Julian Edelman, la rivincita della “normalità”

Ce lo aspettavamo, non sapevamo di preciso quando, ma ce lo aspettavamo: negli ultimi mesi vari report ci messo davanti ad un Julian Edelman pensoso, così pensoso e logorato da vari problemi fisici da aver cominciato a prendere in considerazione l’idea di ritirarsi.
Ieri, nel giro di un’ora, si è concretizzato tutto prima con il mesto – ma necessario – taglio da parte dei New England Patriots, seguito immediatamente da una fiumana di tweet di varia natura nei quali i concetti i principali erano “ritiro”, “Tampa Bay” e “Tom Brady”: in pochi minuti, in pieno stile Edelman – ossia via video -, Jules ha personalmente annunciato il proprio ritiro dal football americano, ritirandosi così come giocatore dei New England Patriots, come giusto che sia.

Intendiamoci, un po’ di tristezza permane poiché Edelman è uno dei miei giocatori preferiti – principalmente per la nostra somiglianza che solo io sembro percepire – nonché eroe di culto universalmente celebrato, l’incarnazione di valori così spesso gettati in mezzo a discorsi sul football americano che sono quasi diventati cliché: passione, cuore, coraggio, forza di volontà, spirito di sacrificio, disponibilità, affidabilità ed ulteriore cuore.
In questo caso specifico, però, nessuna delle parole sciorinate può essere considerata cliché, Edelman era veramente tutto questo, nessun vocabolo è inappropriato: principalmente per questo Edelman ha saputo erigersi a idolo pagano di noi tifosi, indipendentemente dalla fede, poiché siamo un po’ tutti plagiati dalle narrative hollywoodiane che ci spingono a tifare per l’underdog, per la persona che compensa le proprie limitazioni fisico-atletiche con un’esagerata dose di cuore ed impegno spingendosi spesso e volentieri oltre ai propri limiti.
Non si può non fare il tifo per Julian Edelman, parola di uno la cui squadra del cuore è stata cacciata fuori dai playoff da un suo passaggio: sì, un passaggio, ma ci torneremo.

Sono incredibilmente grato di aver avuto la possibilità di assistere a tutta la sua carriera, vederlo scalare la depth chart dei Patriots fino a diventare il bersaglio preferito di Tom Brady, o perlomeno quello che cercava nei momenti più delicati della partita: ma com’è stato possibile tutto ciò?
Come ha fatto un ricevitore che a malapena supera il metro e ottanta a diventare il go-to-guy di Tom Brady? Come si può mettere a fianco di gente del calibro di Moss e Gronkowski, veri e propri freak creati in laboratorio, un ragazzo così generico che può essere confuso con un giocatore creato su Madden?
Principalmente per l’affidabilità e la totale mancanza di paura che lo ha sempre spinto a sacrificare il proprio corpo nei momenti più caldi della partita, i momenti in cui per convertire un terzo down cruciale Edelman era disposto a mettere il proprio corpo alla mercé dei safety pronti a regalargli il tackle più violento della giornata nel tentativo di fargli perdere il controllo del pallone: tutto inutile, a Edelman quei palloni non sono mai scivolati dalle mani, indipendentemente dall’inevitabile botta che stava per arrivargli.

Come si può non empatizzare con un giocatore del genere, uno disposto letteralmente a sacrificare la propria salute in nome del successo della squadra?
Non si può, semplice.
Quando si parla di Julian Edelman si tende spesso a tirare in ballo la Hall of Fame, poiché stiamo pur sempre parlando del ricevitore più importante di una squadra che ha vinto tre Super Bowl in un lustro e che si è pure portato a casa il premio di Super Bowl MVP, un riconoscimento in grado sicuramente di legittimare le proprie credenziali nel momento in cui un gruppo di giornalisti ed insider si riunisce attorno ad un tavolo per sviscerare la carriera di ogni singolo candidato: no, ve lo posso dire con discreta sicurezza, Julian Edelman non sarà mai introdotto nella Hall of Fame, non ha nemmeno un Pro Bowl nel proprio curriculum e le sue statistiche individuali – della regular season – sono buone, ma non sicuramente da Hall of Fame.
Nel caso di Edelman, però, non è necessaria una giacca dorata per compendiarne grandezza ed unicità.

Fra non troppo sarà sicuramente inserito nella Hall of Fame dei New England Patriots, riconoscimento che gli garantirà la definitiva immortalità nell’unica squadra per la quale ha giocato durante la sua carriera e credo che questo sia tutto ciò che gli interessi veramente: quali sono le probabilità che un giocatore selezionato al settimo round del draft riesca a diventare uno dei volti della propria franchigia? Quali sono le probabilità che questo giocatore riesca ad avere una carriera di dodici anni trascorsa interamente in una sola squadra?

