Ben Schwartzwalder, il capitano maggiore che creò Syracuse

Le giornate erano tutte simili. Temperatura mite, sole mattutino e pioggerella nel primo pomeriggio, come in un tipico maggio inglese. L’erba era di un verde acceso, vivo, quasi quanto quello dei prati del West Virginia, il suo West Virginia. Eppure, di acceso e colorato c’era ben poco in quei giorni inglesi tristemente segnati dall’angosciosa attesa del “Giorno dei Giorni”, il D-Day.
Nel Devon arrivavano ogni giorno nuove truppe a rinforzare il contingente pronto ad attuare quel colpo di genio che rispondeva al nome di Operazione Overlord: l’attacco che aveva il nobile obiettivo di ristabilire la pace in Europa e sconfiggere il nazismo, approcciando l’Europa continentale dalla Normandia.
La 505ª paracadutisti (propriamente “fanteria aviotrasportata”) era uno dei reggimenti destinati alla durissima impresa di cogliere il nemico alle spalle, venendo lanciata oltre le prime linee nemiche. Una missione psicologicamente complessa, perché i ragazzi del Colonnello Krause (a capo della 505ª) erano ben consci che se le truppe via mare non fossero riuscite a conquistare le proprie spiagge, loro, gli intrepidi paracadutisti, si sarebbero trovati ben presto senza rifornimenti e stretti nella morsa del nemico.
Le esercitazioni con le armi da fuoco e lo studio delle carte non riuscivano, da soli, a tenere occupati i soldati per tutta la giornata: veniva lasciato loro tanto, troppo tempo libero, che, come diceva Baudelaire, è causa di spleen: noia, malessere, angoscia.

Proprio qui si inserì il nostro eroe di guerra di cui oggi raccontiamo la storia. Per evitare lo spleen, per calcificare l’integrità del gruppo e per mantenere in salute – fisica, ma soprattutto mentale – il reggimento, il Capitano Floyd Burdette – per tutti semplicemente “Ben” – Schwartzwalder decise di rivolgersi all’unico Dio che fin da piccolo lo aveva protetto: lo sferoide prolato.
Quale sport meglio del football poteva preparare delle truppe ad un’avanzata in terra straniera? Gli stessi termini del football richiamano la guerra, se ci pensate: si parla di trincee, di fronte, di “difesa secondaria”, e poi, quando si supera la metà campo, si entra nel “territorio nemico”. E da lì a poco ad interpretare il ruolo del centrocampo sarebbe stato lo Stretto della Manica.
Ben predicava un football semplice ma concreto. Pochi arzigogoli – d’altronde era pur sempre un figlio del West Virginia rurale – molti muscoli, e alcuni, geniali, trick plays, inseriti a tradimento quando l’avversario si sarebbe aspettato l’ennesima corsa “a testuggine” a cercare di bucare la linea. E loro, i paracadutisti, erano la perfetta metafora del trick play: un lancio parabolico a colpire il profondo dopo una finta di corsa, scavalcando, invece che combattendo, il fronte nemico.
Ben organizzò una vera e propria Lega, con partite che si giocavano giornalmente sui morbidi e verdissimi prati inglesi che tanto si prestavano allo sport d’oltreoceano. E in quel maggio nel Devon, nel più improbabile degli scenari e con la più improbabile delle squadre, Ben Schwartzwalder chiuse la sua prima stagione della carriera da imbattuto, vincendo tutti e dieci gli incontri disputati e non concedendo nemmeno un punto agli avversari: e non è che avesse per forza dei fuoriclasse tra le mani. Organizzazione, rigore e disciplina: fanno sempre la differenza sul campo, sia esso di gioco o di battaglia.

