Huddle’n Music: 1964, gli ultimi Browns e la voce di Tracy

Un passato importante, quello di Cleveland. Spesso più significativo di quanto non lo sia il presente.

Centro industriale che si sdraia sulla sponda sud del lago Erie e capoluogo amministrativo della Contea di Cuyahoga, nello Stato dell’Ohio, Cleveland ha vissuto il suo momento di massimo splendore economico e sportivo durante gli anni Cinquanta subito dopo la Seconda guerra mondiale. L’industrtia pesante dell’acciaio è stata il prima il successo e poi la “disfatta” cittadina, se vogliamo un pò come avvenuto con LeBron James nelle dinamiche dei Cavs in NBA. Finito lui, il nulla cosmico.

Con gli Indians (divenuti oggi Guardians) la città ha vinto le World Series di baseball nel 1948, un 4-2 contro i Boston Braves.

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Sui campi di football invece, dal 1946 (anno di fondazione) al 1965, possiamo dire che non c’è stata storia: i Cleveland Browns hanno giocato 13 finali nazionali in 20 anni, vincendone 8!

La tendenza statunitense del valorizzare anche le situazioni più banali rendendole commerciabili è ben nota, ma a Cleveland questo meccanismo non sembra funzionare affatto. Un noto museo di arte contemporanea, la Cleveland Orchestra e il Rock and Roll Hall of Fame and Museum non hanno alcun appeal sul turismo e sul pubblico, pertanto nel panorama americano Cleveland rimane una noiosissima città a prescindere dalle proposte.

Il tempo della gloria e dei trionfi che risalgono alla metà del secolo scorso sono riaffiorati forti con la vittoria del più pazzesco dei titoli sportivi: quello datato 2016 con il ribaltone dei Cavaliers sui Golden State Warriors di Curry, rimontati dal 1-3 nella serie e battuti per 4-3 in gara 7.

C’è però un problema, poco noto al pubblico italiano: l’Ohio non è terra di pallacanestro, bensì di football americano e per quanto valore possa avere il Larry O’Brien Trophy, a Cleveland baratterebbero dieci titoli NBA con un Super Bowl senza pensarci due volte.

Un pò il contrario di ciò che farebbero ad esempio nella Grande Mela, dove la città restituirebbe volentieri i due Super Bowl di Ely Manning e dei suoi Giants in cambio di una scalata sul tetto del mondo firmata dai New York Knicks, perchè quella newyorkese è invece terra di basketball. Dinamiche talvolta strane da comprendere, ma reali.

E dunque per ritornare alle celebrazioni infinite bisogna girare la bussola e proiettarsi nel lontano 1964, l’anno in cui i magnifici Cleveland Browns di coach Blanton Long Collier hanno sollevato l’ultimo titolo nazionale cittadino del football.

Dal 1946 i Browns hanno vinto 5 titoli nazionali consecutivi, perso 3 finali, e vinto altri 2 titoli. Da quel punto una breve fase altalenante di tre stagioni e poi un bel vuoto di mezza decade dal ’59 al ’63.

Si arriva quindi al famoso 1964. La stagione regala un record di 13 vittorie, 3 sconfitte, e 1 pareggio nella seconda giornata di campionato avvenuto col punteggio di 33 pari contro i Saint Louis Cardinals in Week 2. I risultati portano Cleveland al Championship finale contro i forti Baltimore Colts, allenati dalla leggenda di Don Shula. Colts che avevano un record di poco migliore rispetto ai Browns, 12-3 con una partita in meno giocata (funzionava così).

Il 27 dicembre del 1964 le due formazioni più forti della National Football League si sono affrontate al Cleveland Municipal Stadium History.

