione di un fondo di investimento (come le preziose inchieste giornalistiche, anche italiane, di programmi Rai come Presa Diretta e Report, han approfonditamente descritto negli anni). E questo apre anche alla provenienza illecita di questi capitali (organizzazioni terroristiche, o anche Stati che vogliano, per così dire, occultare parte dei loro provenienti da attività meno etiche, come la vendita di armi).
Chiudendo il discorso sull’eticità di certi investimenti. Non ci resta che andare a curiosare nella storia e nelle particolarità di alcuni di questi fondi. Come il fondo Carlyle uno di quelli approvati dalla NFL, in cui si trovano connessioni addirittura con la famiglia Bin Laden (che faceva parte degli investitori fino a poco dopo l’attacco alle Torri gemelle), messe in luce tra l’altro nel documentario di Michael Moore “Fahrenheit 9/11”, quote poi prontamente svincolate dopo i fatti dell’11 settembre 2001. Carlyle in Italia tra l’altro ha una vita molto più tranquilla e investe in società come Riello, Avio, Moncler e Dainese.
Il fondo Blackstone fra i suoi asset annovera aziende come: Hilton, Thomson Reuters (che controlla la nota agenzia di stampa internazionale), Versace e i parchi di divertimento SeaWorld. Di Ares management spicca, invece, il valore di mercato che si attesta sui 295 miliardi di dollari.
Di natura più sportiva son gli investimenti di Sixth Street Partners, con sede principale a San Francisco in California. Detiene asset nel FC Barcellona, nei San Antonio Spurs (franchigia Nba), nel Bay FC, club calcistico della Lega femminile calcio Usa. Ma anche in Airbnb, Spotify e Credit Suisse. Mentre Arctos Partners ha acquistato nel 2023 una quota minoritaria del 12,5% del Paris Saint-Germain.
Per concludere questa panoramica sui fondi di Private equity, e il loro approdo in NFL, solo il tempo potrà dire se questa operazione si sia rivelata un successo o meno, se abbia dato ossigeno alle proprietà delle squadre, se il compito principale di questi fondi di massimizzare i profitti non abbia intralciato e cozzato contro gli interessi dello sport, giocato sul campo. Per ora i paletti messi a Minneapolis sono abbastanza restrittivi e dovrebbero prevenire influenze scorrette, ma non è detto in futuro le quote detenibili, in percentuale, si amplino dopo un primo esperimento positivo. E l’etica non è e non sarà mai il core business di questi grandi fondi. Spetterà ovviamente, come sempre, alla NFL vigilare, per proteggere e tutelare il suo prodotto.