Il 6 giugno del 1944, la 505ª fu paracadutata a Saint Mere Eglise, un (fino ad allora) tranquillo villaggio normanno, che vide la propria storia completamente sconvolta da quello scontro, divenuto particolarmente celebre per la storia del soldato rimasto impigliato per diverse ore sul campanile proprio della eglise di Saint Mere, evento raccontato magistralmente ne Il Giorno Più Lungo, eroica pellicola del ’62 con John Wayne, Sean Connery e Henry Fonda. Se ve lo state chiedendo: no, non era il nostro Ben ad essere il protagonista del singolare avvenimento. Sarebbe stato troppo, anche per una storia come questa.
In un mese il suo reggimento subì perdite ingenti, infatti solo il 35% dei suoi effettivi arrivò indenne alla battaglia di Saint-Lo – altro snodo cardine della riconquista dell’Europa. Ovviamente Ben era uno dei superstiti – altrimenti non ne racconteremmo la storia – e resterà al fianco dei suoi ragazzi per tutta la campagna francese fino all’arrivo in Germania, dove, nel 1945, ricoprì per sei mesi l’incarico di governatore militare della città di Essen.
Finita la guerra, l’ormai divenuto “maggiore” Schwartzwalder fece ritorno al West Virginia e fu insignito di una medaglia d’argento e una di bronzo al valor militare, oltre che di un Purple Heart – conferito a chiunque venga ucciso o ferito in operazioni militari – e quattro Service Star.

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Ma a casa non ci restò molto: la sua carriera da allenatore, troncata praticamente sul nascere dall’attacco giapponese a Pearl Harbor, riprese immediatamente dal Muhlenberg College, una piccola università privata di arte con sede sulle sponde del Lehigh River, ad Allentown, Pennsylvania. Muhlenberg era un college piccolo, senza troppe ambizioni sportive, però Allentown era una metropoli – rispetto a ciò cui era abituato in West Virginia – e si trovava sulla costa Est, a metà strada tra Philadelphia e New York, e per questo si trattava di una grande occasione. Il Nord-Est era la terra delle opportunità, ed era anche l’unico luogo d’America in cui un nome come Schwartzwalder, di limpide origini tedesche, non avrebbe fatto storcere il naso a nessuno. I tedeschi erano universalmente riconosciuti come gli aizzatori della Guerra, e ciò non giovava certo alla reputazione di quelli che ne portavano i geni, anche se immigrati di seconda o terza generazione, come Ben. Non che ci fosse un vero e proprio “razzismo”, ma semplicemente molti datori di lavoro – che magari avevano perso un figlio, o un nipote in Europa – preferivano un Johnson ad uno Schwartzwalder. In Pennsylvania, però, quasi il 30% della popolazione aveva origini germaniche, tanto che il Pennsylvania Dutch (o Pennsylvania German), lingua di derivazione germanica molto prossima al Tedesco Palatino, parlato nella valle del Reno, era – e in parte ancor’oggi è – parlata quasi quanto l’inglese. Allentown, infatti, è conosciuta tutt’ora anche come Allenschtadt. Come penso si intuisca dal nome, anche il Muhlenberg College aveva una forte componente germanica nella sua storia, essendo affiliato alla Chiesa Evangelica Luterana americana e intitolato a Melchior Muhlenberg, un patriarca di essa.
L’esperienza di coach Schwartzwalder alla Muhlenberg durò solo tre stagioni: il record di 25-5 inanellato con questa piccola combriccola di artistoidi gli diede la visibilità necessaria per essere notato da qualcuno ai piani alti, nella Division I. Il salto doppio – Muhlenberg è in D-III – avvenne nel 1949, quando Syracuse, università privata dell’omonima città nello stato di New York, decise di puntare su di lui per invertire la rotta del programma di football, che negli ultimi 20 anni aveva subito un lento ma inesorabile declino.

Syracuse, quindi. Eccoci giunti al punto.

