Alan Page, la straordinaria vita di un vincente senza anelli

Estate 1963. Canton, Ohio. Un ragazzo delle superiori sta sgobbando sodo. Un lavoretto estivo più duro degli altri. Mattoni. Cemento. Carriole. In città stanno costruendo un museo per il football, per la Nfl. La lega è nata qui. Le fondamenta del nuovo edificio sono state gettate l’agosto dell’anno prima. È la Hall of Fame. Pronta a essere inaugurata quell’autunno.

“Spazzavo i pavimenti appena costruiti. Appena passavo a un altro piano erano di nuovo sporchi. Non il lavoro più interessante del mondo”.

Estate 1988. Canton, Ohio. Un distinto assistente procuratore dello stato del Minnesota, con il suo inconfondibile papillon, si alza. Infila la giacca dorata. E prima di posare con in mano il suo busto scolpito nel bronzo, dispensa una lezione da stampare e appendere in ogni spogliatoio. Sull’importanza dell’istruzione, anche per gli atleti. Parole inconsuete da quel palco. Parole sempre attuali. Sorprendenti, per chi non conosce quell’uomo oltre casco e paraspalle.

Pubblicità

PAROLE DA HALL OF FAME OF LIFE

“Non so quando i bambini smettono di sognare. Ma so quando la speranza inizia a svanire, perché l’ho visto accadere. Negli ultimi dieci anni ho passato molto tempo a parlare con ragazzi delle scuole di tutte le età. E ho visto nuvole di rassegnazione muoversi nei loro occhi mentre vivono il loro percorso scolastico, senza fare progressi. Sanno che stanno scivolando attraverso la rete nell’enorme sottoclasse che la nostra società sembra disposta a tollerare. All’inizio, i bambini cercano di nascondere la loro paura con aria di sfida. Poi, per troppi, la sfida si trasforma in disprezzo per le regole della nostra società. È allora che li abbiamo persi, forse per sempre. Ma questa perdita non è sempre così evidente come il ragazzo che abbandona la scuola per scegliere la vita in strada.

Ho visto uomini persi nella National Football League. Quando giocavo per i Vikings, ci fu una volta in cui arrivò un nuovo allenatore della linea difensiva e voleva che leggessimo il playbook per impararlo. Probabilmente non era una cattiva idea, per chi fosse capace di leggere. C’erano nove giocatori nel gruppo, tre di noi leggevano abbastanza bene. Due così così, alla fine ci riuscirono e ne vennero fuori. Per gli altri quattro fu un momento difficile e faticarono moltissimo. Fu doloroso per loro, ma fu doloroso per tutti noi. E condividemmo tutti il ​​loro dolore. Quegli stessi giovani uomini che faticavano a leggere una volta erano stati gli eroi delle loro scuole, inondati di riconoscimenti ed elogi per le loro prestazioni atletiche e autorizzati a bigiare le lezioni. Complimenti e adulazioni li hanno seguiti nei loro anni nella NFL, perché loro quanto meno sono stati fortunati, hanno battuto le statistiche: c’è una possibilità su 18mila di arrivare nei professionisti. Ma senza saper leggere, quali erano le loro possibilità di trovare un impiego una volta terminate le loro carriere di giocatori? Non stiamo facendo alcun favore ai giovani di Miami, Chicago, Philadelphia e L.A., se lasciamo che credano che un gioco li renderà liberi. Nella migliore delle ipotesi, i risultati atletici potrebbero aprire una porta che la discriminazione una volta teneva chiusa. Ma le porte vengono sbattute velocemente in faccia agli impreparati e ai meno istruiti.

Siamo a un punto della nostra storia in cui gli adolescenti neri sono le persone tra cui è più alto il tasso di disoccupazione. Sono le più sottovalutate della nostra società. E invece di fare un vero investimento nell’istruzione che potrebbe ripagarsi molte volte, la nostra società ha scelto di pagare il prezzo tre volte: una volta quando lasciamo che i bambini passino inosservati e inascoltati attraverso il sistema educativo, due volte, quando abbandonano per una vita di strada di povertà, dipendenza e forse anche criminalità; e una terza volta quando incarceriamo coloro che hanno oltrepassato il limite e sono stati arrestati. Il costo di questa negligenza è immenso in dollari e in abuso dello spirito umano.

Dobbiamo far istruire i nostri figli. Non abbiamo scelta. Una volta che abbiamo lasciato che raggiunga questo punto, il problema è obiettivamente troppo grande e troppo costoso da risolvere. Ma possiamo fare la differenza, se torniamo nelle scuole e troviamo i timidi e i ritardatari, i disadattati e i casi più duri, prima che rinuncino al sistema, e prima che il sistema rinunci a loro”.

Quel giovane ragazzo, quel distinto assistente procuratore, sono gli argini tra cui ha fluito un incredibile giocatore di football. I confini di una carriera che quel ragazzo non avrebbe mai immaginato e su cui quel procuratore non ama soffermarsi troppo.

Alan Cedric Page è l’immortale campione che non immagineresti mai.

È stato un vincente. Anche se ha perso quattro Super Bowl. Ha dominato giocando defensive tackle. Anche se era troppo leggero per stare in mezzo nella linea di difesa. Ha passato le estati tra una stagione Nfl e l’altra a studiare legge. Anche se il primo approccio è stato più faticoso dei mattoni, del cemento e delle carriole. Suona la tuba. Adora correre. Produce sciroppo d’acero. E gli è capitato di fare jogging con il presidente degli Stati Uniti, il suo amico Bill Clinton. Ama i cappellini da ciclista. Ha scritto quattro libri per bambini insieme alla figlia Kamie. Con quel suo mignolo piegato a novanta gradi sempre protagonista quando va a presentarli ai giovani studenti.

E per lui il football è stato una parentesi. Un capitolo, stupendo, chiuso. Un lavoro che gli ha permesso di raggiungere altri obiettivi. Diversi.

L’INFANZIA A CANTON

Alan Page nasce 75 anni fa proprio a Canton. Il 7 agosto del 1945. Non è ricco, nemmeno povero. La famiglia vive in un quartiere bianco. Si possono definire della classe media della società afroamericana di quel periodo. La madre Georgiana lavora al Country Club, occupandosi dello spogliatoio femminile. Il padre Howard senior è un imprenditore. Distribuisce dischi per i juke box, piazza cantanti e band nei club, possiede anche un saloon con una sala scommesse sul retro. Quando è più piccolo ha anche un forno, e Alan diventa Baker-boy, visto che aiuta a fare le consegne. Papà e mamma sono figure importanti, centrali. E la perdita della seconda quando ha solo 13 anni è un duro colpo da assorbire. Non potrebbe essere altrimenti. Pochi mesi dopo la morte della madre inizia a frequentare la high school. Una scuola cattolica, gestita dai gesuiti. Il football ancora non esiste per lui. Non ha voglia di nuove amicizie. E nemmeno di avviarsi in avventure particolari. Vuole concentrarsi solo sullo studio. Entra nella banda della scuola. “Fui scelto per il mio fisico, immagino, perché serviva qualcuno in grado di portare la tuba, quella pesantissima tuba!”. Continuerà a suonarla. Anche molti anni dopo, quando, una volta in pensione, in ogni edizione della maratona di Minneapolis e Saint Paul si posizionerà in un angolo del percorso con la sua pesantissima tuba. Per omaggiare e incoraggiare i corridori.

Pubblicità

Nel quartiere prova il baseball. Restare in piedi con una mazza aspettando di colpire una pallina durissima non è nelle sue corde. “Ho provato con il basket alle medie, ma non ero tanto bravo”. Così resta la palla ovale. Inizia soprattutto seguendo il fratello Howard, di un anno più vecchio. “Fisicamente più strutturato” parola del suo allenatore alla Central Catholic high school: John McVay. Nonno di Sean, attuale allenatore dei Los Angeles Rams, e successivamente vice presidente e GM dei San Francisco 49ers di Jim Walsh pluricampioni Nfl.