Sono bassissime, rasenti allo zero, eppure lui ce l’ha fatta semplicemente lavorando più di chiunque altro e non avendo mai paura di nulla: caratteristiche del genere renderanno qualsiasi giocatore un’icona.
Edelman nei suoi dodici anni a Foxborough ha dato veramente tutto alla causa Patriots, figuratevi che nei primi anni, quando ancora non era Julian Edelman, per tenersi stretto il proprio posto a roster giocò anche come cornerback, emulando quel Troy Brown che esattamente come lui malgrado statistiche non particolarmente impressionanti si è eretto a divinità nella comunità Patriots: è anche questo per me Edelman, la reincarnazione di Troy Brown, uno dei primi giocatori a cui faccio riferimento quando voglio spiegare a qualche neofita cosa sia la Patriot Way e cosa significhi veramente giocare per Bill Belichick.
Per il proprio allenatore Edelman ha addirittura “giocato come quarterback” lanciando di tanto in tanto lo sferoide in trick play che hanno avuto modo di entrare nella storia, come quella avvenuta durante il Divisional Round dei playoff 2014 contro i Baltimore Ravens, una giocata fondamentale nel cammino dei Patriots verso il quarto Lombardi, il primo dal gennaio 2005.

Appurato che non sarà mai Hall of Famer, la sua carriera rimane comunque impressionante, soprattutto se ci si concentra sulla postseason, quel periodo dell’anno in cui giocata dopo giocata Edelman ha avuto modo di scrivere la propria leggenda: il fatto che solamente l’inarrivabile Jerry Rice abbia messo a segno più ricezioni e guadagnato più yard di lui ai playoff ci permette di comprendere piuttosto intuitivamente che senza di lui, forse, i New England Patriots non sarebbero stati in grado di scrivere il secondo capitolo della loro dinastia ed erigersi a franchigia più vincente del ventunesimo secolo e, perché no, di sempre.
Ritengo particolarmente poetico il Super Bowl MVP, un raro riconoscimento individuale che ricompensa magnificamente anni di relativo anonimato e di sacrificio che ha di fatto chiuso un cerchio: affinché tutti potessero apprezzarlo a fondo siamo stati costretti ad assistere ad una partita offensivamente moscia, una partita nella quale è stato messo a segno un solo touchdown e nella quale siamo stati in grado di percepire il peso specifico di ogni singola ricezione di Edelman.
Senza di lui forse il palmares dei Patriots non sarebbe così ricco.

Julian Edelman, però, non è solo un giocatore di football estremamente facile da tifare, ma è anche un essere umano stranamente interessante, uno Youtuber a tempo perso i cui video – anche se non fanno particolarmente ridere, ma glielo perdoniamo – ci danno un’idea un po’ più precisa su che persona sia e sul fatto che gli piacciano gli hamburger, cosa assolutamente normale ma alla quale lui ha dedicato giusto un paio di video: passando qualche ora sul suo canale è facile intuire come mai sia diventato amico dell’oramai influencer – non prendetelo come critica, l’uso dei social del GOAT è ineccepibile da un punto di vista commerciale e di immagine – Tom Brady, oltre che per la loro folle intesa in campo.
Arguto, tagliente ed al contempo un po’ sfigatino, l‘Edelman persona è estremamente piacevole per la propria genuinità, per la totale assenza di forzature con cui si pone al nostro cospetto mettendoci davanti ad una versione ragionevolmente simile al Julian Edelman della vita reale, quello che non ci è dato conoscere: così come fattoci vedere in campo, Edelman è una persona terribilmente “normale” con la quale ognuno di noi può in un certo senso identificarsi, soprattutto se non si è molto alti e si ha la barba lunga e riccia e… no, questo articolo parla di lui, non di me.
La sua genuinità gli ha permesso di entrare sia nel cuore di Brady sia nell’asettico buco nero collocato nella parte sinistra del petto di Bill Belichick, due persone estremamente diverse unite però dal sincero affetto nei suoi confronti, oltre che da sei anelli vinti insieme.

Sono estremamente sollevato dal fatto che si sia ritirato in questo modo, che abbia ascoltato il proprio corpo limitando gli ovvi danni che una carriera del genere può avergli procurato, sono contento che abbia trascorso tutta la propria avventura NFL ai New England Patriots evitando tristi cameo in qualche altra squadra nella quale, diciamolo, sarebbe stato poco più che un nome sul quale spellarsi le mani nel momento in cui si guarda la depth chart, non un ingranaggio chiave di qualsivoglia reparto offensivo come lo è stato nel corso degli ultimi dodici anni ai Patriots.

Non è mai stato uno di quei giocatori che rendono la NFL un po’ più must watch con il proprio atletismo, ma permettetemi di dire che una storia come la sua ci serviva, avevamo bisogno di un giocatore del genere che ci ribadisse che a volte lavoro ed umiltà siano veramente in grado di portare in alto una persona, così in alto da trasformarlo in icona: grazie Julian Edelman, grazie per i sacrifici che hai fatto per intrattenerci e per rendere un po’ più vincenti – e odiosi – quei New England Patriots dei quali sei diventato icona.
Ora, però, vacci piano con i video su YouTube che non sono particolarmente sicuro di volerti guardare emulare l’umorismo cringe da Michael Scott a giorni alterni.

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Mattia Righetti

Mattia, 27 anni. Voglio scrivere per vivere ma non so vivere. Quando mi cresce la barba credo di essere Julian Edelman. Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango malissimo.

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Un Commento

  1. Grazie e complimenti per l’articolo, che senza citare numeri, rende il giusto tributo ad un giocatore che ha messo sempre il cuore per ricevere qualsiasi pallone lanciato verso di lui. Anche quelli a tre centimetri da terra.

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