Huddle’n Music: Pittsburgh 70s, sulle corde di George Benson
Pittsburgh, Pennsylvania.
Ferro, acciaio e cemento.
L’ossatura degli Steelers durante gli anni Settanta è tra le più robuste mai messe in campo nella storia della National Football League. In più occaisoni la redazione di Huddle Magazine ha parlato dei protagonisti assoluti di quella squadra leggendaria allenata da Chuck Noll: il nostro Mauro Clementi ha scritto di “Iron” Mike Webster nel suo libro Storie di Football.
Un capitolo emozionante, forse persino più emozionante del film Zona d’ombra che ha reso celebre la figura di Mike Webster anche all’interno del nostro mondo, che vive il football americano con l’asterisco della “nicchia”. Webster è sangue e passione, il centro offensivo più dominante della sua epoca e probabilmente anche di tutte le altre…
E mentre Mike si curava di concedere il tempo necessario per lanciare al suo quarterback Teddy Bradshaw, in sideline c’era un mostro che si dimenava attendendo il momento di entrare in campo per fare razzia di scalpi avversari: “Mean” Joe Greene, il possente difensore a capo della Steel Curtain che ho voluto ritrarre in Prima dello Snap.
Ad Huddle, dunque, ci siamo innamorati di questa generazioni di uomini d’acciaio che ha reso gloria eterna alla città di Pittsburgh.
Coach Noll ha allenato gli Steelers per 23 lunghi anni, dal 1969 al 1991, attraversando generazioni e cambiamenti, luci e ombre, gioie e dolori. Tutto.
La fase incantata è quella che però va dal 1972 al 1978: otto apparizioni consecutive ai playoff, due eliminazioni al Divisional, due eliminazioni al Conference, e quattro Super Bowl vinti!
Se consideriamo che in NFL ci sono organizzazioni che il Super Bowl lo hanno soltanto sognato, o visto in televisione, e sempre valutando l’estrema difficoltà che vige in questa lega e che faticosamente ritrova conferme nelle squadre che vincono il titolo beh, allora guardando agli Steelers degli anni Settanta ci poniamo al cospetto di un vero e proprio capolavoro footballistico.
I trionfi di Pittsburgh disegnati da Chuck Noll nei Super Bowl del ’74-75-78-79 sono un inanellamento artistico di livello superiore, che fa il pari con i Picasso del primo Novecento, quello del Ragazzo con pipa e de Les demoiselles d’Avignon per intenderci.
Così Pittsburgh cementa le sue radici nel football e impone il suo gioco nelle due fasi di attacco fisico e difesa devastante che non lasciano scampo; ne fanno le spese i Vikings nel ’75 perdendo la finalissima 16-6, seguono i Dallas Cowboys l’anno dopo nel concitato 21-17 per gli Steelers di una sfida vinta soltanto nel finale in rimonta. Poi il destino fa incontrare di nuovo Dallas e Pittsburgh nel ’78: epico 35-31 Steelers nel Super Bowl XIII e ancora una volta Dallas KO. Infine i Los Angeles Rams di Ray Malavasi, prima tenuti sotto controllo e poi addomesticati dagli Steelers con un 31-19 che non lascia dubbi.
Un ciclo tanto vincente quanto irripetibile, notti da favola che hanno condotto quella generazione di Pittsburgh Steelers all’immortalità. Nonostante tutto.
Tra l’industria pesante, le canne fumarie delle fabbriche e i successi dello spogliatoio Steelers, in città spunta anche la figura George Benson.
Nato a Pittsburgh nel marzo del 1943, Benson ha lavorato e prodotto innumerevoli brani spaziando tra i generi Soul Jazz, Funk, Rhythm and Blues e Pop e dal 1964 è ancora in attività. La voce di Benson è stoffa pregiata, elegante come seta bianca e armoniosa come una lira del passato (strumento eh, non valuta!). Mani soffici e tocco raffinato sulle corde della sua mitica chitarra Ibanez con la quale sembra essersi fuso in un tutt’uno.
Dopo aver parlato della dirompenza granitica degli Steelers, un argomento raffinato come quello di Benson appare quasi paradossale. Ma il talento del nativo di Pittsburgh rientra in quegli aspetti imprescindibili che vengono calcolati all’interno del retaggio culturale della cittadina. Se gli Steelers sono il grande motivo d’orgoglio della Pennsylvania, per Benson possiamo dire lo stesso.
L’interrelazione tra il suono delle corde e quello della sua voce ha creato un legame intenso con il pubblico mondiale. In gergo tecnico, ciò che fa Benson si chiama “Scat”: un virtuosismo molto utilizzato nel Jazz, un passaggio in cui la voce degli artisti va ad emulare il suono degli strumenti musicali. Il fonema diventa ammaliante per l’orecchio e il cantante lo utilizza sia in chiave ritmica, che a livello melodico.
George Benson è un abilissimo maestro nell’utilizzo dello Scat, al punto tale da averlo adottato come elemento distintivo in moltissime delle sue produzioni.
Give me the night è uno dei brani più celebri di Benson.
La canzone è la numero quattro dell’omonimo album che è stato pubblicato nel luglio del 1980, circa sei mesi più tardi rispetto alla vittoria dell’ultimo Super Bowl della dinastia Steelers del ’70.
L’album è stato registrato presso la Kendum Recorders Burbank California e la particolarità di questa opera è che Benson, fino ad allora, si era occupato principalmente degli aspetti musicali e meno del cantato. Ma con Give me the night la sua voce è emersa più presente e incisiva rispetto al passato e solo due dei dieci brani risultano essere strumentali.
And we’ll lead the others
On a ride through paradise
And if you feel all right…