Cari Minnesota Vikings, da quasi trent’anni compagni di viaggio…

Lettera ANONIMA che abbiamo trovato all’interno di un pacco pieno di cornetti (non quelli da mangiare) recapitato davanti alla redazione di Huddle Magazine, avvolto in una sciarpa gialloviola…

Cari Minnesota Vikings,

da quasi trent’anni ormai siete miei fidati compagni di viaggio. No, non avrei mai pensato che la nostra relazione durasse così tanto. Al contrario, ho sempre creduto che sarebbe finita prima o poi. Sfumata, evaporata con la maturità. Non è andata così. Anzi. Ha preso forza, si è rinvigorita con i ricordi, i momenti indimenticabili che abbiamo vissuto insieme.

Quando è cominciato è difficile stabilirlo. Di sicuro aveva già affondato le sue radici nel 1992, quando i Washington Redskins vincevano il loro terzo Super Bowl al Metrodome. Per me quello era già il mio stadio. Ed era stata una sciagura vedervi perdere la wild card contro i futuri campioni con in campo il quarterback di riserva Sean Salisbury. Al momento pensai che non avrei mai potuto vedere di peggio. Quante volte ho capito di aver sbagliato quel giorno.

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Salisbury Vikings

Avevo seguito la stagione, però. Ero informato.

Quindi possiamo dire con certezza che tutto è iniziato prima. Con costanza direi l’anno prima, perché Gannon era il mio quarterback mentre di Wade Wilson per anni ho ricordato solo il numero 11. E poi Terry Allen era il mio giocatore preferito. Nella posizione che preferivo, il runningback. E di quella squadra ancora oggi ricordo quasi tutti.

Non ho nemmeno idea di quale sia il motivo che mi ha legato a voi. Parliamoci chiaro, in quegli anni le franchigie più cool erano altre: San Francisco, Dallas, Buffalo… La prima partita che ricordo in televisione è un Dallas Cowboys – Philadelphia Eagles. Non è ovviamente questa la scintilla, insomma. Va detto che la mia memoria non aiuta. Sono foschi i ricordi dei Super Bowl vinti da 49ers di Montana e dell’errore del kicker dei Bills.

Ma ci sono. Sarà stato il viola delle divise. O la vaga allitterazione Mantova – Minnesota, con la “targa” MN uguale. In fondo che importa? Siamo stati subito voi e io. E chi ci sta intorno, perché ho tartassato tutti: famigliari, amici… professori perfino: ricordo di aver disegnato vari caschetti con il nostro amato corno al primo anno di liceo per un compito di disegno. E le corse con mamma nell’unico centro commerciale del tempo ad acquistare il cappellino. E l’orgoglio di scorgere il vostro casco nella stanza del protagonista della serie tv che tutti i miei coetanei seguivano: Beverly Hills 90210.

Qualche anno fa, nel 2013, ci siamo incontrati a Londra. Un privilegio. Esperienza unica. Anche per questo ero pronto a una follia quest’anno, l’avevo ideata quando fu annunciato che il Super Bowl LII sarebbe stato giocato nel nostro nuovo fantastico stadio. “Per i miei 40 anni mi regalo il viaggio al Super Bowl di Minneapolis!” Tutto quadrava.​ Cifre tonde e coincidenze che si rincorrono.​ Non è stato fattibile.​ ​Ma siete ancora in tempo a farmelo voi il regalo. Un dono che non avrei mai sognato quando ipotizzai la mia vacanza per gli “anta”.​

​Ora, vi starete chiedendo perché vi scrivo proprio adesso. Beh, siamo alla vigilia di un Championship. Il quarto che vivremo insieme. Il Championship per i tifosi gialloviola della mia generazione è la partita zenit. Non abbiamo vissuto in prima persona i quattro Super Bowl persi e l’epopea dei fantastici anni ’70. Quanto vorrei aver visto Jim Marshall, Alan Page, Carl Eller, Fran Tarkenton, Chuck Foreman e gli altri grandi del passato. Una dinastia dimenticata, perché e sempre venuto meno l’anello. Come fosse quello forgiato da Sauron​.​​

Abbiamo atteso con ansia spasmodica di poter tornare a giocarci la partita delle partite, con i timori annessi. Qualcosa però è sempre andato storto. Di più: tutte le volte il mondo ci è franato addosso nei modi più incredibili.

Certo ci sono stati altri momenti dolorosissimi, ogni tifoso ha una sua particolarissima e soffertissima classifica. Io posso elencarne alcuni in ordine sparso.

