Travis Frederick e la sua lotta alla Guillen Barré

Racconto romanzato basato sulla vera storia di Travis Frederick, centro dei Dallas Cowboys dal 2013 al 2019

Eccoti, disteso su un freddo lettino d’acciaio, pronto ad entrare nell’anello metallico per fare una TAC cranica (Computed Tomography) per cercare di capire cosa non permette più alle tue gambe di avere la stessa forza di prima e ai tuoi piedi e alle tue mani di avere sensibilità.
Un attimo prima eri al training camp dei Cowboys, per preparare la stagione 2018, ma tutti si accorgevano che qualcosa non andava e ora sei un paziente qualunque in un ospedale con tutte le tue paure. Ogni giorno camminavi sempre più a fatica, la notte ti svegliavi per vedere se riuscivi ancora a muovere le gambe, al mattino i primi passi erano sempre un’incognita. Tu che sei sempre stato una roccia, tu che nei drill uno contro uno eri imbattibile, ora ti sdraiavi a terra esausto non appena possibile, non sentivi più il grip sul pallone e solo la meccanicità del gesto ti permetteva di capire quando questo era arrivato nelle mani di Dak Prescott, addirittura non riuscivi più ad aprire una bottiglietta d’acqua tra gli sguardi sconvolti dei tuoi compagni.
Tu che fino a quel momento pensavi che l’anello del Super Bowl fosse l’unico a cui dare importanza, mentre adesso da quel macchinario sai che potrebbe dipendere il resto della tua vita, non solo quella da giocatore. Il lettino inizia a scorrere e l’anello inizia a girare, il tuo corpo è immobile, ma nella tua testa i pensieri si rincorrono come cavalli imbizzarriti. Perché’ hai sottovalutato quell’infortunio alla schiena? Perché hai continuato a giocare nonostante quel problema al collo? L’apparecchio smette di girare e il tecnico ti chiede di pazientare perché il medico vuole valutare altre posizioni.

Cosa avrà visto? Sarà un tumore al cervello? Il tecnico ti dice che devono fare anche la scansione spinale. Il lettino si immerge ancora più in profondità nel macchinario, mentre ti immagini gli scenari peggiori possibili: riuscirai ancora a camminare? Perché maledizione hai voluto una casa su due piani? Riuscirai più a giocare coi tuoi figli? Quanto ti resta ancora da vivere? L’anello smette di girare e il lettino viene fuori, il tecnico ti si avvicina e tu, con tutta la freddezza del campione che nei momenti decisivi riesce a rimanere focalizzato sull’obiettivo, chiedi: “Quanto devo preoccuparmi?”. La risposta è la frase più bella che tu abbia mai sentito, ancor più bella di quella di 5 anni prima con cui i Dallas Cowboys ti avevano chiamato con la trentunesima scelta assoluta: “L’esame è andato bene, non risulta nulla di anomalo”.
Ok, riprendi subito speranza, sai che sei nelle mani dei migliori neurologi del paese e capiranno cosa ti sta succedendo.  

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I sintomi sono insidiosi, perché non corrispondono alle varie ipotesi fatte e a nessuna delle malattie preventivabili, ma c’è un esame che può finalmente confermare un sospetto, per cui serve fare una puntura lombare per analizzare il liquor, è un esame invasivo e non privo di rischi, ma non se ne può  fare a meno. E’ assurdo ma devi sperare che l’esame vada male, in modo da avere finalmente una diagnosi precisa e con essa una cura, anche perché le alternative possono essere molto peggiori e soprattutto è difficile combattere quello che non conosci.
Finalmente il neurologo dice di aver risolto l’enigma: ho la sindrome di Guillan Barré. Mai sentita prima, anche il medico dei Cowboys che mi accompagna non ha idea di cosa sia. Il neurologo ci spiega che è una rara patologia autoimmune che colpisce i tuoi nervi non permettendo al cervello di comunicare coi tuoi muscoli; non c’è un attimo da perdere e bisogna partire subito con la somministrazione endovenosa di immunoglobuline per fermare il fenomeno evitando che possa rapidamente portare alla paralisi e, nel caso peggiore, a bloccare anche i polmoni e la respirazione.
Fortunatamente è stata diagnosticata prima che progredisse esponenzialmente e la cura sta dando subito ottimi risultati già dai primissimi giorni.
Il pensiero adesso non va al campo da football, ma solo a tornare ad avere una vita normale, potendo stare con la propria famiglia a giocare coi propri bambini.