IL COLLEGE A NOTRE DAME

Di football Alan sa poco o nulla. È acerbo e scoordinato. “Il primo anno mi è servito per imparare a correre”. In primavera i ragazzi del football sono chiamati a fare atletica. Il fisico imponente… e Page viene catalogato come lanciatore di peso. Niente da fare. Nemmeno la corsa, cui tutti devono pagare dazio, è nelle sue corde. Proprio lui, che poi diventerà un instancabile runner. Quei 400 metri però sono un incubo. “Mi sembrava di morire”. Alan migliora rapidamente. Nell’anno da senior la sua forza fisica si abbina a una velocità e una rapidità insolite per un ragazzo di quelle dimensioni. E altrettanto insolite sono le sue passioni. “Durante un’ora di biologia chiesi chi volesse imparare a battere a macchina, un’altra delle materie che insegnavo. Alan si presentò. Con le sue dita quando schiacciava i tasti si stampavano 2-3 lettere e passava gran parte del tempo a disincastrare i tasti stessi”. McVay non era solo un coach ai tempi. Si dava da fare in più materie, il nonno di Sean. Biologia e dattilografia incluse.

Quando Alan è all’ultimo anno l’allenatore ha lasciato Canton per diventare assistant coach a Michigan State. Uno dei suoi primi compiti? Cercare di reclutare quel ragazzone di Central Catholic. Missione fallita. Le offerte di borse di studio che arrivano a casa Page sono innumerevoli. Purdue è in vantaggio. Michigan State chiaramente nella mischia. Nel mazzo di chi ci prova ci sono anche Ohio State e Northwestern. Quest’ultima è allenata da Ara Parseghian, che sa di avere poche speranze. La visita a South Bend dopo la fine dell’high school porta Page a scegliere Notre Dame. Niente da fare per McVay, nemmeno per Parseghian. Perché proprio Notre Dame? Per le garanzie che poteva offrire. Per il football, adesso. Per tutto il resto, frutto di un’ottima istruzione, in futuro. Perché per Page la palla ovale è un treno per passare da una stazione all’altra. Non una destinazione.

Sono anni duri, quelli. Gli studenti afro-americani nel campus sono pochi. Decenni dopo Page collezionerà oggetti che riguardano la discriminazione razziale, dell’era Jim Crow, il personaggio teatrale emblema della stessa. “Ho vissuto in anni in un cui lo Stato divideva la società a seconda della razza, è importante che quei giorni non vengano dimenticati. È cruciale che tutti, non importa da dove vengano, chi siano, che colore abbiano la pelle, quale sia la loro religione, il loro genere o che altro, possano avere lo stesso trattamento da parte della legge, che siano garantita loro giustizia sociale e uguaglianza. La mia collezione di memorabilia è un pro-memoria: negli Stati Uniti non è sempre stato così e non dobbiamo dimenticarlo”. Parole attuali, anche oggi.

Nell’anno da senior è l’unico afro-americano in squadra. Page va per la sua strada. Studia e si applica in campo. Dove è una forza della natura. Gioca defensive end e per i quarterback avversari è un incubo. Per poco, però, non lascia tutto. Per motivarlo i coach lo spostano dai titolari alle terze file. Sta già impacchettando la sua roba quando lo fermano.

Il primo anno l’allenatore è Joe Kuharich. Sanguigno, per farla breve. La stagione finisce 5-5 e il tecnico si dimette dopo un quadriennio sotto tono. Al suo posto arriva quel Parseghian che provò a reclutare Page per Northwestern. Primo non laureato tra le mura di South Bend ad allenare i Fighting Irish. Al primo incontro è già sintonia. La semplicità delle parole di Parseghian conquista Page. Posizione e possesso. Il football per il franco-armeno è tutto qui. La posizione di campo stabilisce quello che puoi fare in attacco e in difesa. Il possesso della palla determina quanta fortuna avrai nell’arrivare nell’end zone avversaria. In estrema sintesi.

“Per la prima volta mi sono fermato a pensare a una strategia per il football. Prima giocavo e basta. Ha acceso una luce in me”. Ara porta una rivoluzione non solo nella vita sportiva del suo numero 81. Per Notre Dame inizierà l’Era Ara. I record dei tre anni del connubio Ara-Alan finiscono 9-1-0, 7-2-1 e 9-0-1 con il titolo nazionale in quest’ultima stagione. È un defensive end All America, adesso. È il 1966.

Page gioca la partita per il titolo. “Per me ogni partita era uguale, non c’era differenza tra una gara in cui si gioca per il campionato e un’altra. L’importante è sempre stato dare il massimo e offrire un’ottima prestazione”.

alan page notre dame

Quell’uno nella casella dei pareggi del 66 è il 10-10 contro Michigan State. “Una durissima battaglia. Dopo la partita ero esausto. Felice che fosse finita. Non ho mai pensato che potesse costarci il successo finale, perché non era quello su cui mi concentravo. Per me l’importante era fare tutto il possibile, dare il massimo per riuscire a vincere”. Non sentire la pressione è un altro dei pregi di Page sin da giovane. Era pazzesca quella che si respirava a Notre Dame in quei giorni di avvicinamento al match contro gli Spartans. “Se sei bravo a fare qualcosa, se vuoi avere successo, per quel che mi riguarda devi approcciarti a qualsiasi momento allo stesso modo, che sia un incontro importante o un altro. Io ho sempre fatto così. Per me quella partita era importante come quella della settimana prima. Questo perché non puoi fare niente per quello che è già successo, non puoi fare niente per quel che verrà dopo ma puoi affrontare dando il massimo quello che ti si sta prospettando adesso”.

Pubblicità

Page negli anni del college si conferma un instancabile lavoratore. Sia in classe, sia sul prato. La preparazione è il suo mantra, che lo accompagnerà sempre. Non è il sogno del professionismo comunque a guidarlo. “Non ero concentrato su quello. Pensavo alla scuola. Alla possibilità un giorno di diventare avvocato”.

Prima di abbandonare definitivamente i campi delle università scopre cosa lo aspetta nella Nfl. Negli anni Sessanta i migliori senior del college, gli “All Stars”, a metà estate erano abituati a giocare una sfida contro la squadra campione Nfl. Nel 1967, dopo l’ultimo anno da All America di Page, sul prato del Soldier Field ci sono i Green Bay Packers di Vince Lombardi. Page si sciroppa una lezione utilissima per il futuro. “Quando sei un ragazzo, al college passi sopra la gente, superi per fisicità gli avversari, oppure gli giri intorno in un attimo. Io ero rapido, ero forte, e non ero nemmeno intimidito dalla reputazione dei Packers”. Ma quella sera non passa. Bob Skoronski, principalmente, e Forrest Gregg fanno capire ad Alan come funziona nei professionisti. “Mi colpivano, ma non particolarmente forte. Semplicemente ogni benedetto gioco si mettevano tra me e la palla”. Negli anni seguenti per loro non sarà così facile. “Tutte le volte che penso di tornare a giocare penso ad Alan Page e questo rende il mio ritiro molto più facile”: parole di Jerry Kramer, guardia Hall of Famer dei Green Bay Packers, nel 1969, dopo il suo addio ai prati. “È davvero un grande giocatore: duro, veloce, con passione”.

Lezione imparata, dal giovane Page.

LEGGENDA VICHINGA

I Minnesota Vikings scelgono Page al primo giro. Numero 15 del primo draft condotto insieme dalla Nfl e dalla Afl. Una pick che arriva da Los Angeles, dove pochi minuti prima della chiamata il GM Finks manda Tommy Mason e Hal Bedsole, per potersi assicurare Page. Con la loro prima scelta, la numero 2, i Vikings pescano il running back Clint Jones. Con la numero 8, si assicurano il ricevitore Gene Washington. Serve benzina in attacco, visto che se n’è appena andato Fran Tarkenton, quarterback sin dall’anno della fondazione. Jones è parte proprio della trade del QB con i Giants. Scambio chiesto dallo stesso Tarkenton e che fa approdare ai Vikes anche il tackle Hall of Famer Ron Yary, il ricevitore Rob Grim e la guardia All-Pro Ed White. Entrambi, Jones e Washington, arrivano da quella Michigan State del 10-10. Anche la prima scelta assoluta è di Michigan State: Bubba Smith, un defensive tackle pescato dai Baltimore Colts. Quando si dice… E di uomini di linea difensiva ne sono scelti altri due prima di lui: il defensive end Loyd Phillips di Arkansas dai Chicago Bears e il DT Ron Billingsley da Wyoming chiamato dai San Diego Chargers. Page non è nemmeno il primo giocatore di Notre Dame scelto, prima di lui i New York Jets chiamano la guardia Paul Seiler. “Volevo giocare a football ed ero felice di essere draftato. Non mi importava granché in che posizione. Ero eccitato per poter provare il football professionistico, per continuare a fare qualcosa che mi piaceva e per cui mi avrebbero pagato”.

