Sulla questione razziale la NFL ha iniziato ad ascoltare

«Se [Kaepernick] vuole riprendere la sua carriera in NFL, ovviamente starà ad una squadra prendere la decisione di firmarlo […] ma io personalmente approvo che succeda, supporto il fatto che un club possa prendere quella decisione e li incoraggio a farlo»

Roger Goodell ha gli occhi bassi e la voce rotta dalla tensione mentre scandisce parole che mai si sarebbe sognato di pronunciare. In un altro segmento dell’intervista ad ESPN nella quale ha incoraggiato le squadre della sua lega a reintegrare Colin Kaepernick, il Commissioner della NFL si spinge a parlare del motivo dell’esilio di Kaepernick. Senza mai guardare in camera parla di systemic oppression o Black Lives Matter, parole che gli escono a fatica, come se gli si fossero incastrate in bocca.
Ad un certo punto Goodell arriva ad ammettere che «Avremmo dovuto ascoltare prima» le istanze del movimento black lives matter, dimentico del fatto che negli ultimi tre anni la sua lega  con una mano si è tappata le orecchie e con l’altra ha cercato di chiudere la bocca a Kapernick e ai membri della Players Coalition che si sono inginocchiati durante l’inno americano.

Al di là dell’evidente ipocrisia, l’intervista di Goodell segna una svolta epocale nella posizione della NFL sui diritti civili: riabilitando il Kaepernick-giocatore la NFL ha riabilitato il messaggio del Kaepernick-attivista.
A proposito d’ipocrisia, come se il 2020 non avesse fatto abbastanza per confermarsi l’anno più assurdo a memoria d’uomo, mercoledì pomeriggio Donald Trump ha detto che sì, in fondo Colin Kapernick, l’uomo che lo stesso Trump aveva definito un figlio di puttana per aver disonorato la bandiera, un’altra chance di giocare in NFL se la merita.
Queste dichiarazioni sono l’ultimo anello di una catena di eventi iniziata il 25 maggio a Minneapolis, che ha già cambiato in modo decisivo il rapporto tra football, politica e diritti civili.

«You aren’t listening»

Inginocchiandosi durante l’inno americano all’inizio della stagione 2017, Kaepernick ha portato al centro del dibattito nazionale il tema della police brutality. Ma proprio per la sua forte carica simbolica, quel gesto di dissenso ha finito per oscurare la causa per la quale Kaep aveva deciso di sacrificare la sua carriera: quello che doveva essere un dibattito sui soprusi delle forze dell’ordine si è trasformato rapidamente in un dibattito pro o anti Kaepernick, pro o anti Inno, pro o anti Trump, smarrendo il significato autentico della protesta.
Già nel 2018 Malcolm Jenkins, che pure con il camp di Kaepernick ha avuto modo di scontrarsi parecchie volte, aveva distillato la radice del problema esponendo alle telecamere un cartello con la scritta «you aren’t listening».

Quel messaggio – non state ascoltando – era rivolto a Donald Trump come sineddoche di tutte quelle parti del paese – media, NFL, fanbase – che continuavano a spostare artificiosamente la discussione sul come della protesta (l’inginocchiamento), mentre sul perché era stato accuratamente steso un velo a stelle e strisce abbastanza vasto da coprire le tombe di Tamir Rice, Eric Garner, Trayvon Martin e delle altre centinaia di cittadini afroamericani vittime della police brutality.
Un velo dietro il quale si era nascosta la stessa National Football League e che solo gli eventi traumatici delle ultime settimane sono riusciti a squarciare, forzando dei cambiamenti la cui portata probabilmente ci sfugge ancora, ma il cui effetto sul football è già tangibile.

