Atwater vs Okoye, il tackle che ha risvegliato la NFL dall’incubo nigeriano

È il 17 settembre del 1990, il Mile High di Denver è un catino arancione stracolmo di 76mila tifosi che nitriscono impazziti, come sempre quando in Colorado arrivano quelli vestiti di rosso. È Chiefs@Broncos on Monday Night Football, baby.

Dopo aver bloccato un punt ad inizio ultimo quarto, i Chiefs sono a 18 yard dalla endzone dei Broncos e si schierano in single back formation, con il quarterback Steve DeBerg accovacciato dietro al centro. Una manciata di yard dietro di lui torreggia la sagoma immensa di Christian Okoye, il Nigerian Nightmare, nigeriano da Enugu e inquilino fisso degli incubi dei difensive coordinator di mezza NFL, pronto a scatenarsi sulla difesa dei Broncos. All’estremo opposto del campo, in fondo allo schieramento difensivo di Denver, c’è la safety Steve Atwater, detto «the smiling assassin» per il ghigno che gli si stampa sul volto ogni volta che sdraia un avversario.

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Nel Super Bowl contro i Packers Atwater riuscirà nell’impresa di stendere tre giocatori in un colpo solo, compreso lui stesso.

Tutto è pronto, the stage is set, anche se nessuno sa ancora per cosa. Nemmeno i due protagonisti, ancora ignari che di lì a pochi secondi prenderanno parte ad uno dei 100 momenti più iconici della storia NFL.

Solo quando DeBerg mette la palla nello stomaco del suo gigantesco running back, gli dei del football decidono di allestire un set degno della scena epica che sta per avvenire: la trincea tra attacco e difesa si squarcia in due come se fosse un sipario, e finalmente il Nigerian Nightmare e lo Smiling Assassin si trovano faccia a faccia, separati da una ventina di yard, pronti a scaraventarsi l’uno contro l’altro come due cavalieri in una giostra medievale.

Okoye è il primo ad accelerare i passi. Prima di scendere in campo quel lunedì sera, il Nigerian Nightmare aveva fatto il suo solito rituale pre-partita. Come sempre, aveva passeggiato per il campo, lentamente,  a passi pesanti e con le braccia ciondolanti, premurandosi di passare due o tre volte davanti alla sideline avversaria. Niente di speciale, niente trash talk, niente grida, niente coreografia à la Ray Lewis. Al Nigerian Nightmare bastava farsi vedere per gelare il sangue nelle vene degli avversari.

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Questa ripresa di NFL FILMS sembra la presentazione del cattivo in un B-Movie sul football

C’è un proverbio nigeriano che dice “La forza del leone è nella paura che abbiamo di lui”. La vera forza di Okoye, quella che gli ha permesso di vincere il titolo di rushing champion l’anno precedente, sta nella paura che quei 120 chili lanciati a 4.54 secondi (per contesto, sono 10 chili in più di Derrick Henry a un decimo di secondo meno del King) riescono a infliggere in chi se lo trova davanti. Tutto, dalla stazza al soprannome fino ai giganteschi paraspalle, concorre al terrore che lo precede in campo. I difensori della NFL vivono nell’incubo di vederselo arrivare addosso, hanno paura e per questo perdono ancora prima di provare il placcaggio. A vent’anni di distanza tanti di loro ammetteranno che dal terzo quarto in poi non ne potevano davvero più, ed iniziavano a fingere di placcarlo.

“La forza del leone è nella paura che abbiamo di lui”

Mentre si avvicina alla linea di scrimmage, Steve Atwater si rende conto di essere l’unico Bronco sul cammino di Okoye. Ad ogni istante vede quella sagoma bianca farsi più grande e più vicina, come una valanga che viene giù dalle montagne di Aspen, e realizza che deve fermarla da solo. Atwater ha due possibilità. Potrebbe fare quello che farebbe una persona con un briciolo di amor proprio, lasciarsi scappare leggermente Okoye alle spalle e poi fargli perdere l’equilibrio, evitando una collisione frontale. Ne avrebbe anche tutte le ragioni, visto che l’incubo nigeriano ha fatto bagnare il sospensorio a difensori più grossi, più forti e più affermati di lui. Ma Steve Atwater il soprannome di «The smiling assassin» se l’è guadagnato per un motivo, quello, parole di Mark Schlareth, di aver giocato «con un totale disinteresse per la sua stessa salute». Perciò sceglie l’altra soluzione,  quella più folle, quella che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di tentare.