Il general manager dei Vikings è Jim Finks. È in ospedale per riprendersi da un’operazione alla cistifellea nei giorni di quel draft che svolta la storia vichinga. E il dolore deve essergli d’ispirazione, se anni dopo, prima di un intervento ai denti, andrà a scegliere per i Chicago Bears un tale Walter Payton (1975).

Nel 1967 ha appena deciso di separarsi da Norm Van Brockling, primo allenatore della storia dei gialloviola, per affidarsi a un giovane emergente, Bud Grant. Arriva da una brillante carriera con i Winnipeg Blue Bombers della Canadian Football League, Grant. In Canada ha iniziato ad allenare a soli trent’anni e ha portato a Winnipeg quattro Grey Cup. È stato anche un grandissimo atleta, nel Minnesota è una leggenda universitaria. Eccelleva nel football, nel basket e nel baseball. Vinse anche un campionato Nba con i Minneapolis Lakers. Ma di questo, magari, parleremo in un’altra occasione.

Per certi tratti assomiglia a Page. Entrambi sono caparbi. Difficilmente influenzabili. Asciutti, se vogliamo. Tutti e due prima di prendere una decisione ci pensano a lungo e valutano attentamente tutti gli aspetti. E non hanno ripensamenti poi. Tengono molto alla loro sfera privata. Queste similitudini con l’andare degli non necessariamente sono state un bene per il loro rapporto. “Un allenatore stoico, concentrato sul creare un ambiente che consentisse ai giocatori di ridurre al minimo il rischio di sbagliare e che potesse aumentare al massimo le chance di vittoria”, evidenzia Page. “Ho parlato molto ad Alan negli anni. Più che con qualunque altro giocatore – confida Grant – perché lui faceva mille domande su tutto quello che facevamo”. Il loro sarà un sodalizio fondato sul rispetto reciproco. Fino al momento dell’addio, quando la scelta va di traverso a Page.

Ma c’è tanta storia da scrivere in mezzo.

Page ci mette poco a far capire che carattere abbia ai compagni. Uno dei primi giorni di training camp Jim Marshall gli si avvicina e gli ricorda che la sera ci sarà la consueta gara di bevute di birre tra i rookie. “Io non bevo”. Lo gela Page senza pensarci un secondo. Non c’è spazio per alcuna trattativa. Marshall ci prova, poi si arrende. “Il giorno dopo ero nervoso nel presentarmi all’allenamento” rivela Page. “Ma tutto filò liscio”. “Sembrava un tipo un po’ strano. Aveva il suo modo di fare le cose. Appariva un po’ testardo. Vedevamo che aveva un grande talento, ma non sapevamo se poteva integrarsi al meglio”, ricorda Marshall. “Era un solitario, che dopo l’allenamento alle volte sembrava annoiarsi da quanto succedeva intorno”, rivela il quarterback di quegli anni Joe Kapp. Con Marshall iniziano un’avventura e un’amicizia che segnano un’epoca. Un legame che è riservato solo agli amici veri e permette all’entusiasmo e alla parte bonaria del carattere di Page di raggiungere la superficie e mostrarsi. E Page non ci sta che ancora oggi il compagno non sia insieme a lui nella Hall of Fame. Per questo va perorando la sua candidatura. “Jim è stato il leader, il cuore pulsante della nostra squadra per 19 anni. Non solo ha raggiunto l’eccellenza che serve per essere a Canton, ma ha anche dimostrato una longevità agonistica che in cento anni di Nfl non ha mostrato nessun altro”.

Proprio perché i Vikings hanno già Marshall e Carl Eller a giocare defensive end, Alan in gialloviola si trova a cambiare ruolo. Quando prospettano a “Moose” Eller di fare spazio al rookie non è proprio entusiasta dell’idea. Così la matricola viene spostata al centro della linea difensiva al fianco di Gary Larsen. Sul lato destro. Dalla quarta giornata in poi per 12 anni non salterà un solo incontro in quella posizione. “Passando nei professionisti ho dovuto imparare un gioco diverso, conoscere nuove persone, nuove squadre. E una nuova posizione (a Notre Dame peraltro giocavano la tackle 6 con gli end molto spostati sull’esterno, ndr). Del resto Eller e Marshall erano obiettivamente eccezionali e non era facile che io potessi diventare forte come loro. Così qualcuno vide in me la possibilità di spostarmi al centro. Una volta iniziato in quel ruolo per me è stato abbastanza naturale l’adattamento”. Il centro Hall of Famer Mike Tingelhoff conferma.

Non ha i chili che di solito caratterizzano i defensive tackle. Poco male. Il dominio del quartetto negli anni seguenti ha pochi eguali nella storia del gioco. Tra il 1969 e il 1971 concedono di media 9,5; 10,2 e 9,9 punti a partita. Per sette volte tengono gli avversari a zero. Sono i leggendari Purple People Eaters. Nel Minnesota è come parlare dei Beatles.

Non ricordatelo a Page però, lui le etichette non le ama troppo. Anche se sono un complimento. “Eravamo un gruppo, un gruppo che si divertiva a giocare e lavorare insieme. Un gruppo di giocatori di talento. E soprattutto un gruppo di davvero ottime persone”.

Velocità, rapidità, capacità di trovare il punto in cui far perdere l’equilibrio all’avversario, sono peculiarità che permettono ad Alan di arrivare nel backfield con una frequenza disarmante. “I suoi piedi erano rapidissimi, come quelli di un ballerino”, commenta John Wilbur, offensive lineman dei Dallas Cowboys. “In un attimo ti ritrovavi con la pancia per terra e lui a placcare il portatore di palla. Decisamente imbarazzante”. Un incubo per i quarterback. Pesa 100-110 chili e batte costantemente atleti di 20-30 chili più massicci. “Molto del gioco dipende da come metti le mani sui bloccatori, dove le metti, e quanto velocemente sei in grado di arrivare a metterle dove vuoi tu. Il giocatore più leggero può battere quello più pesante se lo precede nell’ingaggio. E Page ci riusciva quasi sempre”. Confida il compagno ai Vikings Doug Sutherland. “Anche la sua risata era grandiosa” se la ride. Non tutti i compagni però ci vanno d’accordo. Non risparmia niente a nessuno. È riflessivo ma schietto. A volte brutale. “Era una persona tosta con cui rapportarsi. Io ci sono riuscito molto bene, non so il motivo, ma non per tutti è stato così” la voce di Paul Krause, safety e Hall of Famer di quei Vikings.

Pubblicità

Il record del primo anno è negativo. Di lì in avanti però Page e i Vikings infilano un decennio strepitoso. Dieci volte ai playoff in undici anni. Ci vanno già al secondo campionato dell’88 (numero di Page) in gialloviola, nel 1968, quando scalzano i Green Bay Packers dalla vetta della Central Division. Baltimore però gli rifila una lezione che Grant non esita a definire utile. Così è. Alla terza stagione arriva il miglior record della Lega. Arriva la prima vittoria nei playoff della franchigia. Grazie a uno sforzo difensivo finale guidato proprio da Page. “Eravamo avanti, i Rams però avevano trovato un buon attacco, coriaceo. Alan era stato bloccato, e quando Gabriel (quarterback dei Rams, ndr) si è preparato per lanciare, è arretrato, ha saltato ed è stato colpito nel petto dall’ovale. Ha controllato il pallone e ha corso fino quasi alla goal line suggellando la vittoria” rammenta coach Grant. Finisce 23-20. E arriva pure il trionfo nella Nfc.

Gli ingranaggi della macchina allenata da coach Bud si inceppano sul più bello.