travis frederick family cowboys

Dopo 5 giorni di terapie si torna finalmente a casa, il miglioramento è incredibile, la sensibilità è tornata, ma le scale restano una difficoltà enorme, devo aiutarmi col mancorrente per poterle fare e non posso portare a letto la mia bimba addormentata perché le gambe potrebbero cedere facendomi cadere con lei in braccio.
Però adesso so che tornerò ad avere una vita normale, dovrò fare tanta fisioterapia, ma il lavoro duro non mi ha mai spaventato e sono un esperto di come rimettermi in forma.
Ad ogni progresso aumenta l’euforia, chissà che magari non riesca a calcare di nuovo i campi da football. Mi manca il gioco, mi mancano i ragazzi, l’aria che si respira nello spogliatoio, però non tornerò se non sarò in grado di farlo ai livelli a cui ero abituato. L’NFL è una lega d’eccellenza e i Dallas Cowboys meritano solo il meglio, per cui se non sarò in condizioni di garantirglielo tanto vale smettere.

I mesi passano, coach Garrett mi consente di stare tanto con la squadra e addirittura di essere sulla sideline durante le partite con il ruolo de facto di assistente della linea offensiva. I giornalisti chiedono di continuo quando rientrerò e noi continuiamo a rispondere che sarà una valutazione che si fa settimana per settimana, perché è impossibile fare previsioni a lungo termine; questa sindrome è infida, all’inizio migliori in fretta, ma poi ogni piccolo progresso lo conquisti con la fatica e la cura dei dettagli, esattamente come sul campo da football. Non ci sono farmaci che possano aiutarmi, sto provando anche una terapia del sonno che potrebbe giovarmi, ma davvero non so se tornerò quello di prima.
La stagione 2018 è passata, abbiamo raggiunto il primo posto nella NFC East, ma purtroppo ai playoff, dopo la vittoria nella Wild Card contro i Seahawks, siamo usciti nel Divisional contro i Rams.
Ora ho un’intera offseason per vedere se potrò tornare in campo.

Eccoci arrivati al training camp 2019: il vero successo è già esserci, se penso a come ero messo un anno fa mi vengono ancora i brividi. Certo un conto è essere dichiarati clinicamente guariti, un altro è quello di tornare ai livelli di un giocatore Pro Bowler, ma confido che il training camp e l’opportunità di allenarsi con i migliori preparatori e giocatori del mondo riesca a farmi fare quell’ultimo gradino per tornare ad essere elite. In fondo un combattente come me non può accettare di non fare ogni tentativo per dimostrare alla malattia che non sarà lei a decidere quando porre fine alla mia carriera.
La stagione 2019 è stata durissima, in fondo ho giocato bene, sono stato anche convocato per il Pro Bowl, ma ogni giorno affrontavo il dilemma di non poter più essere al mio livello migliore e giocare semplicemente bene non è abbastanza per me e soprattutto non è quello che i miei compagni si meritano.

Per questo non posso far altro che ritirarmi, all’età di 29 anni e dopo essere stato convocato per 5 Pro Bowl, sapendo di aver sempre combattuto ed aver dato il massimo, sicuro di uscire di scena a testa alta.

La malattia è stata una sfortuna, ma nella mia mentalità è stata anche un’opportunità: mi ha fatto riflettere sul passato e sul futuro e mi ha fatto capire che ero grato per gli splendidi 7 anni passati in NFL, ma al contempo ero pronto ad affrontare il gradino ulteriore della mia vita: quello di padre di famiglia e di aiuto per la comunità di Dallas.
Come vedete in tutta questa vicenda ho usato spesso la parola gradino, visto sicuramente come una difficoltà da superare, specie durante la malattia, ma anche come uno stimolo per arrivare ad un livello superiore, infatti un gradino non è stato concepito per appoggiarci il piede e riposare, ma solo per permetterci di muovere il piede successivo un po’ più in alto.

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Giorgio Prunotto

Appassionato da 30 anni di football americano e dei Cincinnati Bengals, stregato dal design del loro casco, dalle magie di Boomer Esiason e dalla Ickey Shuffle.

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2 Commenti

  1. Da malato di polineuropatia sensitiva e muscolare ti capisco benissimo. Grandi parole specie quelle dell’ultimo rigo. #maimollare

    1. Grazie di cuore e non posso che confermare che non si molla mai, avendo anche la fortuna di condividere una passione che ci fa sentire uniti e forti nei momenti di difficoltà che si presentano. Un abbraccio.

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