Siamo agli inizi degli anni ’50, a pochi chilometri (secondo i canoni americani) da una New York in tumultoso rinnovo fisico e morale: sono i primi anni del consumismo, a New York cresce l’industria, e anche a Syracuse si registrarono grandi investimenti da parte di alcuni colossi americani come Chrysler, Carrier Corporation e General Electric, che aprirono nuovi impianti di produzione e portarono ricchezza alla città. Sono anche gli anni in cui la percezione del “progresso” cambia leggermente, anche grazie all’opera di movimenti artistici – ovviamente nati a New York, e dove altrimenti? – come il New Dada e soprattutto il Pop Art di Andy Warhol e Roy Lichtenstein. Una società con una liquidità di pensiero diametralmente opposta a quella dell’ex maggiore, da Point Pleasant, West Virginia, che si trova quasi catapultato in un mondo di cui capisce solo una parte.

Ben Schwartzwalder Syracuse

Ma, essendo questa una storia di sport, potete ben immaginare quale fosse il sentimento di quella “testa da football” di Ben Schwartzwalder nei confronti di questi movimenti a lui alieni: semplice disinteresse. Lui aveva il playbook, il campo e la birra, e tanto gli bastava per avere un’esistenza dignitosa.
L’impresa di ribaltare l’inerzia del declino degli Orange di Syracuse, non era banale. Erano anni ormai che i migliori recruit dello stato – stato, non nazione eh – preferivano altri lidi, e anche gli investimenti dell’università sul proprio programma di football erano gradualmente diminuiti, da quando esso non era più un fiore all’occhiello.
Nei primi tre anni riuscì, un passettino alla volta – 4-5 nel 1949, 5-5 nel ’50 e finalmente 5-4 nel ’51 – a riportare gli orangemen ad un record positivo, che mancava da prima dello stop per la guerra: il suo predecessore, tal Reaves Baysinger, in due stagioni vinse 4 partite perdendone 14, chiudendo la sua esperienza con 7 sconfitte consecutive.

Il 1952 fu l’anno che fece conoscere Ben a livello nazionale: Syracuse chiuse la stagione con 7 vittorie, cosa che non accadeva dal 1931, vincendo il primo Lambert Trophy della storia dell’ateneo – il premio assegnato annualmente (ancora oggi) alla miglior squadra dell’Est, cioè di: New York, New Jersey, Massachussetts, Pennsylvania, Maryland, Virginia, West Virginia e Delaware – chiudendo l’anno con l’onore della chiamata all’Orange Bowl di Miami, a sfidare la superpotenza Alabama di coach Harold Drew. Glissiamo sul risultato, perché non fa bene alla nostra narrazione. (Ve lo dico lo stesso, non vi lascio con la curiosità: 61-6 Alabama)
Il nome di Syracuse era stato nuovamente accostato a quello delle power house del college football, ma serviva ancora qualcosa al nostro protagonista per raggiungere l’assoluta immortalità.
L’organizzazione militaresca di coach S era invisa a molti studenti-atleti, i quali però “tacevano ed eseguivano”, visto che Ben, in perfetto stile “New York anni ‘50” passava loro laute mazzette per farli continuare a svolgere il loro lavoro e non farsi traviare da interessi meno nobili del football. La pratica di pagare i giocatori non era certo nuova nel college football – e ancora non è, ahinoi, divenuta obsoleta – ma con l’arrivo di Ben i compensi aumentarono e incrementavano con l’anzianità di servizio.