Pubblicità

Ovviamente, lo spartiacque della vicenda è stata la morte di George Floyd. Secondo il coach dei Minnesota Vikings Andre Patterson, gli 8.46 minuti in cui tutto il mondo ha visto la vita abbandonare il corpo di Floyd hanno messo a nudo il problema con una chiarezza e una potenza tali da eliminare qualsiasi zona grigia – era un criminale? Ha opposto resistenza? – e, parallelamente, hanno distillato in nove minuti il motivo della protesta di Kaep: in molti, a partire da Lebron James, hanno commentato quelle immagini dicendo: «questo è il motivo per cui Kaeprnick protestava».

https://www.instagram.com/p/CAq3fpCgyve/?utm_source=ig_web_copy_link

Nel mondo del football, l’ondata di proteste che è seguita e la risposta brutale delle forze dell’ordine alle manifestazioni hanno portato a due conseguenze principali. Prima di tutto, ha non spinto coloro che già sapevano di quei problemi ad abbandonare qualsiasi riserva e a partecipare, prima virtualmente e poi fisicamente, al movimento di protesta. I giocatori di football afroamericani, che compongono i tre quarti dei roster NFL, hanno denunciato con un vigore mai visto l’oppressione che affligge da sempre le loro comunità.

In secondo luogo, per il restante quarto della forza lavoro della NFL, composta da atleti, coach e dirigenti bianchi, il silenzio ha smesso di essere un’opzione percorribile.
In questa epifania collettiva, diversi membri della NFL hanno ammesso che avrebbero dovuto ascoltare e non fraintendere le parole del movimento black lives matter, scusandosi per essere stati insensibili al dolore delle comunità afroamericane.
Non tutti, però, hanno mostrato la stessa sensibilità. In particolare, l’head coach dei Broncos Vic Fangio e il quarterback dei Saints Drew Brees sono stati al centro di polemiche feroci per le loro uscite pubbliche.
A pochi giorni dalla morte di George Floyd, Vic Fangio ha dichiarato di non vedere assolutamente del razzismo nel processo di selezione degli allenatori NFL, nonostante dei 31 colleghi dell’head coach dei Broncos, solo tre siano afroamericani. 
Rispondendo ad una domanda su Kaepernick, la protesta, e il suo ruolo in quanto leader della lega, Drew Brees ha dato le risposta che molti uomini come lui, bianchi, conservatori, ultrapatriottici, hanno dato in passato, rispondendo al giornalista di Yahoo con «Non sarò mai d’accordo con qualcuno che manca di rispetto alla nostra bandiera».»

Pubblicità

La reazione ad entrambe le uscite è stata violenta. Fangio e Brees si sono visti rivolgere critiche feroci non solo dall’esterno, (nelle strade di New Orleans si cantava «fuck Drew Brees») ma anche dall’interno dei rispettivi spogliatoi. I compagni di Brees sono insorti in massa, capeggiati da Malcolm Jenkins, il quale ha aperto il video di commento rivolgendo a Brees una frase emblematica «Se non capisci quanto sono offensive e insensibili le tue parole, sei parte del problema».
Presi in mezzo da questo fuoco incrociato di polemiche, entrambi sono stati costretti a scusarsi in fretta e furia. Fangio se l’è cavata con un backpedaling degno dei suoi migliori cornerback, ritrattando i suoi commenti originari con un comunicato che recitava «Come Head Coach non vedo l’ora di ascoltare i miei giocatori – sia individualmente sia collettivamente – per supportarli e lavorare insieme creando un cambiamento». Vic Fangio quindi ha ammesso di dover ascoltare, e dopo averlo fatto ha marciato per le strade di Denver insieme ai suoi giocatori. 

Per Brees, che è un personaggio infinitamente più carismatico e in vista di Fangio, è stato più difficile tirarsi fuori d’impaccio. Lo ha fatto scusandosi a ripetizione, con uno zelo da molti ritenuto stucchevole, anche lui ammettendo di non aver ascoltato: «Riconosco che dovrei parlare meno e ascoltare di più… e quando la comunità nera parla del proprio dolore, dovremmo tutti ascoltare.»
Proprio quando il quarterback dei Saints sembrava aver contenuto i danni principali, dalla Casa Bianca è arrivato un tweet con cui Donald Trump diceva a Brees che la sua prima posizione andava benissimo, e che non c’era alcun motivo di ritrattarla. 

