Il Riassunto delle Semifinali Playoff NCAA

Partiamo dalla fine: Alabama e Ohio State saranno le protagoniste del match dell’11 gennaio valevole per il titolo nazionale. Una sfida che promette una miriade di proiettili volanti e di punti sul tabellone, e che non vediamo l’ora di goderci.

Facciamo ora un passo da gambero e vediamo come “le magnifiche 2” sono arrivate laddove spetta loro.

La serata delle semifinali è stata aperta da quello che ci hanno detto essere il Rose Bowl che, però, del vero Rose Bowl ha mantenuto solo il nome. Né una squadra di Pac-12 né una Big10 (solitamente le conference invitate all’evento) e, inoltre, solo per la seconda volta nella secolare storia di questa partita – definita da molti, a ragione, la madre di tutti i bowl gamesi è giocato lontano da Pasadena, California, e dallo stupendo impianto che di questo match porta il nome. L’altra eccezione fu il 1942, ovvero nel bel mezzo di un altro tipo di guerra rispetto a quella che stiamo combattendo oggi, esattamente un mese dopo il tristemente noto attacco giapponese alla base di Pearl Harbor, considerata pericolosamente vicina alla costa Ovest e, quindi, a Pasadena. Quella volta si giocò a Durham, North Carolina, mentre questa volta la città prescelta è stata Arlington, Texas, per allontanarsi dalla California e dalle sue leggi restrittive e poter concedere a 20’000 persone l’onere di presenziare alla gara – altrimenti si sarebbe dovuto fare a meno anche dei parenti degli atleti.

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Tutto questo panegirico perché, in realtà, della partita in sé c’è da dire pochino. Fin dalle prime battute è apparso chiaro che i 19 punti e mezzo di vantaggio che i bookmakers davano ai Crimson Tide fossero del tutto legittimi. Notre Dame è entrata in campo con la mestizia di chi sa di percorrere il proprio “miglio verde” in attesa della sedia elettrica. E l’elettroshock, nella serata texana, è stato dato dal più elettrico dei giocatori in campo, ossia il favorito per l’Heisman Trophy Devonta Smith, ricevitore di Alabama che ha fatto ciò che ha voluto della secondaria degli Irish dall’inizio alla fine – la sua linea delle statistiche dice: 7 ricezioni, 130 yard e 3 TD, fate voi. Il drive Army-style degli Irish – oltre 7 minuti e tante corse – che li ha riportati sul 14-7 ad inizio secondo quarto sembrava apire uno spiraglio: l’unico modo per fermare Alabama, si diceva, è riuscire a far stancare la difesa e a lasciare fuori dal campo i Galacticos dell’attacco, per far perdere loro il ritmo. Più o meno. Rientrano i Tide: 6 snap, palla a Devonta Smith: 21-7. In poco più di 2 minuti.

(Se vi siete persi l’hurdle di Najee Harris lo trovate qua sotto: un’opera d’arte)

Nella ripresa il copione è stato più o meno lo stesso, con l’unica differenza che l’attacco di Bama abbia deciso di prendersi una meritata siesta, dopo aver segnato il quarto touchdown di serata, e aver portato la contesa (si fa per dire) sul 28-7. Due turnover nei primi due possessi degli Irish hanno fatto il resto: prima l’intercetto e poi la decisione (saggia) di Brian Kelly di giocarsi un quarto down, consapevole che la partita fosse ormai prossima a sfuggirgli definitivamente di mano. Incompleto di Ian Book e gara in archivio. Il touchdown degli Irish a 1 minuto dal termine è stato necessario solo ad evitare un altro risultato troppo simile a quel “30-3” della semifinale 2018, ancora ricordato a South Bend. La forma è un po’ migliore (31-14), ma la sostanza è la stessa. Next.

Nella notte si è invece giocato il rematch della già epica semifinale dell’anno scorso tra Clemson e Ohio State e qui, come detto in apertura, il risultato è andato contro agli allibratori. Al Mercedes-Benz Superdome di New Orleans, Lousiana l’attacco dei Buckeyes ha dato spettacolo per tutti i 60 minuti, segnando 49 (!) punti ad una Clemson capace di rispondere con soli 28.

