Penn State: talento e tradizione

L’incredibile avvio di stagione dei Nittany Lions di Penn State, tra conferme, novità e sorprese.

Buon sangue non mente. I proverbi spesso subiscono una mistificazione di significato al fine di poterne fare utilizzo a proprio comodo. Forse neppure in questo caso quello scelto è il più azzeccato (in fondo non è tutto sangue di Joe Pa quello che scorre nelle vene dei Lions), ma rende abbastanza bene l’idea del concetto che i Nittany Lions hanno voluto ribadire con fermezza in queste prime sette giornate di college football: “WE ARE PENN STATE!”

“Essere Penn State” non vuol dire solo fare parte di una squadra, o di un ateneo: vuol dire appartenere a qualcosa di più grande, qualcosa che va oltre al semplice gioco. E per quanto queste due righe possano apparire banali, perché applicabili indistintamente a quasi tutti i college nazionali, è proprio in esse che risiede la gran parte della romantica bellezza del college football: quel “qualcosa”, infatti, assume significati diversi da università ad università.

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Non è mai possibile prescindere dalla storia nell’analisi di un qualsiasi evento, sia esso sportivo o meno. Per questo la citazione di Joe Paterno, nelle prime righe, non è casuale. Ma c’è stata anche (e c’è tutt’ora) una Penn State post-Paterno, che, pur avendo perso per sempre la sua guida tecnica (e spirituale), non ha perso, e non perderà mai quella forza interiore che abbiamo definito “essere Penn State”. Il concetto così espresso potrebbe apparire esoterico, ma qualunque sportivo sa bene che giocare per una causa, per un’ideale, e mossi da un vigoroso sentimento di appartenenza porta il rendimento collettivo ad un livello superiore.

Un esempio? La stagione da 8-4 del 2012 – quella successiva allo scandalo Sandusky – con una classe di freshmen praticamente inesistente, un coach nuovo, una miriade di walk-on (ex e non) titolari, a partire dall’eccentrico quarterback Matt McGloin, ed una squalifica di un anno dai bowl. Okay, non la stagione migliore della storia, ma, valutate le circostanze, quanti avrebbero potuto fare meglio?

Ovviamente, poi, vi è l’importanza dell’educazione, posta sempre (o quasi) in primo piano, l’importanza del preferire i ragazzi della zona – sono rari (anche se stanno, ahimè, aumentando) i recruit al di fuori del circondario (Pa, NJ, NY, Va, Md, Oh) – e l’estrema importanza della tradizione, ferocemente rivendicata, per esempio, tramite l’imposizione allo sponsor tecnico di non inserire i nomi dei giocatori sulle divise, anche se le analisi di mercato intimerebbero di farlo.

Torniamo al presente.

Siamo qui, infatti, per parlare dell’incredibile (come definito in apertura) avvio di stagione dei Lions. Alla luce di quanto detto sulla storia di questo ateneo, “incredibile” non parrebbe essere un aggettivo idoneo, eppure, nonostante il pedigree della squadra, a inizio anno erano pochi quelli che riponevano fiducia nel gruppo di coach Frankiln.

I motivi del generale scetticismo estivo attorno a State College erano numerosi, a partire dalla perdita in un sol colpo del quarterback Trace McSorley e del runningback Miles Sanders (un anno dopo quella di Saquon Barkley), che ha aperto la strada ai sophomore Sean Clifford (nel ruolo di QB) e Journey Brown (nel ruolo di RB) e al freshman Noah Cain (sempre RB), sui quali erano riposte grandi speranze, ma anche una logica consequenziale incertezza.

Oltre ai sopracitati, ad alimentare i dubbi degli scettici, vi era l’inusuale gioventù dell’intero reparto offensivo, e di gran parte di quello difensivo: la comune credenza era che il roster, seppur di estremo talento, non fosse “pronto” per affrontare i match fisicamente e mentalmente estenuanti della BigTen.

Dubbi che, alla luce dei fatti finora accaduti, sono stati letteralmente spazzati via, lasciando spazio solo al grande stupore e alla consapevolezza, ancora una volta, di aver sottostimato il fattore “essere Penn State”, autentico protagonista di questo avvio di stagione (oltre che di questo articolo).

Ovviamente, visto che non si tratta di un romanzo di fantasia, ma di una reale storia di sport, non possiamo limitarci a liquidare la questione celandoci dietro a questo vacuo concetto, ma cercheremo di essere un po’ più concreti nella disamina delle cose che in questa versione dei Nittany Lions stanno funzionando.

Partiamo dalla difesa

Michigan v Penn State

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Di sicuro, già in estate, riguardo a questo reparto lo scetticismo era relativamente ristretto. Il duo formato da Brent Pry e Tim Banks (Defensive e Co-defensive Coordinator) per il quarto anno consecutivo pare aver sotto totale controllo la situazione. Il roster è di assoluto talento in ogni sotto-reparto ed è abbastanza profondo per garantire sempre ricambi freschi per lo stile aggressivo imposto alla difesa da Pry. Il termine esatto col quale lo stesso Pry ha definito il suo stile difensivo è “reckless”, che potrebbe essere tradotto con “spericolato” o “temerario”, e che di fatto significa non avere alcun riguardo per il proprio corpo, ed essere disposti a sacrificarlo, se necessario alla causa. Ecco perché è stata fondamentale in queste prime sette settimane la possibilità di ruotare ben 12 uomini di linea e 8 linebacker a gara in corso. Una difesa che dal punto di vista tattico non ha nulla di rivoluzionario: una classica 4-3 che gioca prevalentemente una Cover 2 a uomo. La differenza, dunque, la fanno gli uomini e il loro modo reckless di interpretarla.