Anche il suo pensiero tattico seguiva i rigidi dogmi militari: era un sistema inquadrato e rigoroso che non lasciava molto all’estro dei suoi interpreti, considerati come semplici muscoli da sfruttare, e infatti con lui ebbero grandissimo successo i runningback – prima Jim Brown, poi Ernie Davis e Floyd Little, Jim Nance e infine Larry Csonka, l’ultimo della dinastia. Era un coach che noi definiremmo “all’antica”, ma, d’altronde, era figlio dei suoi tempi, del suo stato natale, e dell’educazione prussiana che aveva ricevuto. Non era un allenatore molto aperto al dialogo, spesso non conosceva neppure tutti i suoi ragazzi per nome, ma solo per numero, perché nei fogli di carta che imbrattava a migliaia nel suo studio, alla disperata ricerca dello schema perfetto come un fisico di un’equazione esplicativa di un fenomeno, i ragazzi erano contrassegnati solo da un numero e/o una sigla.
Altro suo aspetto caratterizzante era l’avversione a “quelle porcherie moderne che vi mettono in testa i giornali”, riferendosi ovviamente ad Arte e Filosofia, ovvero tutto ciò di non-pratico che portava i ragazzi sulla via errata, seguendo il sentiero appena battuto dalla Beat Generation (e quindi i vari Kerouac, Ginsberg, Burroughs, Bukowski ecc.). Ragazzi persi, ai suoi occhi, che alla candida purezza dello sport – sanificatore di fisico e mente – preferivano la perversa tenebra dei baccanali.

In un pezzo del suo libro “Out of Their League”, Dave Meggyesy – linebacker di quella Syracuse e poi per sette anni in NFL con i St. Louis Cardinals – racconta di un colloquio avuto con il coach, il quale gli intimava, con tutta la pacatezza e l’amorevole comprensione che poteva avere un ex maggiore dell’esercito che ha visto la morte in faccia molte volte, di “smettere di uscire con quei beatnik della School of Fine Arts, altrimenti potresti giocarti la tua carriera, che sarà sicuramente piena di successi”. I beatnik erano i “seguaci della beat”, e negli anni ’50 in sostanza ogni college ne possedeva una cricca, più o meno nutrita. Che un linebacker girasse con “gli ubriaconi” non dava una bella immagine della squadra di football, che doveva essere pulita e mascolina.
Seguendo sempre la narrazione di Meggyesy si scopre che i beatnik, i ragazzi, avevano uno stile di vita considerato sacrilego per uno sportivo: bevevano, fumavano, e andavano alle partite di football solo per bere e fumare di più, e proprio per questo attiravano le attenzioni sue e di molti suoi compagni di squadra. Etichettavano il coach della squadra di football come “the pygmy paratrooper”, il paracadutista pigmeo, per via la sua altezza non statuaria, e lo prendevano in giro quasi costantemente assurgendolo a emblema di ciò che volevano combattere: la rigidità imposta, il proibizionismo e la ristrettezza di vedute.

C’è da dire, però, che nel suo essere retrogrado e impostato, Ben era un coach di football, e il suo lavoro lo sapeva fare eccome.
La stagione 1959 – esattamente 10 anni dopo il suo approdo a Syracuse – iniziò con la vittoria sui Kansas Jayhawks per 35-21, ottenuta di fronte ai 25’000 del Archbold Stadium – lo storico impianto degli orangemen, sostituito nel 1979 dall’attuale Dome. La partita fu molto particolare: a giudicare dal risultato la direste equilibrata, e così in effetti è stata fino all’ultimo periodo, ma gli Orange guadagnarono ben 493 yard a dispetto delle 67 dei loro avversari. A fine partita, come potete immaginare, Ben non era contento: la perfezione si raggiunge solo con una spasmodica ricerca di essa, e questa si ha solo con una perfettibilità estrema, quasi tossica, cosa che Ben aveva senz’altro: subire 21 punti con solo 67 yard di total offense avversarie voleva dire che la squadra non era stata abbastanza cinica e concentrata.