Il Super Bowl premia i Kansas City Chiefs. L’attacco di Minnesota è imbrigliato e produce davvero poco nella prima metà della partita. Il quarterback Joe Kapp è un guerriero. Forse anche per questo nel primo tempo ci potrebbe stare di rischiare un quarto e uno a metà campo. Perché il coraggio e la generosità sono caratteristiche del quarterback di origini messicane, che coach Grant è andato a pescare nei Calgary Stampeders della Canadian Football League. Di talento puro però ne ha di più Len Dawson, suo collega in biancorosso. E il big play finale da 46 yard consegna l’anello ai Chiefs. La prima di quattro gigantesche delusioni sportive. Page chiude la partita con 4 tackle, 3 assist e un passaggio difeso.

IL PRIMO DIFENSORE MVP

Il dominio di Page è sempre più clamoroso. Nella stagione 1970 ricopre sette fumble, sette. Il totale in carriera sarà di 22. Nel 1971 è nominato Mvp della Lega: 109 tackle, 35 assist, 10 sack, 3 safety. Primo degli unici due difensori in grado di meritarsi l’encomio tra tantissimi quarterback, qualche running back e un solo kicker. L’altro sarà nel 1986 Lawrence Taylor. “Non è una cosa che capita a tutti o capita tutti i giorni. Non avrei mai immaginato potesse accadere. Ero felice”. È una macchina da sack il numero 88. Poco importa che la statistica non sia ancora ufficiale, lo diventerà solo nel 1982. I siti della Hall of Fame e di Espn gliene accreditano 173 in totale a fine carriera. Altre fonti parlano di 148,5. Anche sull’anno record ci sono dubbi, 21 e mezzo (dal discorso d’introduzione nella Hall of Fame) o 18 (Espn), nel 1976?

“Bloccarlo era come cercare di fermare un cuscinetto a sfera – ricorda ancora Wilbur – perché era così scivoloso e così difficile da leggere”. Anche se tutti sanno che devono prestargli attenzione nessuno riesce a contenerlo. “Imparare cosa fare non era così difficile come farlo sul serio – sorride Page – Per come la vedevo io, da quando veniva snappata la palla per me l’obiettivo era fermare il gioco. E prima ci riuscivi meglio era. Non c’era bisogno di essere particolarmente spettacolari nel farlo”. Eppure le sue giocate spettacolari sono innumerevoli.

La sua rapidità e la sua velocità gli permettono di ammassare anche una quantità spropositata di calci bloccati. Chiuderà con 28.

nfl films
Alan Page: The Original J.J. Watt – Clicca sull’immagine per andare al video.

Nove volte al Pro Bowl. Sei volte All Pro. Due volte difensore dell’anno. Ma i numeri contano fino a un certo punto. Il suo strapotere impressiona. La sua capacità di indirizzare le partite. Quando si studia quell’annata incredibile, quel 1971 da MVP, non si può prescindere dalla partita contro i Detroit Lions. Gli arbitri fischiano a Page due offside consecutivi. Uno in fila all’altro. Si infuria. Va a muso duro ad urlare contro l’arbitro. I compagni lo allontanano. Si toglie il casco e lo scaglia per terra. E diventa una iradiddio. Va a placcare due volte i running back per una perdita di terreno. Sacka il quarterback. E blocca il punt per una safety. CONSECUTIVAMENTE. È ovunque. “Quando si surriscaldava uscivano il suo temperamento e la sua parlantina” sorride Jim Marshall. “E diventava infermabile”, aggiunge Wally Hilgenberg. Nemmeno in campo può sopportare le ingiustizie. Ah, una settimana dopo, le analisi della partita da parte dei Vikings e della NFL stessa rivelano che Page non aveva commesso quegli offside: né sulla prima, né sulla seconda penalità.

Da vedere e rivedere anche l’intercetto di Jim Marshall sotto la neve nella sfida contro Detroit nel giorno del Ringraziamento del 1969. Una volta placcato Marshall non ci pensa un secondo, avverte la presenza di Page alle sue spalle e gli passa la palla all’indietro. Lui la prende senza alcuna difficoltà e va a segnare. Come fosse Moe Williams imbeccato da Randy Moss tanti anni dopo al chiuso del Metrodome.

Page riesce a leggere i giochi ancora prima che si realizzino. Prima che il centro muova l’ovale. Caratteristica che accomuna le leggende. “Ad Alan era concesso di allinearsi dove voleva. Di fare quello che credeva fosse giusto. E se vedeva qualcosa di particolare era autorizzato ad andare a colpire dove credeva fosse più utile” evidenzia Marshall. “Giocare al suo fianco è sempre stato grandioso e quell’Mvp è stato meritatissimo. Mai avrei pensato che un defensive lineman potesse essere insignito di quel titolo, nemmeno nei miei sogni più reconditi”.

È un difensore moderno, Page. Pass rusher interno come pochissimi nella storia. Ha delle caratteristiche che andrebbero benissimo anche nella Nfl pass happy di questi anni. Un precursore. Non si accontenta di controllare il suo dirimpettaio. Trova sempre il gap giusto per arrivare il più rapidamente possibile all’obiettivo. A lui si deve il cambio di prospettiva epocale per gli uomini di linea: partire non appena la palla si muove allo snap anziché dopo aver aspettato la reazione dell’uomo di linea offensiva di fronte a sé. “Alan si concentra sulla palla. E quando si muove, lui bussa” parola di Buddy Ryan, suo defensive line coach ai Vikings nel 1976 e nel 1977.

Dominante e unico come Aaron Donald, o il JJ Watt dei tempi belli, per citare due esempi attuali che rendono benissimo l’idea per la loro straordinarietà.

“Un giocatore con istinti ben oltre la media dei normali atleti. Un ragazzo brillante, sempre interessato a sapere il perché delle cose che si facevano. E sempre desideroso di conoscere come poter diventare un giocatore migliore”. La preparazione. Su un’incredibile base naturale. Alan Page riassunto nella parole di coach Bud Grant.

SUPER BOWL, DELUSIONI E DINASTIE

I suoi Vikings arrivano al Super Bowl per due anni consecutivi, nel 1973 e nel 1974. A guidare l’attacco intanto è tornato Fran Tarkenton, uno dei giocatori che con Page non legano particolarmente. Non ha un carattere semplice per tutti l’88. Il quarterback leggenda non basta per invertire la rotta e rendere il meritato onore a una squadra incredibile. Nel ‘73 a infrangere i sogni di Page, la cui stagione è meno scintillante rispetto alle abitudini, ci sono i Miami Dolphins. Lui combatte, piazza un paio di giocate importanti nel primo tempo, ma fatica contro le corse dei Dolphins. Tre tackle (uno per un’ampia perdita di terreno di Miami), un assist e un sack. Insufficienti per impedire al team di Don Shula il back to back dopo la stagione perfetta. Il primo quarto indirizza la partita. Miami segna su entrambi i drive divorando il campo via terra, soprattutto con Larry Csonka. Minnesota riesce a prendere il suo primo primo down quando scadono i primi 15 minuti. Il fumble di Miami su ritorno di kickoff dopo la prima segnatura se fosse ricoperto dai Vikings potrebbe dar loro una chance di restare in partita. Così non è. Prima della pausa di metà incontro solo una volta Page e compagni arrivano nel campo dei Dolphins. A poche yard dalla end zone e trenta secondi dall’intervallo Oscar Reed perde palla. Un errore dei tanti, comprese moltissime penalità in momenti cruciali, che costano caro. Sul 17-0 servirebbe un miracolo. Tarkenton e Chuck Foreman non ingranano. Prima del 24-0 di Miami, il tentativo di recupero di Page, per fermare Griese tutto solo a poche yard dalla end zone che cerca uno sbocco in meta, è il simbolo della ripresa. La corsa dell’88 è disperata. Stanca, nel suo finale. La difesa è in campo per troppo tempo per cercare di essere decisiva. Csonka passa di nuovo. Gli unici punti arrivano nel quarto periodo con una corsa di Tarkenton. È il solo drive decente. Page a pochi minuti dalla fine perde anche la pazienza e va a protestare veementemente con l’arbitro per un fallo. Gli scappa persino un offside. Non incide sul finale, segnato da un pezzo.