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La sconfitta contro Philadelphia nel 2005, proprio la sfida in famiglia che ritornerà domenica, visto che il fratello tifa Eagles. L’eliminazione dai playoff per mano degli Arizona Cardinals, già belli che fuori dai giochi, all’ultimo lancio, nell’ultimo centimetro di campo, dell’ultima giornata: ko per un punto. La wild card persa in casa dei Giants dopo essere stati avanti per più di metà partita. Ricordo bene la telecronaca, con Flavio Tranquillo e “mai vendere la pelle dell’orso prima che sia morto”. Vi ho amato follemente in quella versione, con Jim McMahon e la sua visierina e i suoi occhiali da sole. L’altra wild card, lasciata ai Packers, giocata con Joe Webb quarterback (ecco visto che si poteva fare peggio di Salisbury, mi sono detto 20 anni dopo…). Proprio nell’anno delle 2000 yard di Adriano (sì l’ho sempre chiamato affettuosamente all’italiana). Una squadra così così, con un giocatore fuori dalla norma.

O ancora gli sberleffi per le festicciole in mezzo ai laghi.

Altri potranno ricordare con maggior orrore le debacle a St.Louis contro i super Rams o la sberla subita dai Bears al Metrodome nel 1995, un capodanno pessimo. È parecchio fornita la dispensa da cui attingere.

Ma i Championship… quelli sono lì: tre. E ci accomunano tutti, noi freschi​ quarantenni italiani​, troppo piccoli nell’87 per vivere quello perso con i Redskins​.

1999. Un record da non credere: 15-1. La miglior regular season di sempre. Un attacco come mai prima fino a quel momento. Divertimento puro. Campioni incredibili. Cunningham, Robert Smith, Moss, Carter, Randle, i due McDaniel, Steussie, Gary Anderson. Ecco, Anderson. Arizona annientata nel Divisional. Gli angry birds in arrivo nel Championship al Metrodome. Una partita che è rimasta per anni nel mio comò in salotto. Avevo registrato il match su VHS perché non potevo guardarlo in diretta. Ma ero corso a leggere la cronaca e vedere gli highlights. Quell’errore. Quel maledetto, solo errore del nostro kicker che non aveva mai sbagliato in stagione. Una quindicina di primavere dopo ho buttato giù il magone. Spolverato il videoregistratore, prima che si smagnetizzasse ho guardato quella partita.

2001. Diversa. Completamente diversa. Ugualmente straziante. La squadra era praticamente la stessa di due anni prima, senza però la brillante mente di Brian Billick a guidarvi in attacco. Con tutto il talento che c’era però il Championship è arrivato. Amici in salotto. Tutti in poltrona. Peccato che non siate mai arrivati voi, miei Vikings. Pronti, via: intercetto. I Giants sono già 14-0 in due minuti. Culpepper orrendo: intercetti (3), fumble. Un disastro. All’intervallo è già tutto finito: 34 a niente. Un incubo. Un altro incubo. Vincerà quel Super Bowl (uno dei peggiori mai visti) proprio Brian Billick con Baltimore. E il ciclo dell’indimenticato grandissimo Dennis Green vede il tramonto, che arriva la stagione seguente. I Giants ufficialmente una bestia nera.

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2010. Gli anni belli di Green, in cui i playoff sono la piacevole normalità (come uscire troppo in fretta, però), diventano un carillon da aprire per trovare conforto nella memoria. Con le gestioni Tice e Childress la post season è un mezzo miracolo. Fino a Favre. Ecco, Favre riaccende la luce. Ed è una luce intensa, fortissima, abbagliante. Con lui e Peterson la musica che sapete suonare diventa una melodia dolcissima di cui non ci si stancherebbe mai. Fino a quella maledetta partita contro i Saints, fresca di sportiva vendetta. Una sfida viziata da troppe botte, che successivamente si scopriranno tutt’altro che innocenti. L’intercetto sciagurato lanciato dal numero 4 spegne ogni velleità. Il team del destino è New Orleans. Per noi gialloviola si spalancano altre stagioni più agre che dolci. Coach Frazier è una delusione.

E allora veniamo a oggi cari amati Vikings, alla sfida di Philadelphia, piovuta in un così miracoloso modo. Noi ci saremo, lì a sostenervi. Come sempre da quasi trent’anni a questa parte. Chissà che il destino stavolta non scelga davvero noi. No, state tranquilli. Siamo troppo avvezzi alle delusioni per illuderci. Però avremmo voglia di sana rivalsa. Pensiamo anche di meritarla. Nella nostra testa di tifosi è chiaro che frullano anche pensieri terribili ma per adesso non vogliamo pensarci, perché…

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Siamo stati fortunati a scegliere il viola. Abbiamo vissuto emozioni indicibili. Abbiamo amato campioni grandissimi. Abbiamo sofferto, sì, ma questo fa parte di noi e ci aiuta ad apprezzare le gioie quando arrivano. E non sapete che voglia abbiamo di continuare a gioire. Skol! Bring it home!

ANONIMO

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