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La settimana dopo la prestazione fu addirittura migliore: 29-0 a Maryland lasciando 29 yard offensive ai Terrapins. Forse Ben aveva trovato la quadra. Le successive quattro partite, che Syracuse vinse con una media di 38 punti segnati e 3 subiti, infusero la netta sensazione che qualcosa di grande in quel del Nord di New York potesse accadere davvero: una difesa così veloce e maschia unita ad un attacco sempre imprevedibile – sfruttava il passing game oltre la media, a volte addirittura facendo lanciare il runningbacke muscolare potevano far rapidamente scalare il ranking agli Orange. E poi c’era lui, la stella nera vestita di arancione. Quel runningback (all’occorrenza lanciatore) menzionato poco fa che era l’incubo di tutti i defensive coordinator del Nord-Est degli Stati Uniti, e che rispondeva al nome di Ernie Davis, ma che tutti, dall’anno seguente, conobbero come The Elmira Express (dal nome della cittadina della Pennsylvania in cui era cresciuto). Ernie divenne poi – nel 1961 – il primo vincitore di colore dell’Heisman Trophy, prima di essere scelto al Draft dai Cleveland Browns coi quali però, non giocò mai a causa della leucemia che lo portò via a soli 23 anni: una storia unica e struggente raccontata, se volete approfondire, nel docu-film del 2008 The Express: The Ernie Davis Story, con Rob Brown ad interpretare il protagonista e un giovane Chadwick Boseman (altra storia unica e struggente) a vestire i panni dell’altro halfback Floyd Little.
Ernie, comunque, nel 1959 era uno degli ancora non moltissimi giocatori di colore del college football, e non era l’unico presente a roster a Syracuse. Coach Schwartzwalder su questo è sempre stato “meno retrogrado” di quanto la sua immagine potrebbe far pensare: era stato in guerra, aveva combattuto al fianco dei suoi “fratelli in armi” che non erano tutti necessariamente bianchi. Aveva visto da vicino, in Francia, cosa lo spettro del razzismo poteva causare e non voleva rovinare in quel modo anche la sua squadra. Citando sempre Meggyesy: “Coach Schwartzwalder non faceva distinzioni, trattava tutti male allo stesso modo”.

Ben non era razzista. Il sistema però lo era: i giocatori neri non ricevevano le stesse cure dei bianchi, non avevano gli stessi privilegi accademici e spesso non erano neppure accettati in tutti gli ambienti dell’Università. L’unica colpa che si possa imputare al coach è che non abbia fatto nulla per combattere lo status quo, ma non lo fece perché né condividesse gli ideali, ma per puro disinteresse: lui era l’allenatore della squadra di football e faceva l’allenatore, la politica non era il suo mestiere e la lasciava agli altri – Ibrahimovic avrebbe approvato. E fu per questo che nel ’69, nel clima rivoluzionario di quegli anni, anche a Syracuse scoppiò una rivolta, capeggiata dai giocatori neri di football passati alla storia come The Syracuse Eight (anche se erano nove!), che boicottarono alcune partite richiedendo parità di diritti. Ma questa, come direbbe Federico Buffa, è un’altra storia.

Tornando alla stagione 1959, l’unico match equilibrato di quella regular season fu quello giocato a State College contro Penn State, ancora imbattuta e al numero #7 del ranking nazionale. Dopo l’iniziale vantaggio dei Nittany Lions, Syracuse non sbagliò praticamente più nulla, portandosi sul 20-6 a metà dell’ultimo quarto, grazie al touchdown di… vabbé inutile che ve lo dica. Ma nonostante un secondo tempo da 2 yard di total offense PSU riuscì a segnare i due touchdown che le servivano, il primo su kickoff return e il secondo in seguito ad un punt bloccato, ma fallirono la conversione da due punti che avrebbe archiviato la sfida in parità (all’epoca non esisteva l’overtime). Syracuse conservò l’imbattibilità e, grazie alle contemporanee cadute della #1 LSU con Tennessee e della #2 Nortwestern con Wisconsin, Syracuse agguantò la posizione #1 del ranking, che, come potete immaginare, non lascerà più.
Le ultime gare di stagione regolare furono una mera formalità: 71-0 a Colgate, 46 a Boston U e 36-8 a UCLA, al Coliseum di Los Angeles.
Ciò valse per gli orangemen la chiamata al Cotton Bowl di Dallas, a giocarsi il titolo nazionale contro i Texas Longhorns del leggendario coach Darrell Royal.
Era la quarta volta in 11 stagioni che Scwartzwalder guidava i suoi ad un bowl game – le partite ad invito che seguono la stagione regolare – e nelle precedenti tre occasioni le cose non erano andate benissimo.