L’anno seguente Minnesota è ancora dalla parte sbagliata della storia. Sta cominciando la dinastia dei Pittsburgh Steelers, che vinceranno anche l’anno dopo. Page è un leone. Colleziona nove tackle, un assist e un sack. Raddoppiato e triplicato. Ma anche stavolta non è abbastanza. I Vikings sono più sul pezzo di dodici mesi prima. Pittsburgh fatica in avvio a venire a capo della difesa gialloviola. Non hanno la scioltezza e la consapevolezza dei Dolphins. Non sono altrettanto rodati. Ancora. Page piazza subito il suo sack. Il problema è l’attacco, che rimane asfittico. Così improduttivo da garantire agli Steelers sempre ottime posizioni di partenza. Il primo quarto si chiude ugualmente 0-0, con due field goal gialloneri falliti e lo zero assoluto da parte di Tarkenton and co. Pittsburgh non è meno impacciata dei vichinghi. Un fumble lascia l’ovale ai gialloviola a ridosso della red zone. La connection Tarkenton-Foreman non si connette. A sbagliare il calcio ora sono i ragazzi di Bud Grant. La battaglia nelle linee è durissima. Non è un bel Super Bowl. I primi due punti arrivano con una safety. Tarkenton perde palla nel tentativo di passarla al running back Dave Osborn. Ci si butta sopra in end zone. Preso. Vantaggio Steelers. Foreman si accende nel secondo periodo. E con lui Fran the Scrambler. Il suo passaggio più bello però fa una brutta fine. John Gilliam lo trattiene per un secondo a pochi passi dalla end zone prima che un la safety di Pittsburgh faccia esplodere il pallone con il suo placcaggio e l’ovale si alzi cadendo nelle mani del cornerback Mel Blount. Il primo tempo finisce così con punteggio calcistico. E sullo squib kick che Pittsburgh usa per aprire la ripresa Minnesota incappa in un altro errore. Palla persa, meno fortuna di Miami l’anno prima. Carbura Franco Harris. E segna. Tarkenton prova a fregare tutti. Passaggio murato che gli torna in mano. Lui lancia ancora e completa profondo su Gilliam. Gli arbitri sono attenti. E ci mancherebbe altro. Nel drive si fa murare ancora. Stavolta recupera Joe Greene. Un offside di Eller cancella l’intercetto dell’ottimo Jeff Siemon. Gli uomini di Grant inciampano nell’ennesima penalità. Di errori ne piovono a bizzeffe. Harris perde palla. Paul Krause se ne appropria. Un’interferenza di Mike Wagner su Gilliam concede finalmente un big play vichingo. Minnesota è a 5 yard da riaprire la contesa. Foreman perde ancora il possesso. Altro fumble. Page e soci salgono in cattedra e frenano Pittsburgh. Sul punt c’è il miracolo. Bloccato (Matt Blair) e touchdown (Terry Brown). La sagra degli errori non è finita. Il kicker Fred Cox calcia l’extra point sul palo. 9-6. Da non credere. E così come nel 1973 i punti arrivano solo negli ultimi 15 minuti. Terry Bradshaw riesce a mettere altro fieno in cascina. Tarkenton no. Intercettato. Finita 16-6. E dopo il record di 145 yard corse in un Super Bowl da Csonka l’anno prima, arriva quello di 159 di Harris.

alan page vikings giants

L’ultimo assalto al titolo risale al 1976. A sbarrare la strada stavolta ci sono gli Oakland Raiders. Page è nel vivo di molte azioni: i tackle diventano dieci, con il solito assist e un sack da 11 yard in meno per i Raiders. Non è però segno di una prestazione indimenticabile. I Raiders corrono sempre dal lato suo e di Marshall. Gene Upshaw è un osso duro da spolpare per l’88 così come Art Shell per Marshall. Il 70 gialloviola non mette a segno nemmeno un tackle in tutta la gara. Il running back Clarence Davis corre 137 yard, 105 verso sinistra. Appunto. Con la strada aperta anche da Van Eeghen che spiana Wally Hilgenberg, altro pilastro difensivo di Minnesota trovato da Finks, nei waivers degli Steelers, per la precisione, con cui non ha fatto in tempo a giocare nemmeno un match dopo la trade dai Lions. Anche in questa occasione le corse sono una spina nel fianco. Per la prima volta i Vikings segnano più di un touchdown nella finalissima. Pure in questo caso però, finiscono corti. È la sfida tra due delle squadre più vincenti del decennio ancora senza anelli. Le fasi iniziali di studio terminano quando Minnesota blocca un punt. Chance d’oro. Eppure dalla yard Minnesota non passa. Brent McClanahan commette un fumble assassino. Ancora gli errori a macchiare il cammino dei Vikings. Il tight end Dave Casper costruisce il field goal del vantaggio. E riottenuta la palla con lo stesso canovaccio vanno a mettere a segno sei punti. Dopo tante corse sono due passaggi di Ken Stabler a siglare l’allungo Raiders. Prima a Fred Biletnikoff, poi in end zone al solito Casper. E ancora Biletinikoff architetta con una ricezione da 17 yard il secondo td Raiders. Corrono dentro con Pete Banaszak. Il primo tempo dice 16-0. Le battaglie individuali sono tutte vinte dai Raiders. Dalla linea difensiva, ai linebacker, alle secondarie. Dai ricevitori a Foreman, il leader vichingo che li ha guidati in stagione per yard ricevute, corse e touchdown segnati, è limitato a sole 42 yard dagli undici uomini schierati contro di lui. Sotto 19-0 nel terzo quarto, Tarkenton riesce ad accendersi per un momento. Fiammata effimera il touchdown di Sammy White. Galvanizza però i Purple People Eater. E Page piazza il suo sack costringendo Stabler alla prima perdita di terreno della giornata. Scrambling Fran può solo lanciare e adesso la difesa Raiders lo aspetta con quattro linebacker e quattro defensive back. I bersagli non ci sono più. Arriva un intercetto. Il solito Biletnikoff riceve lungo e Banaszak manda i titoli di coda. C’è tempo per un pick six da 75 yard e per la meta di Stu Voigt quando a lanciargli non c’è più Tarkenton ma Bob Lee.

Non c’è più nemmeno tempo per questi fantastici Vikings. La loro lunghissima finestra si chiude. Trafitti dal gioco di corsa. Da troppi errori. Dalla mancata capacità di adattarsi, di trovare soluzioni in corsa a situazioni inaspettate. Privi del salvagente Metropolitan Stadium. Sopraffatti da avversari grandiosi, quanto loro. In tre dei quattro viaggi al Super Bowl si sono scontrate dinastie che hanno fatto la storia del football di quei decenni, e non solo: i Vikings, i Dolphins, gli Steelers e i Raiders.

Bruciano le sconfitte, come non potrebbero. Ma se credete che Page ci rimugini siete fuori strada. Non è nel suo carattere. “Il lunedì dopo mi rimetto a studiare. Il martedì sono in classe come tutti gli altri studenti dell’università”, assicurava ai tempi. “Per me la cosa importante era la partita che avevi di fronte in quel momento, dovevi affrontarla al meglio che potevi, facendo tutto quello che serviva per vincere. Fosse il Super Bowl, la sfida con Michigan State nel 1966 o una partita di preseason. Mi ha fatto piacere perdere quelle partite? No, ma a me non piaceva perderne nessuna. Quindi sì, è stata dura ma non più dura di quanto non sia stato perdere le altre gare che ho giocato e che ho perso. Il fatto è che nessuno vince sempre e alcune persone non hanno nemmeno l’occasione di avere successo. Per me il viaggio è sempre stato più importante della destinazione finale. Quello che hai fatto durante il cammino per quanto mi riguarda è la cosa davvero importante alla fin fine. Il resto è solo una partita”.