Grazie alla risposta di Brees, abbiamo assistito alla scena abbastanza grottesca di un giocatore di football costretto a spiegare al suo presidente il senso di una protesta che lui stesso ignorava 48 ore prima, facendo notare al Commander in Chief che «non possiamo più usare la bandiera per allontanare o distrarre le persone dai problemi reali affrontati dalle nostre comunità nere».

Non c’è dubbio che dietro questo improvviso risveglio delle coscienze ci sia una grossa dose d’ipocrisia, ma il punto è che l’omicidio di George Floyd ha alzato vertiginosamente l’asticella della sensibilità richiesta ai membri della NFL nell’esprimersi su questioni razziali.
Più che la posizione personale di Fangio o il reale pentimento di Brees, quello che conta è che, d’ora in poi, nemmeno un quarterback da Hall of Fame potrà permettersi di trattare con sufficienza le proteste contro i problemi che condizionano la vita di quelli che nello spogliatoio chiama “fratelli”.

Soprattutto perché quei “fratelli” hanno alzato la voce, tutti insieme, mostrando una coesione ed una decisione senza precedenti. A pochi giorni dall’intervista di Brees, diverse superstar della lega, compresi Deshaun Watson, Michael Thomas, DeAndre Hopkins, Odell Beckham Jr., Saquon Barkley, Ezekiel Elliott e l’attuale MVP del Super Bowl Patrick Mahomes hanno unito le proprie voci in un video che si concludeva con un appello diretto alla NFL:

«Questo è quello che vorremo sentirvi dire: Noi, la NFL, condanniamo il razzismo e l’oppressione sistemica delle persone di colore, Noi, la NFL, ammettiamo di aver sbagliato a zittire i nostri giocatori che volevano protestare pacificamente, Noi, la NFL crediamo che “Black Lives Matter”».

Messa alle strette, alla fine la NFL ha dovuto rispondere. La scorsa settimana il commissioner Roger Goodell ha pubblicato un video registrato dalla sua taverna, la stessa dalla quale aveva annunciato il primo draft virtuale lo scorso aprile, nel quale lo si vede ripetere praticamente parola per parola l’appello dei suoi giocatori di punta.

Pubblicità

In tanti, pur apprezzando il gesto come un punto di partenza, hanno chiesto al Commissioner di mettersi “i soldi davanti alla bocca” citando direttamente Colin Kaepernick, cosa che, come sappiamo, Goodell ha fatto pochi giorni fa. Ora starà ad una franchigia contattare l’ex QB dei 49ers (in queste ore si parla dei Chargers) e a Kaepernick decidere se rimettersi in gioco, ma se la NFL vuole dare almeno la parvenza di aver cambiato rotta, la vicenda non può chiudersi qui, con una proposta di reintegro e tutti amici come prima.
Primo, perché come ha notato Stephen Ruiz su Usa Today  in un certo senso, il danno è fatto: la NFL ha già privato Kaepernick di anni decisivi per la sua carriera, e che le scuse della NFL non gli daranno indietro. Secondo, perché questa protesta non è mai stata sul Kaepernick giocatore, o sull’inno americano, ma sul messaggio di denuncia per cui Kaepernick si è giocato la carriera e che la NFL ha dichiarato di aver recepito.
Difficile per ora dire se dall’ascolto si passerà all’azione, se la lega permetterà a tutti d’inginocchiarsi, se cambierà le sue regole sull’assunzione di personale di colore, se questo impegno avrà risvolti politici o se invece tutto si risolverà in un’enorme PR stunt.

Per capire se la NFL può spingersi oltre sulla questione Social Justice, bisogna prima partire dal “perché” di questo triplo carpiato di Roger Goodell sulla questione Kaepernick.
La NFL non si muove mai per questioni ideologiche, ma per massimizzare le sue opportunità economiche, dal problema delle concussion a quello delle accuse di violenze sessuali, fino ovviamente al caso Kaepernick.
Come scrivevo lo scorso novembre: «Certo, i 32 owner condividono visioni politiche conservatrici e avverse alla battaglia di Kaepernick, ma condividono sopra ogni cosa l’aspirazione a massimizzare i profitti delle loro squadre e il terrore che associarne il nome a quello di Kaepernick comporti un crollo delle entrate miliardarie generate dalla lega.»