“La forza del leone è nella paura che abbiamo di lui”

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La valanga è sempre più vicina, Atwater gli si fa incontro. Forse sta pensando a quello che gli ha detto il suo mentore e compagno di reparto Dennis Smith, poco prima dell’inizio della partita: «non dobbiamo fare come quelli che lo lasciano passare e lo inseguono da dietro, uno di noi  deve colpirlo straight up», dritto per dritto, senza paura. Ma si può non aver paura di un incubo? Quando Okoye varca la linea di scrimmage e punta i suoi 120 chili verso Atwater, i decibel sembrano azzerarsi per un’istante, sostituiti dal suono muto di ottantamila persone che trattengono il respiro.

“La forza del leone è nella paura che abbiamo di lui”

Forse Atwater non pensa a niente, forse si lascia guidare dal suo istinto di killer sorridente. Anche perché di tempo per pensare non ce n’è più: l’incubo nigeriano si è avvicinato con una velocità che un uomo di quelle dimensioni non dovrebbe avere e ha già abbassato il suo mastodontico paraspalle, pronto alla collisione. Atwater carica l’ultimo passo, resta alto, e abbassa il suo.

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Un rumore secco, come quello di due bocce, ma molto più forte. Talmente forte da sentirsi chiarissimo anche negli audio sgranati della copia televisiva, talmente forte da far sussultare John Elway e il resto della panchina dei Broncos, talmente violento da ribaltare per un istante le leggi della fisica, perché il suono della collisione sembra arrivare prima della luce, molto prima che l’occhio umano riesca a processare le immagini della sagoma arancione che resta in piedi, e di quella bianca che si accascia al suolo.

 

Mentre torreggia sul corpo attonito di Okoye, Steve Atwater non sorride, ma guarda con disprezzo quello che resta dell’incubo nigeriano, mentre sputa fuori i quintali di adrenalina che ha in corpo ululando un «YEAAAAAAAAAAAAAAH» che si perde e si amplifica nell’eco di un Mile High completamente impazzito.

Christian Okoye resta a terra per qualche secondo, completamente stordito, forse più dalla presa di coscienza che qualcuno abbia sfidato il suo dominio fisico che dalla botta in sé. Quando si rialza da terra, è ancora il gigante di prima, ma non incute più la stessa paura.

Poco importa che in quel periodo, sotto quei paraspalle enormi, si nascondeva un uomo fragile come può essere solo chi ha appena seppellito un figlio neonato. Poco importa che, senza lo sgambetto involontario di un Bronco Okoye avrebbe potuto piantare entrambi i piedi al momento del contatto (e non uno solo, come si può vedere dal replay posteriore) e probabilmente in quel caso Atwater avrebbe pagato la sua incoscienza con una frattura alla clavicola. Quello che importa è che da quel momento l’incubo nigeriano ha smesso di sembrare invincibile, e per questo di terrorizzare. E che cos’è un incubo che non fa più paura?

C’è un altro proverbio nigeriano che recita «Quando cadi, sappi che è stato Dio a spingerti».

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Quel colpo ha fuso per sempre i destini di Atwater e Okoye disegnando per entrambi traiettorie che fino a pochi secondi prima erano difficili da immaginare. È stato l’highlight principale della carriera che ha portato Atwater a Canton, Ohio, dove tra qualche mese sarà introdotto nella Hall of Fame; allo stesso tempo ha messo Okoye sulla strada del ritiro, arrivato solo due anni dopo a causa del peso delle botte subite in una carriera durata solo sei stagioni.

Okoye non lo ha mai ammesso apertamente, ma quella collisione gli ha permesso di uscire da un personaggio che cozzava con il suo animo gentile fuori dal campo. Il football è mai stato l’amore sportivo di Okoye, che in America ci era arrivato per diventare olimpico di uno sport in cui non c’è una briciola di contatto, il lancio del disco. Che finisse a giocare a football era quasi inevitabile, perché Il suo fisico era troppo esagerato perché qualcuno non finisse per dargli un pallone ovale in mano. Come ha scherzato il suo compagno Nick Lowery, Okoye «era talmente grosso che forse lo schema migliore sarebbe stato fargli lanciare di peso il quarterback oltre la linea di scrimmage». Dopo il ritiro, giocare in NFL non gli è mancato per niente. Gli è mancato ridere con i compagni di squadra, gli è mancato il ruggito di Arrowhead dopo ogni touchdown, non gli è mancata mai la ferocia di una sport che, pur dominando, non ha mai capito fino in fondo. Al contrario di Steve Atwater, che sbattendolo a terra quel lunedì sera lo ha tolto da un percorso che non era più il suo.

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Alberto Cantù

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Un Commento

  1. Complimenti per il racconto davvero magico . Due grandissimi di questo sport che pur restando sempre bellissimo ha visto , secondo me , il proprio apice proprio in quell’epoca . Ritorno al passato . Grazie !!!

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