Il football non è la sola ragione di vita per quell’omone di 193 centimetri. Non gli interessa quello che ruota intorno. Non firma nemmeno autografi, perché non ritiene che saper giocare a football sia sufficiente per essere considerato un modello nella società. Nel corso della sua lunga carriera da 238 partite consecutive giocate (ricordate l’importanza per lui della preparazione, vero?) Page fa parte anche dell’associazione giocatori. Un passaggio importante per il suo domani. Una prova del fuoco. E un problema in più per il commissioner e i proprietari, perché trattare con lui è tutto fuorché semplice.

L’ASSOCIAZIONE GIOCATORI

Nel 1974 partecipa alle trattative per il rinnovo del contratto collettivo. Fa parte della Players Associations, che il commissioner Pete Rozelle non vuole riconoscere. In estate è a fare i picchetti davanti allo stadio di Northwestern. Dentro ci sono gli All Stars del college. Come era stato lui quando sfidò i Packers. Si preparano ad affrontare i Miami Dolphins campioni. Page incita a scioperare. Ha un cartello che recita “Persone, non proprietà” e una t-shirt con scritto “Senza libertà, niente football”. L’obiettivo è spingere i proprietari ad accettare le richieste dei giocatori. Va a parlare anche con i ragazzi, in qualità di leader non ufficiale della protesta. Agli stessi ragazzi parla anche il suo GM Frinks. “Hanno votato, e sono arrivato secondo”, il ricordo del dirigente vichingo. Un mastino al tavolo, Page. “Non c’erano diritti in quegli anni per i giocatori. Non potevano decidere dove giocare. Gli ambienti di lavoro erano quelli che erano. Sebbene i nostri successi furono modesti abbiamo spianato la strada per migliori condizioni di lavoro al giorno d’oggi”.

DIANE E LA FACOLTÀ DI LEGGE

Negli anni vichinghi altre due passioni entrano nella routine di Page: la corsa e lo studio. I Vikings facilitano quanto più possibile la seconda. Concedono al loro defensive tackle di saltare il training camp per andare all’università. “Dopo nove anni di football la facoltà di Legge mi ha permesso di fare qualcosa con la mia testa, oltreché usarla per appoggiarci il casco. È stato un passaggio fondamentale della mia vita. È stata una sfida affascinante, mi ha forzato ad ampliare il mio modo di pensare, la mia visione del mondo”. Il primo approccio non è automaticamente un successo. Page rinuncia, quando è al William Mitchell College, ai corsi serali, non ha ancora un metodo di studio efficace. Tre mesi e lascia. Arrendersi? Mai. “Forse avevo visto troppi episodi di Perry Mason e credevo che fosse un buon modo per avere una bella vita senza spezzarsi la schiena.” Vuole quella laurea in legge e torna sui banchi. “Solo alla mia seconda esperienza a giurisprudenza sono stato catturato dalla passione per lo studio. Al liceo riuscivo a cavarmela in qualche modo. Talvolta con qualche trucco di cui non vado fiero. Anche a Notre Dame ce la feci nonostante fosse più complicato con tutti gli allenamenti”. Riesce a completare il corso di studi e laurearsi all’Università del Minnesota mentre gioca ancora nei Vikings. Tra i motivi che lo spingono alla nuova avventura anche la sensazione di sentirsi economicamente in trappola nella NFL.

Erano anni diversi, quelli. Tanti giocatori d’estate arrotondavano. Il GM Finks ricordava a tutti che il football era un tramite verso un fine, non un fine. Un buon consiglio, utile anche a tenere il salary cap dei Vikings snello. Lo stesso Page aveva iniziato un paio d’attività. Prima come venditore d’auto. Poi in proprio, con la Alan Page Enterprises come venditore di macchinette automatiche per gli snack. Esperienze che non erano adatte alle sue caratteristiche. Eppure è grazie a una macchinetta installata alla General Mills di Minneapolis che incontra la persona più importante della sua vita: Diane Sims. Una donna che mentre Alan cercava di non farsi notare alla Central Catholic di Canton, si faceva in quattro per mettersi in mostra alla Robbinsdale High School in un suburb a nord di Minneapolis. Prima ragazza presidente del consiglio studentesco. Grazie al suo capo ha modo di incontrare Page. Qualche pranzo informale. Chiacchiere per conoscersi. Chiacchiere di politica. Fino al primo appuntamento. Ufficiale. Un appuntamento in cui Mister Taciturno, come qualcuno chiamava Page in famiglia, non dice nulla di quello che gli è successo al pomeriggio. Soffre in silenzio per quella macchinetta caduta sull’alluce. Ballano un po’, finché deve vuotare il sacco per il dolore, controvoglia. Una serata di cui rideranno spesso negli anni a venire. Una serata non troppo divertente sul momento.

Ma tra Diane e Alan funziona. Sarà una pietra angolare per lui. Una donna bianca innamorata di un uomo nero. La signorina Sims viveva a downtown Minneapolis, nelle Towers. Il posto migliore in cui vivere al tempo. E se la comunità era meno mentalmente aperta quando vedeva arrivare quel gigante con l’afro vestito con abiti viola o verde lime su una Dodge da gara viola su cui spiccava la scritta “Freedom” a lettere cubitali oro… beh, cavoli suoi. E chi se ne frega, pure se il matrimonio avviene in una cappella di Las Vegas, durante una convention dell’Associazione giocatori nel giugno del 1973; dopo una lettera di proposta di matrimonio su un volo di ritorno dall’Europa di pochi mesi prima a cui Diane aveva risposto di non credere alla sincerità di Alan? È amore vero e sarà per sempre. Solide fondamenta della famiglia Page completata dai figli Justin, Georgi, Nina e Kamie.

E al secondo tentativo giurisprudenza andò a buon fine.

Le corse, dicevamo poi. Correre è una passione che dalla metà degli anni ‘70 a oggi non ha mai abbandonato Page. Dal maledire il giro di pista al macinare maratone. “L’unico bandwagon su cui sono salito”. Sì, perché ad avvicinarlo al running è proprio la moglie, che inizia dopo aver smesso di fumare. Solo che mentre è ai Vikings partecipare alle maratone lo rende più magro di una decina di chili. Secondo Alan non si tratta di un problema. Il suo gioco è ugualmente efficace. Ma coach Grant nel 1978 inizia a preoccuparsi. Fino al giorno del taglio. Dopo la sesta giornata.

IL TAGLIO, IL PASSAGGIO AI BEARS E IL RITIRO

Uno shock per Page. Un’ingiustizia. “Una telefonata alle 6.37, in cui mi disse (coach Grant, ndr), che mi aveva rilasciato quattro ore prima. Aggiungendo che probabilmente conoscevo le regole sui waiver meglio di lui”. “Abbiamo iniziato insieme 12 anni fa e odio che finisca in questo modo, ma…” le parole del tecnico. “Dopo 12 anni mi hanno licenziato con una telefonata. Un po’ mi ha ferito”. E anche la gestione dello spogliatoio non è stata particolarmente di classe in quella circostanza. Il suo armadietto fu svuotato e i compagni scalati. Di solito si lasciava vuoto… Eller e Bobby Bryant gli riportarono a casa gran parte dei suoi effetti personali. Il resto gli fu spedito.

Per Grant e i Vikings la sua carriera è ormai in fase discendente. “Dovevamo toglierlo dal campo sulle situazioni di corto yardaggio”. “E quello che diceva Grant era il verbo, il coach era come la mamma, la torta di mele e la bandiera nel Minnesota”, sibilò in un’intervista Diane Sims Page, la moglie di Alan nel 1981. Pure il cambio del defensive coordinator non è d’aiuto. Neill Armstrong è sostituito da Bob Holloway, che pensa in primo luogo a fermare le corse. “Questo è il vostro pezzo di terreno e dovete difenderlo”, afferma quando si insedia. Niente scorribande nel backfield. Si controlla il proprio bloccante. Si valuta dove scorre il gioco e si reagisce. “E in quel momento ho detto a Jim (Marshall, ndr) che dubitavo di poter mettere a segno qualche altra giocata”, racconta Page. “Per me era uno spreco di tempo e di energie. Mi sono adeguato. Non ho giocato particolarmente bene, ma statisticamente rimanevo il miglior uomo di linea dei Vikings”.