Ora come allora, il terrore di perdere soldi è rimasta l’unica bussola morale della NFL. Nulla è cambiato, se non che la lega si è semplicemente resa conto che il vento stava iniziando a tirare dalla parte opposta. Visto che, stando al sondaggio di Harris, il 61% degli americani ritiene che Goodell debba delle scuse a Kaepernick, la NFL si è comportata come il più bandwagoner dei suoi fan: si è scusata con Kaep, ha indossato una maglia nera con scritto “I Can’t Breathe” ed è salita sul carro della giustizia civile.

In un interessantissimo pezzo uscito su The Ringer, Bryan Philips ha sottolineato questa a-moralità della NFL, ricordando che la linea di PR è interamente costruita attorno all’obbiettivo di assecondare le visioni politiche della sua audience, non di plasmarle.

«Se le dimostrazioni che hanno inondato le strade americane fossero state pro anziché anti polizia – dice Philips – non ho alcun dubbio che la NFL scoprirebbe che i ragazzi in blu della polizia americano sono gli eroi che ci difendono dal caos.»

Il pezzo di Philips si intitola “La NFL non guiderà mai [sui diritti civili], ma può essere indotta a seguire”. Esattamente quello che è successo ultimamente, visto che l’inversione di rotta su un argomento che sembrava tabù è il frutto della pressione di fan e atleti, le due categorie che la NFL non può permettersi d’inimicarsi perché sono le uniche due in grado di attentare al fatturato attraverso boicottaggi o holdout.

Sul tema della social justice la NFL arriverà solo fin dove la trascineranno pubblico e giocatori, e questo significa da un lato che questa pressione è efficace, dall’altro che è necessario che continui a venire applicata, perchè se al contrario dovesse affievolirsi Goodell non si farà scrupoli a girare un nuovo video in cui si scusa con patrioti ed esercito per essersi scusato con Colin Kaepernick, tornando su posizioni anti-protesta.
Scandalizzarsi per il cinismo della NFL è ingenuo come sperare che la nuova linea della lega sia mossa da spirito cristiano. Per la Players Coalition e per chiunque spinga verso una riforma strutturale del sistema americano, però, prendere atto di questo trasformismo e sfruttarlo a proprio vantaggio può essere la strada da seguire per promuovere ulteriori cambiamenti attraverso lo sport.
Philips forse è troppo ottimista nell’ipotizzare un futuro nel quale la NFL si possa schierare direttamente contro un presidente repubblicano, ma il fatto che Trump abbia tolto il veto al reintegro di Kaepernick a poche ore dal video di Goodell dimostra che la NFL è un alleato potentissimo, per quanto inaffidabile, nell’ammorbidire le posizioni più avverse al movimento per la giustizia sociale.

Per far sì che la rabbia di queste settimane si trasformi in iniziative concrete e riforme legislative, è importante che giocatori e pubblico continuino a farsi sentire – e che la NFL continui ad essere costretta ad ascoltarli.

Merchandising Merchandising

Alberto Cantù

Se vi è piaciuto questo articolo e in generale vi interessa l'analisi tattica della NFL, potete trovarmi su Twitter.

Articoli collegati

Un Commento

  1. Sono in totale disaccordo col tono dell’articolo che sembra scritto dall’ufficio stampa di BLM, anche se magari per alcuni è un complimento.

    Non mi risulta che proprio tutti i 32 proprietari ( o meglio 31, visto il tipo di struttura societaria dei Packers ) abbiano idee “conservatrici”.

    La NFL, così come qualsiasi altra lega professionistica o associazione sportiva in genere, non dovrebbe PLASMARE le visioni politiche della propria audience o di chiunque altro.

Pulsante per tornare all'inizio
Chiudi

Adblock rilevato

Huddle Magazine si sostiene con gli annunci pubblicitari visualizzati sul sito. Disabilita Ad Block (o suo equivalente) per aiutarci :-)

Ovviamente non sei obbligato a farlo, chiudi pure questo messaggio e continua la lettura.