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I Browns hanno corso quasi il doppio delle portate dei Colts, 41 tentativi contro 25. In campo c’era un certo Jim Brown che ha messo il suo nome sotto a 114 yard di 142 totalizzate dalla squadra. Anche al lancio i Browns hanno fatto meglio dei Colts: le 206 yard lanciate da Frank Ryan hanno annichilito l’uragano Johnny Unitas, intercettato 2 volte e limitato a sole 95 yard lanciate.

Una partita fisica e combattuta in ogni singola zolal di terreno, ha visto il risultato rimanere ancorato allo 0-0 fino al terzo periodo di gioco; poi, mentre la forte difesa Colts era impegnata a contenere le incursioni di Jim Brown, il QB Frank Ryan ha scatenato il suo ricevitore Gary Collins mentre il campo si apriva davanti a 79.544 spettatori impazziti.

Gary Collins ha ricevuto e segnato 3 touchdown bellissimi per un crescendo memorabile, da 18, da 41 e infine da 51 yard gloriose.

Collins volava leggero, imprendibile, sul vento battente di un freddo pomeriggio di fine dicembre. E sull’ultimo sorriso dei Cleveland Browns.

browns

Il 1964 porta con sè un’altra storia ricca di significato per la città di Cleveland. Il 30 marzo del 1964 infatti, nella cittadina dell’Ohio nasce Tracy Chapman.

La sua voce modulata e profonda, inconfondibile per l’orecchio, sarebbe diventata un simbolo rappresentativo dei generi musicali folk, rock e blues. La raffinata e autentica cantautrice afroamericana ha iniziato il suo percorso artistico dalla strada e dai bar dove si esibiva cantando e suonando la chitarra, strumento che ha sempre impugnato sin da bambina.

La Chapman ha studiato Antropologia e gli Studi Africani presso la Tufts University di Metford nel Massachusetts, un piccolo centro situato a poche miglia a nord di Boston. Bryan Koppelman, il produttore della casa discografica Sbk, ha notato il talento di Tracy e le ha offerto la possibilità di pubblicare il suo primo disco nel 1988; disco intitolato Tracy Chapman.

La miscela dei ritmi africani, del rock e del genere folk combinate alle tematiche della povertà, dell’emarginazione e alle toccanti storie della povertà americana legata alla segregazione hanno fatto breccia nel cuore degli ascoltatori permettendole di vendere qualcosa come venti milioni di copie nel mondo.

tracy chapman

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Queste delicate tematiche, affrontate con stile, sensibilità ed eleganza da Tracy, hanno portato la cantante sulla cresta dell’onda e con il celebre tour organizzato da Amnesty International Human Rights Now! la cantante si è definitivamente affermata a livello planetario. Nota d’onore, quella di aver cantato al sessantesimo compleanno di Nelson Mandela.

I toni organici della sua voce e le lussuriose poeticà dei suoi testi, ricchi di valori intrinsechi, elevano Tracy a patrimonio culturale della musica americana. Impeccabile timing, che prima sente il ritmo nascere da dentro e poi lo cavalca nell’anima, addomesticandolo come solo lei sa fare.

Tracy Chapman è ciò che viene definito un fenomeno generazionale, di quelli capaci di far ballare una coppia di giovani sulle note della sua musica e a distanza di trent’anni di far rivivere le stesse emozioni alle stesse persone come se fosse ancora la prima volta. Tracy Chapman ha ispirato e fatto sognare generazioni di persone accomunandone sogni e pensieri semplicemente dandogli una ragione. E per questo il titolo scelto dalla sua discografia è proprio Give Me One Reason.

Il potere di fermare il tempo appartiene a pochi eletti.

Signore e Signori,

Tracy!

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Alex Cavatton

@AlexCavatton sport addicted dal 1986. Amministratore di Chicago Bears Italia. Penna di Huddle Magazine dal 2018. Fondatore di 108 baseball su Cutting Edge Radio. Autore dei progetti editoriali: Chicago Sunday, Winners Out, RaptorsMania, Siamo di Sesto San Giovanni, Prima dello snap. Disponibili su Amazon

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