Lui sente di avere ancora qualcosa da dare, anche se ormai il peso forma è di un centinaio di chili. Sottolinea che Muhammad Ali nei suoi anni migliori era 100 chili. Perché quindi un uomo di linea dovrebbe aver bisogno di meno resistenza e velocità di un peso massimo? Tant’è che Ali negli anni successivi quando mise più chili perse efficacia. Un medico, F. Douglas Whiting, scrive al quotidiano The Minneapolis Star per segnalare gli studi del dottor Donald Cooper, responsabile atletico di Oklahoma State, in cui si spiega come perdere peso non va a peggiorare le prestazioni. Sono concetti moderni sul fisico degli atleti. Si inizia a parlare di parte magra del corpo e di massa grassa sul totale del peso. Secondo Whiting per Page giocare pesando 110 chili equivale a giocare a 100 chili con addosso 10 chili di ghisa.

Torniamo al giorno del taglio.

Al Davis chiama il vecchio GM dei Vikings Finks per chiedergli un parere. Vorrebbe prenderlo dai waiver. Finks lo scoraggia. Ah, lo stesso Finks adesso è al timone dei Bears. Sta guidando la ricostruzione di Chicago. Con lui ci sono anche il coach, proprio quell’Armstrong, e il defensive coordinator Buddy Ryan. Tutti ex Vikings. E Page lo pesca lui. Leggenda o realtà lo scherzetto a Davis? Poco conta. Page passa ai rivali divisionali, che versano ai Vikes 100 dollari. “Cento dollari di troppo”, secondo Page. Per Finks il peso non sarà un problema. Si fida ciecamente della capacità di Page di valutarsi. “Alan si conosce meglio di quanto non lo conosca io, se dice che può essere efficace anche pesando meno, vuol dire che così è”.

Nell’estate di quell’anno c’erano stati attriti tra Grant e Page. L’88 fu multato di 50 dollari per un ritardo a un meeting. Lui fece reclamo alla Players Association. Successivamente fece un altro reclamo per la mancata concessione di un riposo dovuto ai giocatori. “È una strada a doppio senso – commentò Page – se la squadra multa i giocatori deve essere irreprensibile dal suo lato”. Durante una partita contro Chicago poi, Page fa su e giù dal campo sostituito da Duck White a metà secondo quarto e nel terzo. Nei minuti finali mentre è in panchina si infortuna Sutherland, slogate entrambe le caviglie. Gli allenatori chiamano Alan, lui non si è accorto del compagno a terra e chiede spiegazioni mentre va verso il terreno di gioco. Grant allora lo ferma. E manda dentro un altro al suo posto. “Cosa fare in un caso così se non si può multare l’atleta?” Gli chiede un giornalista successivamente. “Se un giocatore non è responsabile e non ci si può fare affidamento l’allenatore lo deve allontanare…”

È il 1978, dicevamo. Page ha 33 anni. E gioca tutte le 10 partite successive con Chicago: accumula 11,5 sack e 50 tackle. Il migliore tra i defensive lineman. La difesa dei Bears passa da 22esima a 12esima, quella dei Vikings scivola 14esima. Quando si trovano uno contro l’altro Page colleziona cinque solo tackle e forza un fumble. Una buona prestazione, anche se vince 17-14 la sua ex squadra. E nello spogliatoio vichingo la palla della partita viene data alla guardia Chuck Goodrum, deputata a bloccare proprio Page. Pure lui sa che non è meritato. Un ultimo affronto. “Se ero così scarso mi avrebbero dovuto lasciar perdere, perché hanno dato la palla al mio diretto avversario allora?”

Page continua a correre. E continua a giocare: 16 partite nel 1979, 16 nel 1980, 16 nel 1981. Tutte da titolare. Ricordate quel numero, no? 238 partite consecutive. Nelle tre stagioni e mezzo di casa nella Windy city fa in tempo a centrare i playoff nel 1979. Lascia Chicago e il football alla fine dell’81. In quegli anni lavora ancora con l’allenatore che considera il preferito. Buddy Ryan. Mai banale nemmeno in questo Page. “Un allenatore che ti metteva nella condizione di dare il meglio, che aveva grandi aspettative e mentre si provava a realizzarle non perdeva tempo in cose inutili, non sprecava energie in azioni che non servivano per raggiungere l’obiettivo”. Ryan è personaggio opposto a lui. “Molto esuberante”, lo definisce tanti anni dopo. Nel non perdere tempo però c’è l’essenza del gioco di Page, come abbiamo visto: diretti verso la rottura dell’attacco avversario. Con Ryan, Page è anche chioccia della difesa che porterà i Bears a vincere il Super Bowl nel 1985. E a Chicago scopre un football diverso, meno irregimentato rispetto a quello di Bud Grant. “Si può giocare a football anche senza sentire freddo”, sogghigna in quel periodo pensando al fatto che al Soldier Field erano ammessi i grossi condizionatori per scaldarsi in panchina.

Ma a metà anni Ottanta Page ha già intrapreso un’altra carriera. Comincia come avvocato a fine anni Settanta. Passa l’esame di abilitazione proprio nel febbraio del ‘78, l’anno del passaggio a Chicago, al secondo tentativo. Assunto dall’importante studio Lindquist and Vennum di Minneapolis, ha il suo nome all’ingresso in fondo a una lunga lista. “Noi non assumiamo atleti, è un giovane avvocato. Una grande persona” specificano dallo studio. E lui in aula non vuole essere il giocatore di football. Con il suo inconfondibile papillon sfodera le sue qualità in ogni processo. Già al secondo appuntamento di fronte a un giudice è alle prese con una causa ben più importante di quanto il caso specifico non faccia pensare. La Pillsbury Company contro la Southern Railway System. Non si tratta tanto se il danno a dei materiali della Pillsbury subito durante un trasporto da qualche parte tra l’Illinois e il Tennessee sia da ascrivere alla Southern Railway, quanto di capire se lo stato del Minnesota abbia voce in capitolo sul caso, visto che la Railway non ha ferrovie controllate direttamente nel Minnesota. Si stabilirà un precedente importante, insomma. E Page nel prendere le parti della Pillsbury non sfigura per nulla, sebbene gli avversari mandino in campo due avvocati ben più esperti.

Eppure non è questo che gli piace fino in fondo. Anche se può “parlare, presentarsi e persuadere”. Nonostante quel che gli interessa di più sia il diritto del lavoro, tanto che tra i primi clienti figurano un sindacato di infermieri e uno di operai. Gli ricorda però quando vendeva macchine. Sì, ci sono le leggi, ma sempre da piegare a favore di quel cliente o quell’altro. E per lui la Legge, con la L maiuscola, non può essere questo. Così opta per la carriera da magistrato. Ed è assistente procuratore nel 1988 quando torna a Canton. Una città in cui non rimette piede da 18 anni.

IL RAZZISMO A CANTON

Fu un episodio del 1970 ad allontanarlo. Proprio quando era all’apice della carriera gli fu ricordato come nessun premio poteva rimuovere il razzismo strisciante. Howard, papà di Alan, con i figli Roy e Twila sono in un bar per fare colazione in una fredda mattina dell’Ohio. L’ordinazione di Twila viene sbagliata e lei chiede sia corretta. Ma viene sbagliata di nuovo. La cameriera a quel punto scoppia a piangere e ha già chiamato la polizia perché nel locale qualcuno sta provocando disordini. Quando arrivano gli agenti afferma che i Page non volevano pagare il conto e a quel punto Twila sbotta e intervengono anche papà e fratello. Vengono portati in prigione. “C’erano una trentina di auto della polizia fuori dal locale ad aspettarci” ricorda il fratello. Solo dopo alcune ore Howard senior riesce a parlare con il sindaco, che manda un suo rappresentante e li fa scarcerare. “Nel momento in cui la discriminazione fa vedere la sua brutta faccia, bisogna opporsi in qualche modo. E io lo feci”. Quando Alan sa dell’episodio la rabbia è così grande che cancella Canton dalla mappa. Nel 1971, la Contea di Stark, dove si trova Canton, vuole premiarlo come atleta dell’anno e lo invita alla cerimonia. Lui risponde con una lettera. Sincera, chiarissima. Ringrazia. Declina. Per quell’ignobile episodio. Spiega di non ritenere nessuno del comitato che vuole premiarlo colpevole. Sottolinea come non può tornare in città e far finta che non sia successo niente alla sua famiglia.

