Frank Gore, una leggenda difficilmente comprensibile

Le mie domeniche, dalle 19 in poi, sono generalmente confuse e convulse: i molteplici e continui stimoli offertici dall’iperattivo Scott Hanson non mi permettono di digerire correttamente quanto si sta dipanando davanti ai miei occhi e spesso necessito di giorni per avere una visione d’insieme del tutto, una visione d’insieme che mi permetta di comprendere appieno il significato di quanto successo.
Generalmente, una volta finite le partite dedico almeno un’ora – intanto so che il mio corpo prima delle quattro di mattina del lunedì non si disattiva – ad una veloce review di statistiche e drive al fine di rendere il mio risveglio quanto più leggero possibile: vi capita mai, durante i lunedì mattina, di avere una serie di epifanie su quanto successo la sera e prima e sentirvi incapaci di formulare un pensiero razionale in grado di dare un senso a tutto?
Una prestazione maiuscola di un giocatore, una deludente di un altro, un grandissimo sforzo collettivo come quello dei ‘Niners contro i Rams, una figuraccia epocale come quella rimediata dai Raiders per mano dei certamente non irresistibili Falcons: è nella nostra natura cercare di dare una spiegazione razionale ad eventi del genere prima di archiviarli nella nostra memoria e prepararci ad affrontare una nuova settimana di vita e, soprattutto, di NFL.
Questo processo, fortunatamente, per una volta sono stato in grado di concluderlo già prima di abbracciare Morfeo, anche se in realtà a qualcosa non ero ancora riuscito a trovare una risposta: com’è possibile che Frank Gore a 37 anni sia stato in grado di mettere insieme una prestazione da 21 tocchi per 86 yards totali?

I tristissimi ma al contempo divertentissimi Jets domenica hanno rimediato l’ennesima sconfitta di una stagione nella quale, probabilmente, non arriverà nemmeno una singola vittoria e pertanto fermarsi a ragionare su di loro o qualsiasi cosa li riguardi può essere tranquillamente visto come sciocca perdita di tempo: i Jets perdono, sono i migliori a farlo e possono contare sullo staff perfetto per raggiungere tale obiettivo, non ha alcun senso arrovellarsi sulla più grande costante della National Football League.
No, i miei pensieri non erano focalizzati sull’undicesima sconfitta di una stagione – a loro modo – perfetta, non riuscivo a capacitarmi del fatto che Frank Gore, ad un’età in cui sei vecchio per la NFL e decrepito per il ruolo che interpreta, avesse toccato il pallone così tante volte in una partita di fine novembre: certo, stiamo parlando di una squadra così inesorabilmente scarsa che nemmeno una trasmissione televisiva calcistica provinciale scialacquerebbe tempo nel tentativo di dare un senso alle decisioni di personnel, ma perché non essere un po’ romantici, soprattutto in questo periodo storico?

È semplicemente impossibile che un running back arrivato al sedicesimo anno fra i professionisti tocchi così tanto il pallone, indipendentemente dalla qualità della squadra, anzi, è semplicemente impossibile che un running back eserciti ancora la professione a quest’età: normalmente il prime lo si ha fra i 25 ed i 27 anni, età oltre alla quale si inizia ad essere considerati obsoleti.
Frank Gore, però, non è un semplice running back, non è un insieme di numeri, non è un’efficienza che è inevitabilmente scemata con il progredire dell’età, con Frank Gore il discorso cambia completamente in quanto non stiamo più parlando di un normale giocatore di football americano che, in quanto tale, sarà sottoposto ad asettici processi di valutazione sostenuti da yards guadagnate a portata, successo nei pressi della goal line et similia: con Frank Gore, a questo punto, ciò non ha più senso.
Se vogliamo parlare di lui siamo costretti a farlo servendoci del cuore, acerrimo nemico di chi un giorno vorrebbe esercitare una professione nella quale per il momento trova solo svago ed un modo per evadere dalla vita di tutti i giorni: Frank Gore non è solo un giocatore di football americano, è una costante della nostra vita, una rara e preziosa certezza in un tempo nel quale ne abbiamo disperatamente bisogno.

Prendetevi un secondo, rilassatevi, pensate a “Frank Gore” e chiudete gli occhi.
Cosa vi viene in mente?
A me, personalmente, se si parla di lui mi vengono in mente due carriere, una durata dieci anni in California ai San Francisco 49ers ed una, più corta e meno soddisfacente, passata a vagabondare in AFC, specialmente in AFC East, division nella quale gli manca solo una sosta ai New England Patriots per dire di aver completato un improbabile grand slam, assurdo se si considera il fatto che abbia abbandonato la Baia a 32 anni.
Sono conscio che il concetto di “due carriere” sia alquanto bizzarro e pigro, ma ragionandoci sopra lucidamente penso possiamo concordare che la decade passata ai ‘Niners faccia parte di un passato oramai così remoto da poter essere attribuita ad un giocatore diverso da quello di cui sto parlando: urlo “FRANK GORE!” e nove tifosi su dieci lo assoceranno pressoché automaticamente ai San Francisco 49ers, perché è impossibile immaginarselo con una maglia di un colore diverso dal rosso.
Ecco, nel mentre sono intercorse circa sei stagioni, tre delle quali passate ai Colts, quei Colts che avevano puntato su di lui ed Andre Johnson per compiere il definitivo salto di qualità, anche se poi sappiamo tutti com’è andata: dopo la comunque soddisfacente esperienza ad Indy il nostro eroe si è cimentato nel sopracitato gauntlet in AFC East, iniziando il proprio percorso da Miami – dove confezionò una stagione di buonissimo livello -, per poi spostarsi a Buffalo ed infine a New York.
Sembra strano, ma sto parlando sempre e comunque dello stesso giocatore.