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Eppure, l’avvio ci aveva fatto presagire qualcosa di diverso. Pronti via e il biondino con il #16 gestisce un dirve perfetto e porta personalmente la palla in meta, poi rapido three-and-out per i Buckeyes e palla di nuovo ai Tigers, già con l’occasione di azzannare la gara. Invece, da lì in avanti, il poker d’assi agli ordini di coach Ryan Day – Fields, Sermon, Olave e Wilson – ha iniziato ad ondeggiare alla stessa frequenza, e come noto dalla dinamica, un oscillatore in risonanza è difficilmente ariginabile. La difesa di Brent Venables, per la seconda volta nella sua carriera in South Carolina (la prima è stata l’incontro ravvicinato con la macchina infernale di LSU l’anno scorso) è sembrata del tutto inadeguata a contenere cotanta potenza di fuoco. Ha iniziato a far acqua da tutte le parti, e Justin Fields, con la cattiveria sportiva che quest’anno ancora non avevamo visto, ha deciso di infilare il piede di porco nelle falle e di allargarle a dismisura, colpendo con precisione chirugica i suoi bersagli. Non ha aiutato, poi, per gli Orange l’espulsione per targeting del LB e leader della difesa James Skalski.

La rivincita di Fields è stata dolce e definitiva. Il racconto dei mesi passati, ad allenarsi in palestra con gli schermi a ricordargli quel 28-23 del 28 dicembre 2019, a rammentargli che quel suo intercetto lanciato nell’ultimo drive potesse aver cambiato la storia dell’ateneo, oltre alla sua storia personale di perenne secondo. Una tensione accumulata in 12 mesi di supplizio, a ricordare quelle tante, troppe occasioni sciupate l’anno scorso e a ricordare, soprattutto, Trevor Lawrence fare a fette la propria difesa. Fields ha dimostrato non solo di saper gestire tale tensione, ma di saperne fare un perno su cui elevare la propria prestazione ed annichilire la sua nemesi.

Prestazione perfetta, che lascio commentare a voi guardando alcuni dei suoi highlights: freccette laciate in una finestra minuscola e bombe a tutto braccio sparate con la precisione di un artificiere esperto. Ad aumentare, inoltre, l’epicità della prova del #1 è stata la sua resilienza: la difesa di Clemson, come un pugile che non riesce ad andare a segno con i propri colpi, ha iniziato a lavorare al corpo del QB, con colpi più o meno intensi e a volte proibiti (Skalski). Ma Fields, zoppicante e macilento sulla sideline, sembrava scordarsi ogni ferita appena si metteva nella shotgun ad attendere lo snap, e puntualmente massacrava “sul campo” i suoi carnefici, con l’eleganza e la classe che solo un quarterback può avere.

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L’evento simbolo di come sia andata questa gara, a cospetto di quella dell’anno scorso, è stato il fumble di Trevor Lawrence nel terzo quarto. Nel momento in cui Clemson sembrava poter rientrare, dopo l’unico intercetto lanciato in serata da un Fields altrimenti immacolato, il QB orange ha perso palla in un gioco di corsa disegnato per lui, ma nello sfuggirgli è riuscito a ricoprila con una mano inchiodandola al suolo per un attimo, prima che il LB Buckeye Justin Hilliard gliela strappasse. Per gli arbitri, però, la chiamata sul campo è stata fumble recuperato dalla difesa, e le immagini non hanno dato una chiara evidenza del controllo di Lawrence per invertire il fischio. Una chiamata controversa, esattamente come quella dell’anno scorso sul fumble di Justyn Ross forzato da Jeff Okudah. Allora gli arbitri diedero ragione a Clemson, ieri, invece, ad Ohio State. Tutto torna.

Una parola d’amore (…) va anche spesa per Dabo Swinney, che, tenendoci alla sua reputazione di uomo di grande sportività e simpatia, aveva rankato Ohio State alla #11 della nazione (nel ranking stilato annualmente da AP sulla base delle scelte degli allenatori), sostenendo che una squadra con solo 6 gare all’attivo non potesse essere considerata da Top10. L’unica cosa che, a posteriori, ci viene da dire è che probabilmente Dabo aveva i suoi motivi per voler evitare i Buckeyes. E quei motivi li abbiamo visti tutti ieri sera.

Ora, il prossimo, e ultimo, appuntamento della stagione è fissato all’11 gennaio, per la finale. A risentirci in quell’occasione, allora e, mi raccomando, non mancate!

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