Altra indubbia qualità del reparto difensivo è la velocità, di testa prima e di gambe poi. Impressionanti i 4.33 secondi e i 4.41 fatti registrare rispettivamente dal defensive end (!) Jayson Oweh e dal linebacker Micah Parsons sulle 40 yard. A completare il pacchetto di playmaker difensivi vi sono il difensive end Yetur Gross-Matos (già 5.5 sack), il linebacker Cam Brown (38 tackle), i cornerback Tariq Castro-Fields e John Reid (2 intercetti a testa finora), e le safety Lamont Wade e Garrett Taylor.

Una difesa che, così composta, ad ora si piazza al terzo posto come scoring defense nella nazione, coi soli 10 punti concessi di media a gara (alle spalle di altre due squadre della BigTen: Wisconsin e Ohio State), al quarto posto come rushing defense, con sole 66,3 yard concesse a partita, e al dodicesimo come total defense (282,1 yard). Numeri davvero impressionanti, che fanno impallidire quelli pur discreti della passata stagione.

Veniamo dunque all’attacco

sean clifford penn state

Nota dolente. Si credeva. Invece, seppur neanche minimamente ai livelli della difesa, anche dall’attacco sono arrivate risposte più che positive, e forse, pure inattese.

Ovviamente la prima di esse è stata quella del quarterback Sean Clifford: dopo l’amichevole giocata in week 1 (79-7 contro Idaho State, squadra della FCS), il ragazzo ha pagato un po’ di emozione sia nella successiva gara con Buffalo che nel rivalry game di week 3 con Pittsburgh, ma, superati i due ostacoli, ed acquisita fiducia, pare essersi lanciato definitivamente verso una stagione gloriosa. La maturità dimostrata dal sophomore da Cincinnati, Ohio, è forse ciò che più di tutto ha stupito: è sempre sotto controllo, non si lascia mai prendere dall’euforia del momento (forzando, magari, alla ricerca di improbabili big plays), né dallo scoramento in seguito a qualche lancio, o addirittura qualche drive, andato male. Prendiamo, per esempio, il secondo tempo della partita di sabato sera scorso coi Wolverines: terribile, per certi aspetti, ma confortante per altri. Lanci sbagliati, linea poco solida e qualche drop, ma nessun errore da matita blu del quarterback, che si è limitato ad attendere il momento giusto per lanciare a rete l’irraggiungibile KJ Hamler. Pragmatico e paziente, pure in un momento decisamente negativo per lui e per i suoi compagni di reparto.

Vi è poi da sottolineare l’impatto devastante del freshman Noah Cain, cui è stata lasciata l’eredità alquanto pesante dei suoi due predecessori (Sanders e Barkley), ma che ha dimostrato di avere spalle abbastanza robuste da sostenerla.

Per quanto riguarda il pacchetto ricevitori un nome spicca su tutti, ed è quello già fatto in precedenza: KJ Hamler. Inutile sproloquiare su di lui. Le 6 ricezioni per 108 yard e 2 touchdown della gara con Michigan dicono solo in parte le clamorose doti di questo ragazzo. Nella stessa gara si è anche visto cancellare un ritorno da kickoff in touchdown, nel quale aveva corso le 100 yard del gridiron, con l’ingombro delle protezioni e del pallone da portare, e zigzagando leggermente per evitare la tenera difesa gialloblù, in 10,99 secondi.

La considerazione tattica da fare sull’attacco dei Lions riguarda invece il compimento del processo, iniziato sei stagioni fa con l’arrivo di coach James Franklin, di passaggio dal Pro-style Offense di Bill O’Brien, allo Spread Offense che i Lions giocano oggi. Franklin è stato straordinario nel riuscire a graduare il cambiamento, passando per diverse stagioni di quello che i cultori denominano Multiple Offense, ossia uno stile ibrido, considerato da molti pessimo per il suo essere “né carne né pesce”, e che, nel caso di Penn State, si è basato per anni sullo schema “palla a Saquon e vediamo cosa succede”.

Ora l’attacco dei Lions, pur non essendo uno dei migliori della nazione, ha una sua identità tattica, a prescindere dal nome e dalle qualità dei suoi interpreti.

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Pur non avendo i nomi altisonanti delle stagioni passate, siamo di fronte alla più bella edizione dei Nittany Lions della gestione Franklin, anche meglio di quella campione della BigTen del 2016. Una squadra dalla mentalità vincente, una mentalità che va oltre la riduttiva sintesi giornalistica della “1-0 mentality” (ossia il trito e ritrito “pensiamo ad una partita alla volta” che sentiamo ogni domenica anche sui campi nostrani), e che si fonda essenzialmente sulla maturità – come evidenziano, tra le altre cose, le sole 4,71 penalità subite a gara. Una mentalità che alimenta ed è alimentata dall’ambiente caloroso e bucolico nel quale State College è inserita, ricco di tradizione e di passione.

Guardatevi, se non l’avete fatto, perlomeno un’immagine dei 110’000 del Beaver Stadium nel White Out di sabato scorso, e scioglietevi come è giusto che sia davanti a quello che è, e sempre sarà, uno degli spettacoli più belli e impressionanti che lo sport possa regalare.

WE ARE PENN STATE!

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