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Ho la fortuna di seguire questa lega da circa dieci anni e la prima cosa che si fa quando ci si getta nel fandom di una nuova disciplina – e lega – è cercare di gerarchizzare i giocatori: sostanzialmente vuoi capire quanto prima possibile chi – ed in un secondo momento perché – sia forte tentando poi di mettere in ordine il tutto al fine di avere una migliore comprensione di una lega di dimensioni inconcepibili per uno cresciuto seguendo religiosamente la pallacanestro.
La posizione di running back, vuoi per il fantasy football, vuoi per il fatto che tocchino – relativamente – tanto il pallone, è una delle prime nelle quali mi sono imbattuto: nella mia testa in una categoria a parte potevo collocare Adrian Peterson, Arian Foster e Chris Johnson, un gradino sotto gente come MJD, Michael Turner, Jamaal Charles, Ray Rice, Steven Jackson, LeSean McCoy e, infine, validi mestieranti come Rashard Mendenhall, Peyton Hillis, Darren McFadden e Cedric Benson.
Frank Gore, in un primo momento, non era neanche lontanamente nel mio radar, anche perché nel 2010 prese parte solamente ad undici incontri ed i 49ers di partite ne vinsero solamente sei, numero non sicuramente in grado di attirare l’attenzione di un distratto – ai tempi – occasionale.
Nel 2011, però, un ciclone travolse la NFL, un ciclone chiamato Jim Harbaugh: con il sanguigno Harbaugh i ‘Niners iniziarono a vincere e, finalmente, nelle mie gerarchie iniziò a farsi strada il loro running back, Frank Gore.
Non era spettacolare, non era veloce come Chris Johnson, non era esplosivo come Adrian Peterson e non aveva l’equilibrio circense di Ray Rice, ma non mi importava, in un modo o nell’altro il proprio lavoro lo portava sempre a termine e, senza esagerare, vidi in lui il cuore pulsante di una squadra pronta a fare rumore in NFL per molti anni: nessuna delle sue corse era merce da esibire con fierezza ai miei amici sotto forma di video su YouTube, ma al contempo nessuna delle sue corse era mai definibile come negativa.
Sempre avanti, se si parla di Frank Gore.

https://twitter.com/NBCS49ers/status/1330675687095750656

L’interesse suscitato dalla stagione 2011 mi spinse a volerne sapere di più e, informandomi con pazienza, riuscì ad aver un primo assaggio dell’immensità di questo giocatore: Gore non è mai stato il migliore nella propria posizione, in quanto durante i primi anni ha dovuto condividere il palcoscenico con i vari Shaun Alexander e LaDainian Tomlinson, gente che ci aveva illuso che l’MVP fosse un premio destinato a chiunque, non solo al miglior quarterback di ogni stagione, poi si è trovato costretto a convivere con l’esplosione di Adrian Peterson e Chris Johnson, poi con le conseguenze del terremoto Marshawn Lynch, con gli dei del fantasy football Arian Foster e Ray Rice, con meteore come Alfred Morris e Doug Martin… Insomma, ogni anno qualcuno era in grado di sedurci e far passare in sordina il fatto che, molto probabilmente, il nostro buon Gore aveva concluso pure quella stagione scollinando quota mille yards.
Ciò non è banale se sei in grado di farlo una volta in carriera, figuriamoci ogni anno.
Il suo palmares, infatti, ci testimonia esattamente questo poiché oltre ad una manciata di Pro Bowl – a quei tempi contavano ancora qualcosina – troviamo un solo inserimento nel Second Team All-Pro, nel 2006, anno che concluse con circa 1700 rushing yards: sempre spulciando nel palmares, però, troviamo la più grande testimonianza possibile alla sua grandezza, ossia la silenziosa presenza nel 2010s All-Decade Team.
Com’è possibile che in una posizione ricolma di talento e di stagioni sfavillanti a portarsi a casa questo genere di riconoscimento ci abbia pensato uno che in tale decade ha ottenuto “solamente” tre convocazioni al Pro Bowl?
La risposta sta tutta in un nome ed un cognome: Frank, Gore.
Faticate a trovare un senso a tutto ciò? Non siete i soli, potete stare tranquilli.