Canton è cancellata. Fino al 1988, appunto.

hofE in quell’occasione, quel signore con l’inseparabile papillon, che frequenta pochissimo gli ex compagni di squadra e non si presenta mai alle rimpatriate del college, nell’estate della sua introduzione nella Hall of Fame, che ha contribuito a costruire, prende tutti in contropiede, come quando scattava dalla linea di scrimmage a caccia dei quarterback avversari. Sul palco a presentarlo non sale un famigliare. Nemmeno un ex compagno. O un allenatore. No. Sale Willarene Beasley, tra lo stupore generale. La signora è la dirigente della North Community High School. Alan l’ha conosciuta in una delle moltissime volte che ha fatto visita alle scuole. E così prima del giocatore arriva l’uomo Page, dalle sue parole “Alan è una persona che desidera controllare il proprio destino. È tenace, è un gran lavoratore, si è guadagnato la rispettabilità. È un uomo volitivo e prende posizione per ciò in cui crede. È intelligente, è analitico, è altruista, è sempre disposto ad aiutare gli altri. È noto per la sua indipendenza. Spesso è caratterizzato come diverso; lo è sempre stato e probabilmente lo sarà sempre. Ma la cosa più importante è che Alan è un modello per i nostri giovani”.

Segnatevi queste parole. Essere un modello per i giovani.

IL GIUDICE PAGE

Se pensate che la carriera di Page sia finita siete fuori strada. Il giocatore di football capace di spostare i suoi obiettivi sempre un po’ più in alto non ha perso la voglia di migliorarsi.

Vuole lasciare un segno. E per farlo decide di correre – senza scarpe da ginnastica stavolta – per un posto da giudice alla Corte Suprema del Minnesota. Con la toga potrà far sì che le decisioni prese, sempre seguendo solo la legge e nient’altro, abbiano ricadute importanti sulle persone. Ed è un ruolo che calza alla perfezione con il carattere riflessivo, ponderato, equilibrato di Page. Diventa il primo giudice afroamericano della Corte. È tra i pochi che arrivano al ruolo direttamente con l’elezione, senza la nomina del governatore. Sarà rieletto nel 1998 con il maggior numero di voti mai raccolto nella storia del Minnesota. E ancora nel 2004. E nel 2010.

La scrittura delle sue sentenze è sempre puntuale ed essenziale. Come una corsa diretta verso il quarterback. Precise e inattaccabili. Frutto di una preparazione che ha continuato ad alimentare instancabilmente. Dal 1993 Alan Page è rimasto in carica fino all’ultimo, al 2015, fino ai 70 anni che sono il limite di legge dopo il quale bisogna abbandonare il posto di giudici della Corte Suprema del Minnesota.

page giudice

LA FONDAZIONE

Da allora si dedica a tempo pieno alla sua fondazione, sì, perché essere un modello a Page non bastava. L’importanza dell’istruzione nella vita delle minoranze doveva essere supportata in modo ancora più concreto. Giusto in quell’indimenticabile 1988 insieme alla moglie Diane Sims Page fondò la Page Education Foundation. Non una semplice fondazione per donare borse di studio. Molto di più. La Page Education Foundation fornisce un sostegno più profondo ai propri ragazzi. Li segue passo passo nel loro percorso scolastico. E i tutor sono gli stessi professionisti che sono stati aiutati in precedenza. Diane ha investito moltissimo nella fondazione, fino alla sua morte, per un tumore al seno, nell’ottobre del 2018. Per Alan aver sposato Diane è il traguardo più importante dell’intera vita, “quello che mi ha permesso di avere figli, nipoti e un’esistenza che non si poteva chiedere migliore”. E Alan è sempre stato in prima linea nella raccolta fondi per il progetto che con lei condivideva. Negli anni la Fondazione ha raccolto oltre 15 milioni di dollari per le sue borse di studio, donate a 7.500 ragazzi. E sono stati 50mila gli studenti del Minnesota seguiti dalla Fondazione. Numeri che fanno impallidire il totale dei sack.

Non ha smesso nemmeno di scrivere, poi il giudice Page, perché con la figlia Kamie, maestra elementare, ha pubblicato tre libri illustrati per bambini. Il protagonista è Pinky, quel mignolo della mano sinistra completamente storto, che tanto colpisce i bambini quando Alan va a trovarli nelle scuole. Un dito a novanta gradi per tutti gli infortuni subiti. Il primo durante una partita nei primi anni con i Vikings. “Marshall vide che mi tenevo il dito, era lussato, venne da me e lo rimise a posto così andammo avanti”. Le lussazioni successive hanno totalmente spappolato i legamenti interni lasciando quelli esterni impedire al dito di stare dritto piegandolo nella loro direzione. “Se fossi stato più furbo l’avrei legato al dito a fianco, permettendo ai legamenti di non sfilacciarsi del tutto, ma sono sempre stato uno lento nell’apprendere”. Lento? Forse. Inesorabile, sicuro. E poi quegli infortuni hanno dato vita a Pinky.

Il primo libro con Pinky fu scritto proprio per celebrare i 25 anni della fondazione. “Un modo per ricordare l’importanza della lettura. È un libro sulla curiosità, che ribadisce l’importanza di ascoltare i figli, sottolineando il loro entusiasmo, la loro allegria”.

In quegli anni Page inizia ad apprezzare moltissimo anche la vita all’aperto. “Non è una cosa che avrei detto di me anni fa. Mi piace, invece, starmene qui nel bosco a pensare. E sono felice di avere questa baita” sorride mentre prepara sciroppo d’acero. “Non sapete quanto sia soddisfacente aspettare di ricavare lo sciroppo”.

Proprio pochi mesi dopo la morte di Diane, nel 2018, Page riceve la Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti d’America. A consegnargliela è quel Donald Trump che non ama. “La sua amministrazione si basa sulle peggiori paure delle persone” ha detto Page solo un anno prima, “gioca con l’insicurezza razziale”. Ma per quanto sia enormemente distante dal presidente “La mia visione del mondo è la stessa di un anno fa, e dell’anno prima – quando l’aveva pesantemente criticato – Questa onorificenza però è molto più importante di come la penso io, di quello che mi piace o non mi piace”. Ed è una piattaforma incredibile per continuare a promuovere i suoi obiettivi, come la cerimonia della Hall of Fame, e a perseguire il principale: migliorare più persone possibili. “Rendere il mondo un posto migliore”, come ripete con la medaglia appena indossata.

Page ha vinto sempre. Nonostante quei quattro Super Bowl persi. “Per me non è mai stata una questione di vincere o perdere, ma di performance. Anche se devo ammettere che sono pessimo nell’accettare la sconfitta, forse sono stato uno dei peggiori di sempre nel farlo”.

Scelto tra i migliori cento giocatori della Nfl nel centenario della Lega, 43esimo nella speciale classifica dell’anniversario per i 100 anni della Lega. Hall of Famer Nfl e Ncaa (introdotto nel 1993). Non c’è un campo della vita dove non abbia eccelso. Non significa che si debba sempre arrivare primi. “Se lasci che siano vincere o perdere a definire chi sei, la tua sarà una strada complicata”. Parole di coach Bud Grant. Quel che fa la differenza è migliorarsi, sempre. E cercare di migliorare più persone possibili intorno a sé. È questo l’obiettivo che non è mai cambiato per Page. Da quella tuba suonata nella banda della scuola alle sentenze della Corte del Minnesota. Da Notre Dame ai Minnesota Vikings. Da quel giovane operaio della Hall of Fame a quel campione con la giacca dorata e il busto in bronzo.

top 100
The Top 100: NFL’s Greatest Players – Clicca sull’immagine per vedere il video
Merchandising Merchandising

Articoli collegati

Pulsante per tornare all'inizio
Chiudi

Adblock rilevato

Huddle Magazine si sostiene con gli annunci pubblicitari visualizzati sul sito. Disabilita Ad Block (o suo equivalente) per aiutarci :-)

Ovviamente non sei obbligato a farlo, chiudi pure questo messaggio e continua la lettura.