La gara, ovviamente, aveva dei risvolti che trascendevano la sola lotta sportiva: Syracuse schierava tre giocatori di colore – oltre ad Ernie Davis, c’erano il fullback Art Baker e il tackle John Brown – mentre Texas, da buona squadra del Sud era all-white. Si giocava, oltretutto, a Dallas, città segregazionista e, dunque, ostile a “questi nordici che si credevano rivoluzionari”: come narrato per esempio nel film The Green Book, quando i neri del Nord andavano al Sud erano costretti ad alloggiare in hotel a loro dedicati, geograficamente e stilisticamente lontani da quelli in cui pernottavano i loro colleghi.
Come ampiamente prevedibile, prima del match esplose una rissa, dovuta, a quanto narrato dai ragazzi di Syracuse successivamente, agli insulti razzisti rivolti dai Longhorns a John Brown durante il riscaldamento.

Il match, giocato in questa atmosfera tutt’altro che distesa, fu dominato fin dall’inizio dagli Orange, che iniziarono con un TD-pass di 87 yard per Ernie Davis, che bissò poco dopo con una corsa centrale che mandò le squadre al riposo sul 15-0. Nel secondo tempo, dopo il touchdown della speranza di Texas, fu ancora Davis che portò la palla in meta dopo un intercetto – all’epoca era usuale giocare sia in attacco che in difesa. La partita si chiuse 23-14, il che voleva dire titolo nazionale: Ben Schwartzwalder e suoi Orange avevano appena fatto la storia, eppure nello spogliatoio nessuno esultava. Anche al banchetto serale in onore dei vincitori non c’era alcuna aria di festa: Ernie Davis fu accolto per ricevere il premio di MVP della gara, ma fu poi immediatamente accompagnato all’uscita perché in quel posto “pettinato” lui non era accetto. Coach S in conferenza il giorno seguente apparse provato e decisamente seccato, e commentò la partita definendola “un vero incubo” a causa dell’arbitraggio dell’ufficiale Julius Truelson, il quale punì oltremodo gli orangemen e chiuse sovente entrambi gli occhi quando i Longhorns colpivano i nigger in maglia arancio. “Quest’uomo non andrà mai in paradiso” fu la frase che chiuse la conferenza e la stagione, storica, di Syracuse.

Ben Schwartzwalder aveva appena scolpito il suo nome sulla stele della Hall of Fame del college football, aveva consegnato una storia di vita incredibile ai posteri e aveva messo finalmente Syracuse sulla mappa del college football, eppure il giorno dopo ritornò al suo ufficio, a riempire fogli di carta con schemi scritti a matita e a contattare tutte le famiglie dello stato per trovare i nuovi orangemen da reclutare.
Una mentalità antica, levigata dalla sua educazione militare e per nulla incline al cambiamento, eppure in quell’anno aveva compiuto gesti storici e, a loro modo, rivoluzionari. Da lì a poco i suoi metodi di allenamento e i suoi schemi divennero obsoleti, e quando, dopo la bufera del Sessantotto, anche il Mondo divenne inadatto a lui, per le troppe implicazioni che il suo ruolo di “gestore di uomini” prevedeva, decise di ritirarsi, seguendo i binari che la sua società aveva costruito per lui: si diresse in Florida, a Saint Petersburg, come fecero praticamente tutti i veterani di guerra ormai in pensione, e visse lì i suoi ultimi vent’anni di vita.

Un uomo semplice, segnato da un destino maestoso, protagonista di una vita degna di essere raccontata. Questo era Ben Schwartzwalder. Il capitano maggiore che creò Syracuse.

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2 Commenti

  1. È grazie a questi racconti che mi innamoro sempre più del football.
    Complimenti

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