La “seconda carriera” lontana dalla Baia non è riuscita a regalargli il più che meritato Super Bowl che lo ha eluso nel febbraio 2013 così come non gli ha ringalluzzito il curriculum, in quanto l’ultimo Pro Bowl risale al 2013: ciò nonostante bollare come fallimento i suoi ultimi sei anni non risulterebbe possibile nemmeno al più convinto dei suoi hater, ammesso ne abbia uno.
Da quando non indossa più il rosso spruzzato d’oro Gore ha accumulato circa 5000 rushing yards che gli hanno permesso di scalare la classifica all-time per yards corse piazzandosi al terzo posto, a meno di un migliaio di yards da Walter Payton: a molti tifosi ciò però non basta in quanto “troppo facile avendo giocato così a lungo”.
Cari tifosi, non c’è niente di facile nel giocare così a lungo in questa posizione, è quasi impossibile avere ancora le gambe per trovare un posto a roster a 37 anni, figuriamoci per gestire un carico di più di venti tocchi durante la dodicesima settimana della sedicesima stagione in NFL: questa è una grandezza che trascende le statistiche, il record della squadra che gli sta dando tale opportunità od ogni riconoscimento individuale.

https://twitter.com/JimTrotter_NFL/status/1258084582282326017

Questa è una grandezza con il dolce retrogusto di unicità dato dalla consapevolezza che molto difficilmente nei prossimi decenni vedremo qualcosa del genere – anche se Adrian Peterson sta facendo qualcosa di simile -: non è mai stato il migliore, non è mai stato il più celebrato ed esaltato ma è sempre stato lì, ad un tiro di schioppo dal Lynch, Peterson, Johnson o Foster della situazione.
Quando il margine con i migliori della classe si è incrementato Gore non è svanito nel nulla ma ha continuato ad inanellare corse di quattro yards che con costanza e pazienza sovrumane gli hanno permesso di scalare la classifica all-time e di sedersi al tavolo delle leggende: la longevità non è un demerito, non cerchiamo un modo per screditare acriticamente qualsivoglia fonte d’orgoglio altrui, ma parte della sua intrinseca grandezza.

Non importa come, non mi importa se da uno dei migliori si sia trasformato in “uno che non vuole smettere”, non mi importa se molto probabilmente concluderà pure questa stagione guadagnando meno di quattro yards a portata, sottoporlo a giudizi riservati a colleghi di venticinque anni sarebbe profondamente ingiusto, blasfemo e miope, ci priverebbe dell’opportunità di apprezzare una storia di un’epicità unica nel suo genere che non potrà mai essere compendiata da numeri e touchdown.
Frank Gore ci dà stabilità, è un ponte che ci permette di collegare fra di loro diverse generazioni di giocatori, è un punto di saldatura fra un passato oramai sempre più remoto ed un presente che ha visto il suo ruolo sottoporsi ad una trasformazione che ha profondamente mutato la nostra idea di football: Frank Gore è un Hall of Famer non tanto per quanto fattoci vedere in campo – che basterebbe comunque a garantirgli una giacca dorata -, ma per il proprio ruolo nella storia NFL, per la silenziosa grandezza con la quale ha coccolato i nostri irriconoscenti occhi per quasi due decadi, per una consistenza senza precedenti che ha spinto il proprio – geniale – allenatore a dargli un carico di lavoro da ventenne a non troppi mesi dal trentottesimo compleanno.

https://twitter.com/MattBarr_/status/1227374982235348992

Non penso che basti un articolo per rendere giustizia ad un giocatore che può vantare a curriculum due carriere separate e distinte, due carriere profondamente diverse scandite dalla sua affidabilità, attributo sempre più importante quando si valuta un giocatore, ma ritenevo necessario esplicitare la mia incredulità dinanzi alla sua ultima stats line, stats line che ha generato in me un paio di epifanie che contrariamente al significato del termine non mi hanno scosso mettendomi davanti agli occhi qualche novità, ma mi hanno permesso di prendere coscienza definitivamente di quanto già sapevo ma, per qualche motivo, non avevo ancora fatto.
Poco m’importa se gioca in una delle peggiori squadre della storia di questa lega in quanto le inspiegabili emozioni che ho provato osservando quel “17 carries for 74 yards” messo insieme domenica vale più – per come sono fatto io – di qualsiasi prestazione da quasi 300 yards di Tyreek Hill o di qualsiasi outside zone di Dalvin Cook, e nonostante le duemilaeppassa parole spese e la settimana di tempo intercorsa da tutto ciò solo a pensarci mi si stampa in faccia il più ebete dei sorrisi.

In un mondo in cui c’è chi sostiene che Frank Gore con la Hall of Fame non debba averci nulla a che fare, molto probabilmente per apprezzare fino in fondo la sua leggenda sarà necessario che si ritiri e che, per la prima volta da quando ho memoria, ci faccia vivere in una NFL “senza Frank Gore”.
Nel mentre l’unica cosa che posso fare è invitarvi a prendere coscienza di quanta fortuna abbiamo avuto a vivere la NFL negli anni di Frank Gore: un giorno anche il più freddo di voi capirà cosa intendo e, forse, smetterà di dare per scontata la rassicurante continuità di cui ho provato a parlarvi.

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Mattia Righetti

Mattia, 27 anni. Voglio scrivere per vivere ma non so vivere. Quando mi cresce la barba credo di essere Julian Edelman. Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango malissimo.

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